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Autore: FRAMAR    12/05/2015    29 recensioni
Sono un buono a nulla, un fallito. A undici mesi abbandonato dai genitori, a diciotto anni buttato fuori casa da quelli adottivi. La mia musica è morta, nessuno la vuole ascoltare. Poi un giorno quasi dal nulla è spuntato..
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Dedicato alla mia amica Dinda91, che vive solo di musica, e all'altra mia amica Coldnight, che attualmente ha in corso un bel racconto basato sulla musica (Clouds) sempre amante della vera musica.
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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CHI FERMERÀ  LA MUSICA


 
 
Dopo aver ripetuto il motivo più volte, tentando diverse variazioni, abbandonai le mani sulle ginocchia, fissando avvilito la tastiera.

“Forse sono soltanto un illuso, anzi siamo, Gabriele ed io” mormorai stancamente. Incominciavo a non avere più tanta fiducia nel mio talento e a temere che, nonostante il mio entusiasmo, le mie canzoni non valessero proprio nulla.

“Se si pensa al successo di certe canzoni idiote!”, sosteneva Gabriele. “Sono convinto che è soltanto colpa tua. Un po’ si tratterrà di sfortuna, ma soprattutto è colpa della tua mancanza di senso pratico. Chi vuoi che arrivi mai a sapere che esisti, se passi il tuo tempo a suonare per te solo le tue canzoni? Devi convincere qualcuno che sia in grado di aiutarti, intendo”.

“Lo sai bene che ho tentato !”, mi difendevo io, “ma nessuno ha tempo da perdere ascoltando la mia musica, nessuno mi prende sul serio. E sapessi com’è umiliante andare ad elemosinare un po’ di attenzione!”.

“Sei troppo orgoglioso”, mi rimproverava lui: “al primo no ti sei sentito ferito e per non esporti ad altri rifiuti ti sei chiuso qui dentro a suonare, suonare e basta. Aspetti  che siano gli altri a venire a cercarti!”, concludeva invariabilmente.

Quei discorsi che si ripetevano ogni giorno finivano per amareggiarci entrambi e ci lasciavano tristi e sfiduciati. Da molti mesi, ormai stavamo assieme, ma il mio misero impiego che io, francamente, tutto preso dalla mia passione musicale, non cercavo neppure  di migliorare, mi consentiva di vivacchiare alla meglio da solo. Tutte le nostre speranze si fondavano sulle canzoni che componevo a getto continuo, con inesauribile entusiasmo e rinnovata fiducia ogni qualvolta mi passava per il capo un nuovo motivo.

Quando eravamo più avviliti e depressi, cercavamo di ritrovare i nostri sogni sul ritmo di quelle musichette lievi che accompagnavano i versi, ora gai, ora melanconici, che spesso io stesso componevo. Ma Gabriele si stancò di sognare soltanto. Senza dirmi nulla decise di agire al posto mio e si recò da un editore. Non era uno dei più noti nel campo musicale, ma abbastanza quotato e ciò che più contava era uno che aveva dimostrato un certo intuito nello scoprire giovani promesse.

Non ho mai saputo esattamente come andò, ma un giorno Gabriele venne da me in preda ad una visibile eccitazione. In silenzio, mi porse un foglio di musica e quando scoprii che si trattava di una mia canzone, rimasi a contemplare la bella copertina a colori che faceva da sfondo al titolo, godendo una felicità così intensa e completa come non avevo mai provato. Le mani mi tremavano per l’emozione, poi sollevai uno sguardo umido di commozione e di gratitudine su Gabriele, senza riuscire a pronunciare una parola. Era la mia prima canzone che veniva stampata.

Ne seguirono altre, ma purtroppo, ad una ad una, caddero tutte quante nella più assoluta indifferenza, senza lasciare traccia. Se pure qualche volta venivano suonate in pubblico. Nessuno le ascoltava, nessuno ne avrebbe mai ricordato nè il titolo né l’autore. All’euforia  dei primi tempi seguì di nuovo lo scoraggiamento, la sfiducia.

Le speranze che erano sorte a frotte svanirono a poco a poco. L’unica cosa che ancora mi sosteneva e mi spronava a continuare era la fiducia che mi dimostravano Gabriele e l’editore. Questi era un giovane pratico e dinamico, dalla mente quadrata e dallo spiccato intuito per gli affari. Ebbene, mi dicevo, se Prandelli insisteva nel pubblicare le mie canzoni, voleva dire che era convinto del loro valore, non era certo il tipo da rincorrere illusioni!

Con Prandelli diventammo buoni amici, Gabriele era sempre tenero e dolce e io, pensando a loro, riprendevo fiducia. Le canzoni si susseguivano a intervalli regolari, anche se continuavano a subire la stessa sorte. Le pochissime copie vendute, le moltissime inviate, in omaggio si perdevano nel nulla. Invano sognavo sentirle un giorno o l’altro fischiettare per la strada, invano andavo a suonarle io stesso in qualche locale dove c’era un pianoforte inattivo. Nessuno mi chiedeva mai di chi era quella musica e tanto meno di ripeterla. Se qualcuno mostrava di accorgersi che suonava era sempre per chiedermi di piantarla con “quella lagna” e di suonare, se proprio ci tenevo, qualche bella canzone.

Passò in questo modo quasi un anno. Nonostante tutto, il mio magico mondo mi teneva un po’  al di fuori della realtà e mi aiutava a tirare avanti. Poi c’erano l’amico Prandelli e Gabriele, la loro fiducia era il mio ossigeno, che mi impediva di considerarmi un fallito. Ad ogni motivo nuovo che mi veniva in mente mi ripetevo che quella sarebbe stata la volta buona.

Per facilitarmi il lavoro, Prandelli aveva noleggiato un buon pianoforte e me lo aveva mandato a casa. Fino allora, non disponendo di uno strumento mio, ero sempre andato a suonare in casa di una vecchia parente scorbutica che non nascondeva il suo malumore quando le sedute si prolungavano un po’ di più del consueto.

Da quando avevo il pianoforte in camera mia, mi sentivo meno solo e non sarei mai uscito. Gabriele aveva preso l’abitudine di raggiungermi là e spesso veniva insieme a lui Prandelli.

Da un po’ di tempo, Gabriele ed io non parlavamo più dei nostri progetti personali e non facevamo più l’amore,  ma io pensavo che era  la presenza dello strumento che ci costringeva quasi a tenere la nostra conversazione su un unico tema, che peraltro non diventava mai monotono per me: la musica, le canzoni, quelle che avevo scritte, che stavo scrivendo o che avevo in mente in modo ancora vago e confuso. Gabriele mi ascoltava paziente e mostrava sempre lo stesso interesse. Ma della nostra vita futura insieme non parlavamo mai.

Anche quella sera mentre attendevo Gabriele, ripetevo lo stesso brano, tentando nuovi arrangiamenti. Dovevo musicare dei versi nostalgici e un po’ tristi, ma non lo sentivo come avrei voluto. Mi sembrava che le note fossero fredde, slegate e anche i versi, su quel motivo, diventassero banali. Finalmente giunse Gabriele; rispondendo distrattamente al suo saluto ripresi il brano dal principio. Lui ascoltò in silenzio finché io, scoraggiato, staccai le mani dalla tastiera e chiusi rabbiosamente il pianoforte.” È inutile, non va, non è come lo sento io. Non riesco ad esprimere i miei sentimenti, non ci riesco…”.

“Ma no Alex, è soltanto perché stai ripetendo da ore che non ti piace più, a furia di sentirlo non ha più alcun senso per te” osservò Gabriele.

Lo guardai illuminandomi di speranza. “Tu che lo senti per la prima volta” chiesi un po’ ansioso, “non lo trovi banale?”.

Gabriele mi guardò un momento, accorato, forse per quel mio modo di mostrarmi a lui così indifeso e vulnerabile. Sospirò “Ma no, mi sembra invece abbastanza originale ed orecchiabile” assicurò con stanchezza. Aveva un tono forzato che io li per li non avvertii. Avevo troppo bisogno di credere nelle sue parole per badare a certe sfumature.

Se ne andò più presto del solito, lasciandomi ancora davanti al pianoforte e nel salutarmi indugiò a guardarmi dalla soglia, mi parve esitare un momento prima di richiudere la porta, come se fosse sul punto di dirmi qualcosa, ed i suoi occhi erano velati di tristezza. Soltanto molto più tardi mi accorsi della lettera posata sul pianoforte. La rigirai un momento tra le mani, incerto e titubante. Era chiusa e senza indirizzo. Doveva averla lasciata Gabriele. Finalmente, provando un oscuro senso di angoscia e di oppressione mi decisi ad aprirla.


“Caro Alessandro, sento che anche stasera non avrò il coraggio di dirti nulla, per questo ti scrivo. Io e Prandelli ci amiamo e abbiamo deciso di metterci insieme. Ci siamo accorti subito di amarci, fin dal nostro primo incontro e non avremmo voluto ingannarti nè farti soffrire. Per questo pregai Prandelli di attendere e nel frattempo aiutarti. Speravo che con il suo aiuto tu avresti avuto modo di affermarti e allora sarebbe stato meno doloroso per te rinunciare al mio amore. Avresti trovato un compenso nel successo. Ma è passato ormai un anno e Prandelli non vuole più continuare così. Dice che tra l’altro non è onesto continuare a illuderti e non posso dargli torto. Perdonami Alessandro, non è colpa mia se non ti amo più. Tu hai la tua musica e ti auguro che da questa ti vengano tutte le soddisfazioni che attendi e che meriti. Addio Alessandro”.


Abbattei con il volto tra le braccia sulla tastiera traendone un suono lugubre che mi ferì come una risata irridente. Rimasi a lungo così, senza piangere, sentendomi tutto irrigidito, vuoto, distrutto.

La rivelazione di quell’inganno, un doppio inganno, mi piombava addosso improvvisa come una catastrofe trovandomi assolutamente ignaro e impreparato. Era un crollo che travolgeva tutto in me, lasciandomi inebetito e stroncato.

Gabriele se n’era andato, era uscito dalla mia vita e ciò che lasciava dietro di sè non lo riguardava né interessava più. Questa constatazione mi faceva sentire smarrito e derelitto come un bambino abbandonato.

Dal crollo di tutte le mie illusioni, di tutti i miei sogni, riemersi squallido ed inutile come un guscio vuoto. Mi sentivo improvvisamente invecchiato e pieno di amarezza.

Quando rialzai il capo mi pareva che fossero trascorsi degli anni dal momento in cui Gabriele con la voce tremante (come avevo fatto a non accorgermene?) mi aveva salutato per l’ultima volta. Mi guardai attorno stralunato, stupito di trovare ogni cosa al suo posto  mentre dentro di me c’era soltanto un mucchio di rovine. In un impeto di rabbia accartocciai tra le mani tutti i fogli di musica che mi trovai intorno, ne feci una grossa palla che gettai nel caminetto. Rimasi a guardare i fogli che bruciavano finchè non diventarono tutti neri e la fiamma si spense. E allora li colpii con le molle ed i fragili avanzi franarono e furono soltanto un mucchietto di cenere. Ecco cosa rimaneva delle mie canzoni e dell’amore di Gabriele, i due elementi indissolubili che erano stati l’essenza della mia vita. Non c’era da stupirsi che la fine dell’uno provocasse anche la fine dell’altro. Gabriele era stato l’unica luce nella mia squallida e grigia esistenza, senza quella luce anche la musica non aveva più senso. Ed ora restava soltanto un mucchietto di cenere.

La stanza mi parve ad un tratto diventata più tetra ed angusta, mi sentivo soffocare. Uscii, presi a vagare camminando a caso per strade sconosciute, ma anche fuori quel senso di oppressione non si attenuava, mi pareva che tutto incombesse su di me, le case, gli alberi scheletrici, il cielo plumbeo.

“Tu hai la tua musica”, aveva scritto Gabriele e forse, in buona fede, sperava che avrei trovato in quella un po’ di conforto. Invece sentivo che non avrei più scritto una sola nota. Ora che lui, rivelandomi la verità circa la vera natura dell’aiuto di Prandelli, mi aveva tolto anche ogni illusione, non sarei più stato in grado di scrivere musica. Ormai sapevo che le mie canzoni erano state pubblicate soltanto perché Gabriele pensava di compensarmi in tal modo dell’amore che si era estinto nel suo cuore. Prandelli non aveva mai avuto un minimo di fiducia in esse. Io solo ci avevo creduto e per rincorrere un’illusione avevo perduto Gabriele. Il giorno seguente feci portare via il pianoforte.

I giorni ripresero a scorrere lenti e monotoni ed io avevo ripreso apparentemente una vita normale, senza la musica. Finché ero in ufficio la mia sofferenza restava un po’ latente, ma riemergeva appena uscivo. Le ore della sera erano le peggiori. Cercavo disperatamente di non pensare alla desolazione del mio avvenire, ora che non avevo più nulla da attendere, più niente in cui sperare, più nessuno che mi rivolgesse una parola di incoraggiamento, che mi aspettasse da qualche parte. Il ricordo di Gabriele, del suo dolce sorriso, della sua tenerezza, mi attanagliava il cuore. Avrei voluto poter piangere, abbandonarmi al sollievo di uno sfogo che mi sciogliesse un poco il gelo che mi sentivo dentro, ma non potevo, mi sentivo completamente inaridito.

Una sera capitai per caso in un Bar di una vecchia strada del centro. Era un locale vecchio stile frequentato da una clientela tutta particolare formata da intellettuali e artisti. Il freddo e la stanchezza mi avevano spinto là dentro. Mi rifugiai in un angolo in penombra e dopo un poco mi accorsi che in quell’angolo, seminascosto dietro un gruppo di piante ornamentali, c’era un pianoforte, ebbi la sensazione di essermi imbattuto in un vecchio amico che tacitamente mi invitasse ad accostarmi a lui per cercare un po’ di conforto alla mia solitudine. Il desiderio di sentirne la voce mi spinse irresistibilmente. Quasi di soppiatto scivolai nell’angolo e sollevai il coperchio, la tastiera parve sorridermi incoraggiante. Con commozione e con la mano ancora esitante, trassi i primi accordi, poi le note presero a fluire via via sicure mentre le dita scorrevano agili e leggere sulla tastiera. Era quasi come se la mente non vi avesse parte. Avevo la sensazione di non creare quella musica ma di “leggerla”, dentro di me. La sentivo come se mi fosse già nota. Era una melodia profondamente triste, che mi sgorgava dall’anima.

Intorno, senza che io me ne rendessi conto, il brusio della conversazione si era affievolito fino a spegnersi del tutto. Non mi accorsi che tutti mi stavano ascoltando. Io mi sentivo infinitamente lontano da tutto, solo con quella musica che si materializzava quasi per prodigio sotto le mie dita.

Da un gruppo di clienti si staccò un ragazzo della mia età che mi si accostò in silenzio e rimase ad ascoltare appoggiato allo strumento. In un momento in cui la musica era più sommessa, mi chiese.

“Qual è il titolo di questa composizione?”.

Io non volsi neppure lo sguardo, rimasi con gli occhi assorti, fissi nel vuoto e continuai a suonare ripetendo il tema centrale della mia improvvisazione. “Lacrime”, risposi in un sussurro.

Infatti quello stillicidio di note accorate, interrotte ogni tanto da una impennata aspra o da una cascata irruenta ed angosciosa che si stemperava in una specie di lamento desolato, sembrava proprio un pianto sconsolato, rotto da impeti di ribellione. Era il pianto di un ragazzo che non sapeva piangere con le lacrime, erano lacrime che stillavano direttamente dal mio cuore, dalla mia disperazione. Ciò provocava in me una sorta di sollievo che mi lasciava sì esausto e con l’animo pervaso di malinconia, ma allo stesso tempo libero da quell’inumano e pietrificante dolore di prima, quando mi pareva di essere spento e distrutto.

“Chi ha scritto questa musica?”, chiese ancora lo sconosciuto

“Nessuno” risposi brevemente.

“Vuol dire che stai improvvisando?, fece quello stupito. E poiché non rispondevo continuò:

“Dovresti  scriverla subito, potresti dimenticartene”.

“Non scriverò mai questa musica. Resterà soltanto dentro di me, per me”, risposi con ostilità.
Il ragazzo rimase ancora un poco ad ascoltarmi, poi si allontanò in silenzio.

Continuai a suonare finché la sala fu deserta e rimase soltanto un cameriere che armeggiava silenziosamente intorno ai tavoli. Io continuavo a ripetere la mia melodia, riprendendo il tema con infinite variazioni, come un invasato.

Quando il cameriere mi si avvicinò per dirmi che doveva chiudere, lasciai ricadere il coperchio sulla tastiera con un tonfo e me ne andai. Camminavo un po’ barcollando, come fossi ubriaco. Mi sentivo sfinito, ma con il cuore più leggero come se veramente un lungo, benefico pianto mi avesse in parte liberato dall’angoscia che da tanti giorni mi opprimeva.

Non tornai più a suonare in quel locale, mi dava fastidio essere ascoltato con attenzione, provavo una sorta di pudore a suonare in  pubblico come se in essa fosse rivelata a nudo la mia anima, la mia sofferenza. La suonavo soltanto quando ero quasi sicuro di essere solo.  Quella struggente melodia, che ormai era diventata il motivo conduttore delle mie solitarie serate, era il mio unico conforto, la mia estrema difesa contro la disperazione che talvolta minacciava di travolgermi.

Qualche mese più tardi mi giunse, da parte di un editore musicale alla cui porta avevo invano bussato, l’invito ad un colloquio. Poiché nella lettera non c’era alcuna spiegazione, decisi di andarci. Mi fecero entrare in una sala dove, un po’ contrariato, trovai una decina di persone sconosciute in procinto di ascoltare della musica. C’era infatti, anche una orchestra. Un signore mi venne incontro e mi invitò a sedere. Io mi guardavo intorno spaesato e oscuramente diffidente. A quel punto mi accorsi che tra loro si trovava il ragazzo che avevo incontrato in quel bar. Che ci faceva lì? Lo stavo osservando meglio, era bello, mi piaceva. Lui se ne accorse, mi sorrise e fece l’occhiolino.
 
Quando l’orchestra incominciò a suonare mi irrigidii, l’uomo che mi era seduto accanto, accorgendosi della mia reazione, mi invitò con un gesto a tacere ed attendere la fine dell’esecuzione . Era la mia sonata, quella che io avevo chiamata “Lacrime”.

Quando la musica cessò seguì un momento di silenzio, poi spenta l’ultima eco come un sospiro, i presenti parvero riscuotersi da una specie di incantesimo ed applaudirono freneticamente.

“Chi vi ha dato questa musica? Come fate ad averla? E d’altra parte è mia, soltanto mia!” esplosi io.

“Lo so”, assentì il ragazzo, guardandomi e sorridendomi, mi stava piacendo sempre di più.

“Quella sera che la sentii per la prima volta e che ti ho parlato, capii che non sarei forse riuscito a convincerti a scriverla ed a cedermela. Così  sono ricorso a una registrazione che ho potuto fare quella sera stessa senza che tu te ne accorgessi. Su quella base è stato possibile ricostruire la sonata ed eseguire opportuni arrangiamenti che potranno essere modificati eventualmente da te stesso. È una musica validissima ed è per convincere te stesso che ho voluto farti ascoltare così. Mi sono informato sul tuo conto e so che hai già scritto parecchia altra roba, ma sempre senza successo. Ebbene, io sono sicuro che quando il pubblico conoscerà questa musica, anche le precedenti creazioni acquisteranno, per riflesso, un valore. Il tuo nome salirà di colpo alla ribalta e non è escluso che questo lavoro segni una svolta nella tua vena creativa. Chi fermerà la musica? Nessuno fermerà più la tua musica. Perché questa è musica che non può essere dimenticata una volta udita, può avvincere e commuovere gli animi più indifferenti. Sarà un successo mondiale. Vedi avrei preso io il nome di autore, tu non l’hai mai registrata alla SIAE, quindi te l’avrei rubata, sarei diventato ricco e famoso. Non avrei mai potuto fare uno sgarbo a una persona che ti … che speri…lascia perdere”.

Io, che avevo ascoltato in silenzio, a questo punto scoppiai in una risata amara. La musica che avvince e commuove … Avevo tanto sognato di poterne comporre e non c’ero mai riuscito. La mia musica non aveva mai parlato al cuore di nessuno, soltanto la disperazione aveva potuto farmi uscire dalla mediocrità. Per la prima e forse unica volta dal mio cuore era sgorgata musica “vera”. Era il tanto sospirato, atteso successo. Ma ormai non mi interessava più, non aveva alcun senso per me. Era la più atroce beffa che la sorte potesse giocarmi. Che ne avrei fatto di quella vittoria, ormai? A chi l’avrei offerta, con chi ne avrei gioito? La mia risata si spense in un singhiozzo mentre l’editore mi guardava sconcertato e il ragazzo che mi era tra l’altro simpatico, con una faccia spaventata e preoccupata. Io pensavo che dovevo difendermi da quella gente che si stava impossessando di qualcosa che era mio e che costituiva la mia unica ricchezza.

“Tu hai la tua musica”,  aveva scritto Gabriele, ma quelle parole mi risuonavano ironiche per via dell’altra frase: “Prandelli dice che non è onesto continuare a illuderti…”. Loro non avevano mai creduto in me, avevano avuto soltanto pietà, una pietà che poi mi avevano buttato in faccia per avvilirmi, distruggermi togliendomi anche le illusioni.

Distruggermi? Ebbene, no, mi dissi in un impeto di ribellione. Avrei dimostrato a Gabriele che era stata propria la sua pietà a soffocarmi e che appena ne ero stato libero avevo saputo rivelare il mio talento. Non volevo il suo compianto.  Non avevo mai pensato di vendicarmi per tutto il male che mi aveva fatto, ma ora che la sorte me ne offriva il mezzo ne provavo un’acre soddisfazione. Forse il mio successo avrebbe messo un’ombra di rimpianto nel cuore di Gabriele, avrebbe turbato la sua felicità.

Dopo aver ascoltato come trasognato ciò che l’editore mi esponeva ed aver firmato il contratto, finalmente potei andarmene, solo.

Fuori la notte mi avvolse in un abbraccio di pace e di silenzio. Cercai la voce consolante della mia melodia, ma non mi parve più mia, ora che l’avevo ascoltata dagli altri la sentivo contaminata e non mi dava più alcun conforto.

“Ebbene, che importa?”, mi dissi per sopraffare lo smarrimento poiché quella sensazione mi faceva sentire più misero e solo di prima. “Che importa? Sarò celebre e ricco, sarò qualcuno!”, esclamai rabbiosamente, in tono di sfida. Poi chinai il capo e piansi.

Ma proprio in quel momento mi sentii prendere per un braccio, era lui, era Lorenzo, il ragazzo che mi aveva aiutato.

“Non ti ho ancora ringraziato”, gli dissi per riconoscenza.

“Non mi devi ringraziare è tutto merito tuo”, mi disse sorridente e facendomi l’occhiolino. Sarà stato ormai la lunga assenza di sesso, di amore, di compagnia, ma lo vedevo bello, sincero.. sguardo pulito, persona onesta, mi stava piacendo.

“Si è vero, ma tu potevi rubarmela, mettere il tuo nome come autore. Non avrei potuto farci nulla perché non l’avevo ancora registrata alla Siae, invece tu l’hai registrata a nome mio, non l’avrebbe fatto nessuno una cosa del genere. Perchè?”.

“Devo rispondere per forza?”.

“Si, lo voglio sapere”.

“Perché … Perché … mi piaci”.

“Ti piaccio? Hai sbagliato persona. Sono un buono a nulla, un fallito. A undici mesi sono stato abbandonato dai miei genitori”.

“Nessuno ti abbandonerà più, te lo assicuro”.

“A diciotto anni sono stato buttato fuori casa dai genitori adottivi”.

“Nessuno da oggi in poi ti butterà fuori di casa, non c’è motivo”.

“Gabriele mi ha abbandonato per un altro”.

“Non ci saranno altri nella mia vita e tu hai bisogno di essere amato e non sopportato, e anch’io ho bisogno di amore”.

“La mia musica è morta …lasciami perdere, lo dico per il tuo bene”.

“Ma ti piaccio un po’?”.

“Si … tanto”.

“Ebbene la tua musica non è mai morta, te l’hanno semplicemente fermata. Ma ora ci sono io vicino a te e chi fermerà la musica? Chi fermerà la tua musica? Nessuno da oggi in poi. Sarà una musica dolce, melodiosa, viva”.

Felice gli presi la mano e mi incamminai verso casa, le mie lacrime vennero sostitute da un radioso sorriso. Non sarei stato più solo.

“Mi starai vicino?”.

“Si… proviamo insieme”.
 
 
 
 
 
Un ringraziamento speciale a tutti coloro che stanno leggendo i miei racconti, siete tantissimi grazie.
E a tutti quelli che in questa settimana hanno recensito “Tra le pagine del mio cuore 2”, per ordine di arrivo: Ramsita, Drytec, Hippylove, Lisitella, Shinepaw, Stevan, Aire, Dinda91, Plaunac, Santhy, Totalip, Mindyxx, Enapril, Serenoa.
 
 

 
 
   
 
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