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Autore: Michan_Valentine    13/05/2015    1 recensioni
"Il proiettile era già in traiettoria, lo era da anni, e presto o tardi avrebbe raggiunto il bersaglio."
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lucrecia Crescent, Vincent Valentine
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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Sprofondò col piede in una pozzanghera e poi in un’altra ancora, incurante dell’acqua che gli entrava nelle scarpe e che gli inzuppava i calzini. Il tempo sembrava assecondare il suo stato d’animo e si sentiva quasi confortato dallo scrosciare del temporale; dalle gocce grosse e fitte che gli s’infrangevano addosso senza pietà, dai rivoli che gli scendevano sulla fronte, lungo il collo e fin sotto gli indumenti, ormai fradici e incollati alla pelle. Di tanto in tanto il rumoreggiare dei lampi interrompeva la cacofonia di suoni e di colori, proiettando netti contrasti di luce e ombra fra le case e i vicoli di Nibelheim.

Le strade erano deserte, grigie, appesantite dalla pioggia. Era il solo a sfidare con così tanta indifferenza il temporale e l’aria sferzante della sera. Eppure la morsa gelida che gli si conficcava nella carne riusciva soltanto a farlo sentire più vivo. E più lucido. Rilasciò il fiato sotto forma di vapore e sollevò appena lo sguardo innanzi a sé, sull’acciottolato. Soltanto i lumicini che s’intravedevano oltre i vetri appannati delle abitazioni lasciavano intendere uno sprazzo di calore e di quotidianità, una tavola imbandita per la cena, una famiglia riunita; qualcosa che mai come in quel momento gli sembrò distante. Irraggiungibile.

Accusò una fitta al petto, ma non interruppe il suo sconsolato vagare. Sapeva quello che doveva fare, dove doveva andare e chi affrontare. Non c’erano alternative; e la sua determinazione acquisiva di concretezza a ogni passo. Il proiettile era già in traiettoria, lo era da anni, e presto o tardi avrebbe raggiunto il bersaglio. Avrebbe preteso la sua vittima. Aveva potuto intuire quando era stato premuto il grilletto dai racconti di lei, di Lucrecia. Era partito da un sogno, da un’ambizione ed era deflagrato nel momento in cui Grimoire Valentine era morto, frapponendosi fra la sognatrice e la sua ambizione più grande. Ed ora viaggiava, sempre più veloce, foriero di un imminente e inevitabile impatto.

Strinse i pugni, serrò la mascella in un’espressione dura. Perfino il suo sguardo divenne più cupo al di sotto dei ciuffi corvini gravidi di pioggia. I suoi occhi erano aperti, adesso, vedevano con chiarezza attraverso le illusioni indotte dalla mente. Dalle speranze. Potevano trapassare la foschia del paesaggio o della psiche umana e scorgervi attraverso, fino a determinare l’ovvio. E quella realtà che più si avvicinava al vero.

Nibelheim s’aprì al suo passaggio, facendosi da parte, e le mura della Shinra Mansion si delinearono all’orizzonte, stagliandosi ai piedi delle montagne. In quella zona la foschia era ancora maggiore e celava la facciata della palazzina alla stregua di un nefasto presagio. Le sagome delle montagne, invece, troneggiavano sullo sfondo e sul paesaggio come presenze oscure e intoccabili. Rabbrividì fin dentro le ossa, ma non esitò. Quel tempo era finito, se l’era ripromesso.

Percorse lo sterrato, affondò nel fango a ogni passo, finché le scarpe lucide e il margine inferiore dei pantaloni non divennero che un ricettacolo di sporcizia. Scosse la testa e si concesse un mezzo, amaro sogghigno: Vincent Valentine non era mai apparso così trasandato, così stravolto, sempre impeccabile nella sua divisa da Turk e impassibile nell’espressione. Anche quando un invisibile coltello gli macerava l’animo, pezzo dopo pezzo.

Quasi rise di sé, della situazione; ma l’accenno morì sulle labbra quando l’immagine di Lucrecia gli tornò alla mente, così come l’aveva rinvenuta quella mattina per i corridoi della magione. Stesa a terra, esausta, sfibrata nel corpo, nella mente, col ventre rigonfio e nessuno al suo fianco. Non l’uomo –l’essere- che aveva scelto, comunque. E in quel momento aveva realizzato quanto presuntuosa e sciocca fosse stata la sua posizione. Se lei è felice, non m’importa. Una comoda e rassicurante menzogna. Una condanna, forse; e la dolce felicità che le aveva augurato si era rivelata nient’altro che fiele. E solitudine. E silenzio. Una consapevolezza che l’atterriva nella sua crudele essenza, risvegliando una rabbia cocente quasi quanto l’amore che nutriva per lei. E che consumava…

Salì i pochi gradini che conducevano all’ingresso, varcò il cancello e raggiunse il grosso portone che dava accesso alla Shinra Mansion. Il cornicione lo riparò dall’inclemenza del tempo, ma non dalle proprie colpe. Un fulmine dilaniò il cielo e illuminò a giorno il paesaggio per pochi, pochissimi attimi. Seguì un rombo che fece tremare perfino l’aria, riverberando fra le montagne e sovrastando qualsiasi altro suono. Ciononostante non tradì nemmeno un battito di ciglia, saldo nella propria determinazione.

Spinse le ante ed entrò nella spaziosa hall. La sala era in penombra, illuminata appena dai lampi che si proiettavano all’interno attraverso le grosse vetrate in cima alle scale, su cui la pioggia ticchettava implacabile; e gli anditi apparivano immobili e decadenti, quasi scoloriti, sviliti dal temporale e dal trascorrere del tempo. L’inquietudine gli si incollò addosso assieme ai capelli e ai vestiti fradici. Approfittò dell’ora inoltrata, della solitudine, e si diresse al piano superiore, lasciandosi dietro una scia di acqua e fango.

Raggiunse le vetrate in cima e con lo sguardo descrisse distrattamente i rivoli che ruscellavano sulle superfici trasparenti, offuscando la visuale dell’esterno. Sfilò lungo il corridoio in silenzio, come un’ombra; perfino i suoi passi sembravano silenziosi, se rapportati all’inconsolabile cordoglio del cielo. Si diresse alla stanza di lei.  La luce filtrava dall’uscio dischiuso e tagliava di netto la penombra, dandogli l’impressione che fosse sveglia. In attesa di lui, come un tempo. Il cuore accusò un battito più esasperato, più doloroso dei precedenti; ma la ragione lo mise in guardia, diffidandolo dai ricordi. Dai sospiri condivisi e dagli attimi di passione rubati sotto l’albero nei pressi di Nibelheim.

Si soffermò sulla soglia illuminata e spinse lo sguardo più in là, sul letto. La morbida linea delle coperte disegnava il profilo di Lucrecia, distesa fra le coltri a occhi chiusi. Il petto le si alzava ed abbassava piano  e i capelli sciolti le incorniciavano il viso, ricadendo sul guanciale e lungo il suo collo come una cascata di seta. La luce dell’abatjour le metteva in risalto le guance scavate, le occhiaie marcate; e le sue labbra di pesca apparivano esangui, come il pallido ricordo di quel sorriso che tanto avrebbe voluto proteggere. Il braccio disteso lungo il fianco, fra le lenzuola, mostrava i segni delle iniezioni e si prestava inerme all’ennesimo ago conficcato nella carne; mentre la flebo accanto al letto continuava a stillare il suo veleno, goccia dopo goccia.

Strinse i pugni, congelato sulla soglia e incapace di distogliere lo sguardo da quel viso tanto amato. Da quello spettacolo che gli si mostrava senza veli nella sua crudeltà, senza che potesse toccarla, baciarla, concederle il conforto e il calore che avrebbe meritato; e il suo sguardo scivolò rapido lungo la curva dell’addome che si stagliava visibile sotto le coperte. Lo stomacò si accartocciò su se stesso, mentre il dubbio s’insinuava sottopelle e strisciava fino a rodergli l’animo. C’era da impazzire… o forse era già accaduto, in un impreciso momento della sua vita. Il proiettile aveva investito anche lui, di striscio, e gli aveva lasciato addosso la sua bruciante scia. O forse gli aveva trapassato direttamente il cuore o il cervello per poi continuare indisturbato il suo nefasto tragitto.

Altrimenti non riusciva a spiegarsi com’era potuto succedere; come la situazione potesse essere giunta a quel punto. Con l’imprevedibilità e la rapidità di una frana il sogno condiviso si era sgretolato, lasciando macerie e rimpianti dietro di sé. La vergogna, i sensi di colpa li avevano allontanati prima e chiusi in gabbie di silenzio poi, a mille miglia dall’unica cosa che avrebbe potuto donare loro pace.

Eppure non le aveva mai fatto colpa dell’accaduto, della morte di Grimoire Valentine. Non era stata lei a premere il grilletto, né avrebbe potuto evitare la canna del fato, puntata dritta su di lei. Su di loro. Gli aveva impedito di aiutarla, di tenderle la mano e di dimostrarle che non tutto era destinato a sfiorire. Non il sentimento che nutriva per lei. Non aveva voluto ascoltare. Né vedere. E ora giaceva in quel letto, vittima di se stessa e di quel folle scienziato.

Digrignò i denti al solo pensiero e quasi li fece scricchiolare; ma il biasimo era rivolto soprattutto a se stesso. Alla guardia del corpo, al Turk incaricato di proteggerla, all’uomo innamorato che aveva permesso alle proprie paure di sopraffarlo, di tradirlo forse nel momento più delicato e importante di tutti. Così aveva taciuto di fronte alla possibilità di parlare, ignorando l’unico spiraglio aperto sul cuore di lei. Se hai qualcosa da dire, dillo. Il peso di quelle parole gli gravò sulla coscienza alla stregua di un macigno, perché nemmeno il temporale con i suoi spietati rovesci e l’implacabile ululare del vento avrebbe potuto sottolineare l’intensità di quello che avrebbe voluto esprimere. In un passato ormai inafferrabile, che lo vedeva impotente e solo dall’altra parte di un lungo tavolo. Chinò il capo, incurvò le spalle e assaporò il tormento del fallimento come giusto, facendolo proprio nella maniera più nitida e totale possibile. Ma fra la consapevolezza e la rassegnazione ultime era indubbiamente la fredda determinazione a farla da padrona.

Sollevò nuovamente lo sguardo e carezzò per l’ultima volta i lineamenti di Lucrecia, dipingendoli sulla tela del suo animo con accurate e dolci pennellate. Impercettibilmente sollevò gli angoli della bocca, riscoprendo in quell’istante il sapore della pace. E l’illusione della speranza. E dentro di sé le augurò un sonno sereno e un risveglio ancora migliore…

Diede le spalle alla stanza e all’ingannevole chiarore dell’abatjour, percorrendo a ritroso i passi che l’avevano lì condotto. Il ticchettio della pioggia l’accolse allorché tornò a fiancheggiare le vetrate della magione, in cima alle scale. Scese al piano inferiore, accompagnato dal lampeggiare delle saette e si diresse ai propri alloggi. Percorse gli oscuri corridoi come un’ombra fra le ombre e raggiunse la stanza che il riverberare dell’ennesimo tuono aveva appena sovrastato lo scroscio dell’acqua.

Entrò e si richiuse la porta alle spalle. Istintivamente mandò lo sguardo alla sedia in prossimità della finestra, accanto al piccolo tavolino di legno sui cui poggiavano calice e bottiglia di vino. Sulla spalliera stava la fondina, da cui s’intravedeva il calcio della pistola. Indugiò sull’arma con iridi cupe, attente; poi si tolse la giacca fradicia della divisa e la lasciò cadere a terra. Si diresse al bagno attiguo, infilò l’indice nell’ansa della cravatta e tirò, allentandone il nodo. La gettò sul pavimento, a pochi passi dalla giacca. Stessa sorte toccò alla camicia, che sfilò via con urgenza. Varcò l’uscio del bagno che si era appena liberato delle scarpe e si disfece anche dei pantaloni, restando integralmente nudo. Sprofondò nella doccia e aprì il getto. L’acqua l’avvolse, calorosa, ma non servì a lenire il freddo che gli attanagliava le ossa. Né a distendere la morsa dei muscoli.

Si sciacquò in fretta e uscì dall’abitacolo, incurante dell’acqua che grondava sul pavimento. Recuperò un telo di spugna e si asciugò, prima i capelli e poi le membra. Tornò nella stanza e andò all’armadio. Aprì le ante e una serie di abiti tutti uguali gli si delineò innanzi, ordinatamente disposti sulle grucce. Il simbolo di una vita passata a eseguire gli ordini, a corrispondere alle aspettative, al ruolo che ricopriva e a un ideale di giustizia, di ordine che in realtà non esisteva. Non sotto la patina dorata della corporazione che lo stipendiava. Scosse leggermente il capo e afferrò la divisa pulita, scevro della convinzione che aveva usato in passato. Tuttavia, innanzi allo specchio posto sull’interno dell’anta, Vincent Valentine si rivestì col massimo della precisione e della cura. Un’ultima volta, prima dell’alba. Abbottonò con precisione i polsini della camicia candida, lavata di fresco e perfettamente inamidata; svolse con perizia il nodo alla cravatta, cosicché i lembi cadessero esattamente dritti al di sotto della giacca; distese con dita sapienti ciascuna, piccola imperfezione o piega di troppo che sfregiava la linea elegante e sobria dell’abito scuro. Si chinò e allacciò le scarpe lucide.

Quando tornò a guardare la figura ordinata innanzi a sé riconobbe l’uomo che era stato; e l’uomo che si accingeva a diventare. E nei suoi occhi cremisi vide brillare una luce diversa, meno calda rispetto a quella del giovane Turk appena assegnato a Nibelheim.

Con freddezza richiuse l’armadio e si diresse al tavolino in prossimità della finestra. Afferrò la bottiglia e si versò da bere, riempiendo il calice per metà. Dopodiché estrasse la pistola dalla fondina e sedette sulla sedia lì di fianco. L’osservò distrattamente per un po’, rigirandosela fra le mani. Infine estrasse il caricatore e ripose l’arma sulla sommità del tavolo, accanto al bicchiere. Estrasse i proiettili e li allineò uno per uno sulla superficie piana. Quindici in totale, contò. Con la giusta mira erano precisi, letali. Eppure c’erano cose che sapevano colpire molto più a fondo e lasciare ferite altrettanto mortali. E c’erano sentimenti più oscuri, più pericolosi di qualsiasi arma…

Un fulmine attraversò il cielo, squarciando trasversalmente le nubi plumbee; e i bossoli dorati brillarono sinistramente per riflesso. Il successivo rombo quasi lo cullò, sfumando man mano nell’aere, dapprima aspro, graffiante e poi sempre più greve e lontano; mentre la pioggia si abbatteva sul vetro con maggiore intensità e fungeva da piacevole sottofondo, riempiendo la stanza col suo costante ticchettio. Puntò lo sguardo al cielo e allungò la mano a intercettare il calice. L’afferrò e impresse una leggera rotazione del polso. Il liquido cremisi ondeggiò fluidamente e lambì la superficie cristallina; ma non lo portò alle labbra. Tornò a poggiare il calice sul tavolo, invece, intonso; gli occhi costantemente rivolti alla volta e alle ragnatele di fulmini che viaggiavano fra i cumulonembi.

La stasi si protrasse assieme al temporale, al trascorrere delle ore e al rinsaldarsi delle intenzioni; finché tornò il sereno e la notte divenne alba. Osservò le tenui sfumature del rosa e dell’arancio dipingersi all’orizzonte, sulle montagne, sui tetti ancora umidi di Nibelheim, e catturò la sensazione di calore che ne scaturì cercando di farla propria. Come prima non si era mai soffermato a fare…

Il cinguettio degli uccelli sottolineò il risveglio della natura e l’inizio di una nuova giornata. Perfino Lucrecia si sarebbe destata a momenti, pronta per affrontare con cieca convinzione le conseguenze delle proprie scelte, per trascinarsi nell’infelicità fino alla sera successiva, sfibrata dagli esperimenti, sopraffatta dalla gravidanza. Avvolta dalla solitudine. Ignara del proiettile e dell’imminente, drastico impatto. E lui –l’essere- doveva già essere sveglio da ore, chiuso nel suo piccolo e sotterraneo angolo degli orrori. Conscio di molte cose, incurante di altre; in qualità di vile e subdolo complice del fato.

Ma non gli avrebbe permesso di approfittare ulteriormente della situazione; non più. Afferrò il caricatore e v’infilò i proiettili ordinatamente disposti sul piano; dopodiché recuperò anche la pistola e con uno scatto metallico l’armò, piazzando il caricatore al suo legittimo posto. Lanciò un ultimo sguardo al cielo oltre la vetrata, all’azzurro che si stagliava sopra i tetti del paese; e s’illuse che sì, quella giornata sarebbe stata migliore delle precedenti. Infine si alzò, rafforzò la stretta sul calcio della pistola e si diresse alla porta. Meta: sotterranei.

Non c’erano alternative, dopotutto. E per deviare la traiettoria del proiettile ne serviva un secondo, più determinato del primo. E quali che sarebbero stati i risultati stavolta se ne sarebbe fatto carico. Per lei. Anzi no; per loro.
 
Questa storia è nata da sola nella mia mente. Non era stata programmata, ecco. Diciamo che è un po' come ho immaginato la sera prima del famoso incontro/scontro nel laboratorio, quello fra Vincent e Hojo.
La fic non mi piace, tanto per cambiare. Lol. E sì, lo so che lo dico sempre, ma stavolta è diverso perché solitamente ho l'impressione che nei miei capitoli manchi qualcosa o che si possano migliorare in qualche modo. Qui no. Questa storia è così. Punto. E per me è bruttina. Ciononostante, per i punti sopra espressi, le alternative erano due: cancellarla o pubblicarla. Così com'è. Alla fine ho scelto la seconda opzione. ^^
Ovviamente ho poi immaginato anche una sfumatura "what if...?" in cui è Vincent a seccare effettivamente Hojo. xD Lol. Ma perché il mio neurone non vuole saperne di starsene buono? OO E, per chi se lo stesse domandando, sì, Vincent ha il dubbio sulla paternita del bambino anche qui. xD Per me questa cosa, quella del dubbio, è proprio Canon. oo Altrimenti il Vincent di FFVII è rincoglionito di brutto, dato che sul Sister Ray sembra sopreso come gli altri dalle affermazioni di Hojo! xD
Alla prossima! *w*
CompaH
   
 
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