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Autore: _edvige    13/05/2015    1 recensioni
La prima sigaretta è la migliore. È quella che te ne fa desiderare altre.
Ogni sigaretta ha un gusto diverso, la prima sa di novità, di conquista
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E con i mie pensieri cupi anche l’ultimo filo di fumo si libra in alto, verso un cielo troppo azzurro perché questa terra possa essere tanto nera.
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Dieci sigarette. Una per ogni riflessione che fa Elijah, come dovrebbero fare tutti per muovere un passo in avanti verso la conoscenza di se stessi e dei propri limiti.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dieci sigarette

Mi rigiro il pacchetto fra le mani. La plastica lucida scricchiola quando la sfrego, cercando di tirarla via. Alla fine ne viene via un pezzetto, poi un altro e poi un altro ancora. Posso finalmente aprire le Marlboro rosse che ho comprato, 2,80 euro per un cancro ai polmoni, molto divertente. Siamo agli sgoccioli, ti fanno pagare anche per ucciderti.
Apro il pacchetto e lo avvicino al naso. Inspiro cercando di imprimermi nelle narici l’odore dolciastro del tabacco. Lo considero uno dei migliori profumi.  Prima di decidermi ad estrarre una sigaretta, cerco a lungo un posto appartato, possibilmente a riparo di un albero. Mi piacciono gli alberi. Vivono anni e anni, osservando silenziosamente il mondo. Sono i compagni perfetti: silenziosi, protettivi, saggi e bellissimi. Se potessi ne sposerei uno, invece di una donna.
Sorrido e, con un dito, mi scosto una ciocca di capelli, ricaduta informe sugli occhi. Ho trovato il posto perfetto.
Mi accascio contro il tronco di una vecchia quercia, che, a giudicare dalla stazza e dalle numerose incisioni, deve avere come minimo cinquant’anni. La accarezzo con una mano e sussurro “ Che storie hai da raccontarmi bella?” Rimane muta, come è giuso che sia e io tiro fuori l’accendino dalla tasca del cappotto. Una sigaretta.
La prima sigaretta è la migliore. È quella che te ne fa desiderare altre.
Ogni sigaretta ha un gusto diverso, la prima sa di novità, di conquista. Un po’ come nell’amore, le prime volte è tutto magico, fantastico, poi si sfocia nella normalità, nella banalità e si finisce con il “farci l’abitudine”. E non c’è cosa peggiore. A certe persone piace avere abitudini, le fa sentire tranquille, al sicuro. Io le odio. Abituarsi è sinonimo di dare per scontato e quando qualcosa viene dato per scontato, automaticamente si perde. Questo ragionamento non è valido solo per l’amore, anche perché, me ne frega poco o nulla e dubito di essere mai stato innamorato nel senso convenzionale del termine, io parlo più delle amicizie, della famiglia. Sono convinto che buona parte della colpa per la perdita di mia madre, sia mia. I genitori sono le prime persone con le quali interagiamo e non dico che siano sempre persone fantastiche, buone o chissà cosa, ma, a loro modo, ci amano incondizionatamente. Eppure tutti, io in primis, diamo così tanto per scontata la loro presenza nella nostra vita facciamo di tutto per allontanarli, appena ci riusciamo, realizziamo quanto il tutto fosse una colossale stronzata.
Mi do del deficiente da solo per questi pensieri e mi rendo conto che la sigaretta è finita da un pezzo. Mi prendo qualche minuto prima di riaprire il pacchetto e accenderne un’altra. Due sigarette.
La seconda sigaretta è strana, non ha lo stesso sapore della prima, è meno buona. Mi fa pensare al fatto che mi sto indiscutibilmente scavando la fossa e che il fumo è solo uno dei tanti motivi per i quali sono convinto che morirò giovane. L’idea non mi dispiace, solo che prima di tirare le cuoia vorrei lasciare un segno, qualcosa che dica “Ehi! Io avrò anche vissuto trent’anni, ma almeno li ho vissuti al meglio.” Peccato che io sia avvolto nell’apatia, e che nei miei precedenti ventidue anni di vita non abbia fatto altro che prepararmi ad una totale assenza di sensazioni. Mi ripugna anche solo l’idea di chiamarla con il suo nome. È come se fossi già morto, la cosa mi dovrebbe far imbestialire, ma non ci riesco. Per quanto io mi possa sforzare, non riesco a provare emozioni. Niente, rien, nada, nothing, nichts. Federico dice che dovrei andare da uno psicologo, ma per me è un’idiozia. Sono immerso in questo limbo grigiastro da anni, e accettare di volere un cambiamento, sarebbe già un cambiamento; quindi un progressivo ritorno di ciò che ho perduto. Perciò aspetto questo momento, convinto che tutto si risolverà da sé prima o poi.
Mi accorgo che è finita anche questa sigaretta, quando, provando ad aspirare il fumo, non succede nulla. Posiziono il mozzicone accanto a quello prima, adesso si terranno compagnia, non sono più soli. Non prendo tempo per accendere la successiva, non so perché. Tre sigarette.
La terza sigaretta mi fa pensare a Federico, il mio migliore amico, o almeno, così si definisce lui. Per me è l’unica persona che quando apre bocca non lo fa a vanvera, poi è uno dei pochi che si sforza di provare affetto per me. Siamo amici dal primo liceo, quando ancora ero solo un ragazzino un po’ problematico, non un caso clinico. Penso a Federico fumando la terza sigaretta perché lui mi ricorda il numero tre: l’equilibrio perfetto. È il mio punto fermo, l’unica persona che non mi abbia abbandonato e, per quanto mi costi ammetterlo, è l’unico a cui io dia seriamente retta e per il quale sarei disposto a fare qualunque cosa. So per certo che se mia madre potesse conoscerlo, non lo sopporterebbe, ma  penso che neanche io le andrei a genio, il problema non si pone però. L’ultima volta che l’ho vista avevo tredici anni ed ero all’aeroporto diretto a Roma, per non rivederla mai più. Tossisco. Sono certo che quando finirò la decima non avrò più voce. Appena tornerò a casa Federico mi farà una ramanzina infinita. Ultimamente lo trascuro troppo. Tra il mio nuovo lavoro al Sun e le mie crisi esistenziali, non ho proprio tempo per pensare a lui e alla nostra band, della quale io dovrei essere il cantante. “Troverò il modo di farmi perdonare” sussurro, mentre spengo la sigaretta.
Decido di aspettare qualche minuto, ma non ce la faccio. Accendo la quarta. Quattro sigarette.
La quarta sigaretta mi ricorda che sono un tossico. Una persona da evitare, uno schifoso succube di sostanze che finiranno per uccidermi. So che dovrei fermarmi, ma non voglio. Sfiorare il fondo, superare i miei limiti, guardare in faccia la morte mi fa sentire vivo. Io ho bisogno di sentirmi vivo. Sono così morto dentro da causarmi dolore, solo per vedere se qualcosa dentro di me ancora funziona. Potrei essere scambiato per un autolesionista, ma il mio è un dolore diverso, io non mi punisco, non mi incolpo. Io voglio capire, solo quello. Con le droghe è un ragionamento simile e opposto allo stesso tempo. È sempre per scopi di conoscenza che ne faccio uso, e abuso, non per il dolore, ma per la felicità indotta da esse. Non sono un drogato in piena regola, non abuso di una sostanza sola, preferisco variare, ma la mia preferita resterà sempre la marijuana. A volte mi chiedo: c’è qualcosa in me degno di essere amato? Io non credo. Non sono capace di dare amore, non sono grato di quello che ricevo e sono decisamente lunatico ed eccessivamente ironico e cinico. C’è rimasto poco di buono in me, troppo poco per meritarmi la pace eterna, ma non abbastanza per bruciare all’inferno. Penso che finirò in un limbo tra beatitudine e dannazione, felicità e terrore. Nessuno mi riterrebbe abbastanza, costretto a non provare emozioni per il resto della mia vita post-mortem, bella merda. È anche per questo che cerco disperatamente di combinare qualcosa di sensato, che valga la pensa essere raccontato, così almeno quando morirò, non avrò vissuto invano.
E con i mie pensieri cupi anche l’ultimo filo di fumo si libra in alto, verso un cielo troppo azzurro perché questa terra possa essere tanto nera.
Passa mezz’ora prima che io accenda la quinta sigaretta. Immerso nel silenzio di un parco alle sei di mattina mi sembra che anche il sibilo dell’accendino sia un rumore troppo forte, volto solo a turbare la quiete di quel luogo di pace.Cinque sigarette.
La quinta sigaretta è quella che dedico al silenzio, che ho imparato ad apprezzare solo con il tempo. Io divido il silenzio in tre categorie: il silenzio imbarazzato, il silenzio teso e il silenzio perfetto.
Il primo crea, per l’appunto, imbarazzo, problemi, e spinge la gente a parlare troppo e inutilmente. Molti non capiscono l’importanza del silenzio, quindi si tende a rendere ogni pausa di una conversazione, un attimo imbarazzante, pieno di falsi sorrisi e frasi inutili. Bisognerebbe inserire fra le materie scolastiche “l’arte del silenzio”. Al mondo si starebbe molto meglio se le persone sapessero stare zitte.
Il secondo è in genere quello che terrorizza, che raggela il sangue nelle vene. La pausa ad effetto dei film horror prima dell’assassinio finale. L’attimo che precede l’inizio della battaglia. Quel momento in cui tutto sembra fermarsi, come immerso in una bolla, destinata a esplodere al precipitare troppo rapido degli eventi. Sorrido tra me e me, pensando che il silenzio in cui sono immerso io, in questo momento, sia il silenzio perfetto: nessun rumore eccetto il soffio lento dei miei respiri e il lieve frusciare del vento. La pace dei sensi. Nessun imbarazzo, nessun problema, solo il vento che trascina con sé tutti i cattivi pensieri.
Non essendo una persona loquace, preferisco tacere e ascoltare, piuttosto che essere costretto a parlare. Certe volte poi, mi incanto ad osservare il mio interlocutore, e non so mai cosa dire, anche quando le parole non servono, dato che bisogna sempre dire qualcosa. Perché non si può semplicemente trascorrere il tempo ad osservare le persone, senza chiacchiere inutili? Bearsi solo della reciproca presenza. Strappo distrattamente un filo d’erba pensando che, semmai dovessi rinsavire, capirò di aver trovato la donna della mia vita, quando il silenzio non diventerà più un problema, ma un momento perfetto.
Un uomo sulla cinquantina sta correndo non lontano dal mio “rifugio”, spengo la quinta sigaretta e spero non si avvicini troppo, non voglio che nessuno disturbi la mia quiete. Aspetto che si allontani e accendo la sesta sigaretta. Sei sigarette.
Mi stupisco sempre di più di quanto la gente sia terrorizzata dalla dannazione eterna. Che poi chi afferma che una volta morti si finisce sicuramente in paradiso o all’inferno? E se ci decomponessimo e basta? Come dicevano i latini “pulvis et umbra sumus” , io, di certo, non posso saperlo. La morte in sé non mi spaventa, eppure l’idea di smettere di esistere mi destabilizza. Non riesco proprio a immaginare come debba essere. Scuoto la testa e tossisco, la gola mi brucia parecchio, ma ho deciso che devo finire il pacchetto, e così sarà. Mi rigiro la sigaretta tra le mani, osservandola bruciare lentamente. Sono sicuro che una volta finita la decima non starò per niente bene, ma non mi interessa molto. Mentre tiro, realizzo che questa sesta sigaretta non ha portato a nessuna riflessione intelligente, non che quelle prima siano migliori, però almeno la mia testa si è sforzata di produrre qualcosa. Butto fuori il fumo e anche la sesta sigaretta è giunta al termine. Ho la gola in fiamme e prima di accendere la settima devono passare dieci minuti, nei quali osservo lo stesso signore sulla cinquantina che fa jogging. Le gocce di sudore gli scivolano velocemente dalla fronte alla mascella; la canottiera, oltre che essere orrendamente gialla, è completamente bagnata. La cosa che mi diverte di più è, che mentre io sono qui ad osservarlo, lui è troppo preso dalla sua corsetta ansimante per fare caso a me. Mi piace questa mia “invisibilità”.
Della settima sigaretta ho quasi voglia, quando l’accendo chiudo gli occhi. Sette sigarette.
Per un attimo non penso a niente e mi lascio avvolgere dalle tenebre, ma la sensazione di beatitudine non dura molto. Mi chiedo quando finirà questa mia apatia, se mai dovesse finire. Tutto ciò attiva una parte del mio cervello che mi ordina di spaventarmi. L’ordine arriva a destinazione, ma non viene eseguito. È una sensazione orrenda. So di dover avere paura, ma non ne ho. Una volta ne ho parlato con Federico, ha detto che non era possibile e che dovevo smetterla con queste stronzate. Io mi sono arrabbiato. È strano come solo la rabbia ogni tanto faccia capolino. Emozione più combina guai non ce n’è. Nei primi tempi, dopo la morte di mia madre, mio padre mi diceva sempre “Mamma non vorrebbe che..” oppure “Pensa se mamma vedesse…” Detestavo quando faceva così, eppure ora sto pensando che se mia madre mi vedesse, inorridirebbe. Che figlio mostruoso può essere, qualcuno capace di provare solo rabbia? Vorrei tanto riabbracciarla, a volte mi manca così tanto. Non che fossimo molto legati o cose simili, anzi, però era pur sempre mia madre, nonostante tutto le ho sempre voluto bene.
L’irascibilità era un nostro tratto comune e uno dei motivi per cui mio padre dopo il divorzio ha costretto il giudice a dare a lui la mia custodia. Odiavo entrambi in quel periodo, ma con mia madre litigavo di più. Era abbastanza instabile, a livello mentale, si arrabbiava per un nonnulla e io non ero da meno. Le litigate erano furiose e potevamo non parlarci per giorni. Eppure ogni volta che ci riappacificavamo sembravamo completarci. Allontano i pensieri tristi dalla mia mente, così come allontano da me la settima sigaretta, accendendo subito dopo l’ottava, senza neanche pensarci, ho la testa altrove. Otto sigarette.
Nonostante abbia provato a non farlo, per tutta la durata dell’ottava sigaretta penso a mia madre. Ho passato tredici anni della mia vita pensando di odiarla, ignorando i nostri pochi momenti di armonia, quando alla fine tutto quello che avrei voluto era un po’ di affetto in più. Strano sentimento l’amore. Ti accompagna silenziosamente per anni e poi esplode, si fa sentire, causando dei danni enormi. Lo psicologo disse a mio padre che ero un ragazzo fragile e che la morte di mia madre avrebbe potuto spingermi ad una chiusura completa, quindi sarebbe stato meglio non trasferirsi a Roma, essere costretto a riambientarmi non avrebbe propriamente giovato alla mia instabile psiche da adolescente quasi-depresso. Mio padre ovviamente non lo ascoltò. Sfortunatamente, ha sempre avuto l’egoistica tendenza a credere che tutti fossero fatti a sua immagine e somiglianza. Potrei dire che aveva un complesso da Dio, ma poi risulterei blasfemo.
 Blasfemie a parte, lui mi ha sempre ripetuto che gli psicologi sono tutti perdigiorno e che tanto avrei superato meglio la morte di mamma allontanandomi dai luoghi che me la ricordavano. Stronzata. Io non ho una mente tanto limitata da provare al massimo un’emozione alla volta, come il sopracitato genitore, ma soprattutto non avevo la benché minima voglia di seguire quell’uomo nelle sue megalomani follie. Peccato che a quattordici anni, reduce da numerose sedute dallo psicologo, nessun adulto che si rispetti, ovvero stupido e ottuso quanto basta, ti prenda in considerazione seriamente; figuriamoci poi se lo avrebbe fatto il nesso tra l’uomo e la scimmia che si spacciava per mio padre.
Quindi ora, a soli ventidue anni dalla mia nascita, posso affermare di aver avuto una vita piuttosto deprimente, di aver appena finito l’ottava sigaretta e di stare per accendere la nona. Nove sigarette.
La nona sigaretta mi ricorda la falsità delle persone. Come possiamo essere tutti  nient’altro che burattini costruiti su misura, come possiamo fingere sorrisi e convenevoli con persone che non sopportiamo o delle quali non ci interessa niente. Il mondo è un teatro e noi siamo gli attori mossi ad arte da un commediografo bastardo. La vita sfugge ad ogni tipo di controllo umano a noi è data solo la possibilità di scegliere: lasciarci trascinare dalla corrente o remare contro? Io mi sento come se stessi remando contro da sempre, anche se, almeno per ora, credo di aver scelto di seguire la corrente degli eventi, senza fare poi molto. So, però, che è la mia mancanza di obbiettivi e di ideali a far sì che ogni caduta sia più dolorosa e ogni risalita inutile, che senso ha tutto ciò? Vorrei solo giacere sul fondo, crogiolandomi nella mia apatia e compiangermi a vita. Peccato che non si possa fare, o meglio che io al fondo non ci sia ancora arrivato, lo vedo chiaramente, eppure per qualche strano motivo continuo ad evitarlo. E mentre aspetto un cambiamento radicale, una svolta o la morte, continuo ad indossare la mia maschera, come tutti d'altronde. Si indossano maschere perché mostrare i veri noi stessi ci spaventa. Alcuni, terrorizzati perché dietro una facciata piena di colori, c’è solo grigio, altri perché dietro il grigio ci sono troppi colori sgargianti e temono le incomprensioni, e altri ancora, come me, perché  è l’unica cosa da fare.
Vorrei sorridere, ma penso che il risultato è più un ghigno storto. Tutta questa falsità mi ripugna così tanto da attrarmi in maniera incontrollata.
La nona sigaretta è ormai finita, appoggio delicatamente il mozzicone sul prato, ora manca solo l’ultima e, anche se ho la gola riarsa e dolorante, l’accendo senza esitazioni lanciando il pacchetto il più lontano possibile. Dieci sigarette.  
La decima sigaretta dovrebbe portarmi ad una conclusione geniale, ad un pensiero particolarmente profondo, ma non mi viene in mente nulla. Forse provo un vago senso di malinconia, forse.
Probabilmente se qualcuno potesse leggere i miei pensieri, giunti alla fine di tutte queste elucubrazioni sconclusionate partite da una semplice sigaretta, si aspetterebbe quantomeno che adesso  io mi alzassi, scrollassi via la cenere che mi è caduta sui jeans e decidessi di cambiare la mia vita e il mondo. Peccato che non sia così, non cambierò un bel nulla. Per cambiare ci vuole coraggio e io non ne ho. Mai stato un tipo coraggioso, forse qualcuno potrebbe pensare che non sia vero, insomma sono riuscito ad allontanarmi da mio padre, prendere le distanze perché la sua presenza per me era deleteria, ma è stata solo codardia condita con un pizzico di egoismo.
 Io sono scappato da mio padre, perché non avevo la forza per farmi valere e perché tenevo troppo a me stesso per farmi demolire da un uomo che considero un idiota. Il coraggio con tutto questo non c’entra nulla, coraggioso è chi prende in mano la sua vita e la cambia, non chi fugge il più lontano possibile quando le cose si mettono male, sperando che cambiando armadio riesca ad abbandonare i suoi scheletri in quello precedente. Il coraggio è di chi resta non di chi parte.
 E forse lo psicologo da cui sono andato a tredici anni aveva ragione, in fondo, sono solo un ragazzino fragile e spaventato. Così spaventato da crearmi una barriera contro ogni tipo di emozione, così spaventato da ritrovarmi solo alla fine di tutto. Perché questa è la fine e io non ho nessuno a cui stringere la mano mentre si chiude il sipario, perché penso di stare scrivendo l’ultimo capitolo della mia storia e ho una paura fottuta che non ci sia un epilogo.
La sigaretta è finita e con lei i miei momenti di riflessione solitaria.
Provo ad alzarmi ma non ci riesco, ho un forte capogiro. In un attimo tutto diventa nero.

 

 
Angolo autrice:
Allora, ho veramente poco da dire in realtà su questa cosa(?) che ho scritto. 
Primo: è completamente sconclusionata (come se non lo aveste già capito...) e non è collegata a niente di già publicato o in fase di publicazione qui su efp, o da qualunque altra parte.
Secondo: è un orario indecente per publicare, lo so, ma ho scritto questa storia circa un anno fa e l'ho conclusa e revisionata solo oggi (al posto di studiare fisica, che bad girl che sono) quindi sono piuttosto euforica e non potevo non farlo. 
Non esiste un terzo punto perchè sono abbastanza rintronata dal sonno, quindi la chiudo qui.
Edvige.

Per qualunque delucidazione o boh voglia di stalking mi trovate su facebook qui (https://www.facebook.com/blackink.efp) e sarei anche su twitter ma ho avuto la geniale idea di scordarmi la pasword.Quindi niente potete contattarmi solo su faccia libro 

  
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