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Autore: IdaC91    14/05/2015    0 recensioni
L'Amore e i Ricordi possono far male, possono consumare l'anima, possono addirittura portare alla morte.
Ma, senza di essi, non si può Vivere.
Genere: Angst, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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L'Amante e il Caduto

Mille anni.

Poco meno di un’ora e sarebbero trascorsi mille lunghissimi ed interminabili anni, ormai, da quel maledetto giorno. Mille anni di buio, tenebre e oscurità. Mille anni di lacrime mai versate e di ricordi malinconici. Mille anni di sguardi persi davanti a quella teca di cristallo a guardare oltre il proprio pallido riflesso.

Mille anni dal giorno in cui il suo Guerriero era caduto.

La spada, la sua meravigliosa arma dall’elsa splendente, gli era sfuggita di mano. Il silenzio si era impossessato di tutto il campo di battaglia. Niente più urla di dolore, niente clangore metallico, niente suoni di zoccoli o grida di carica. Era caduta al suolo, con un tonfo muto e assordante, e aveva alzato una piccola nuvola di polvere. Era ancora al suo fianco, sporca di terra ed impregnata di sangue, come se volesse rimanergli fedele anche nel suo ultimo istante. E poi era stato il suo il turno di cadere.

Mille anni dal giorno in cui aveva sentito pronunciare da quelle labbra il suo nome.

-Sherlock!-

Un grido lacerante che era insieme una supplica e un addio, che era tutto e niente. L’aveva lanciato prima di cadere, con le sue ultime forze, portando la mano a quel cuore trafitto, in un ultimo incondizionato riflesso di protezione. L’ultima sua battaglia era stata per lui, come l’ultima sua parola, come l’ultimo suo respiro, esalato fra le sue braccia. Aveva tentato di raggiungerlo prima che toccasse terra: non ci era riuscito. Non era stato in grado nemmeno di evitare che quello sporco e immondo terreno contaminasse il suo corpo.

Mille anni da quando aveva visto quegli occhi luminosi chiudersi e non riaprirsi mai più.

Quando era caduto, aveva ancora stampata la sua consueta espressione fiera sul volto, aveva ancora il viso di chi sa con certezza di aver dato la vita per lo scopo più nobile che avrebbe mai potuto perseguire. Era riuscito a donargli un ultimo sorriso appena accennato, smorzato dal dolore fisico e dalla consapevolezza della morte, un sorriso che voleva celare con la sua luce l’ombra della disperazione, della tragicità di un addio avvenuto troppo presto che aveva reso ogni gesto compiuto in seguito solo un troppo tardi.

Quell’infausto giorno di mille anni prima si era spento l’unico caldo Sole della sua vita, il suo John.

Che non era e non sarebbe mai più stato veramente suo.

Come aveva potuto il mondo continuare ad andare avanti se l’unica sua luce aveva lasciato che l’oscurità piombasse su di esso e lo dominasse incontrastata? Come avevano potuto le spade continuare a cozzare le une contro le altre e le frecce raggiungere i loro bersagli? Come avevano potuto gli eserciti rivali non accorgersi che l’unica ragione di tutto era andata via da quella distruzione? Non se ne erano resi conto, perché nessuno, eccetto lui, sentiva quel freddo. Nessuno percepiva quel vento glaciale e oscuro penetrare le viscere, lo stesso gelo che si provava dentro sapendo che era giunto un perenne inverno e non esisteva nulla con cui scaldarsi. Fu in quel momento, quasi mille anni prima, che capì.

In quell’attimo interminabile di immobilità, in cui tutto intorno era rallentato ed ovattato, fino a ridursi ad un rumoroso silenzio e ad una innaturale fissità, col corpo del suo Guerriero fra le braccia, l’evidenza dei suoi sentimenti lo aveva pugnalato alle spalle, da vile codarda. Si sentì un idiota per non averlo compreso quando il suo Sole ancora bruciava e non solamente quando era piombata all’improvviso un’era glaciale. Si sentì il più grande sciocco del pianeta, perché solo quando aveva cominciato a vedere la sua Luce spegnersi  si era reso conto di quanto fosse perso senza di essa. Proprio lui, che dava risposte ad ogni cosa, che anticipava ogni reazione umana, non era riuscito a vedere la realtà, nonostante fosse così chiara e limpida. Non era stato in grado di andare oltre quella barriera di insensibilità che aveva costruito intorno a sé, per lasciarsi perdutamente avvolgere da quel calore, da quella luce. Capì che l’aveva amato, che l’amava ancora, solo quando aveva lasciato che si spegnesse, che se ne andasse da lui, che andasse via da tutto. Ma almeno questo non l’avrebbe permesso.

Non l’aveva permesso.

Con quella nuova consapevolezza, una risposta si era presentata davanti ai suoi occhi, come la più semplice delle deduzioni. Aveva ancora una speranza -una piccola, rischiosa e flebile speranza- ma l’aveva e l’avrebbe seguita, ad ogni costo. Vi si era aggrappato con tutte le sue forze. Anche se sapeva che gli avrebbe provocato un infinito dolore, anche se ogni sua singola fibra muscolare cardiaca ne sarebbe uscita spezzata e distrutta, non avrebbe mai potuto permettere che la sua Luce, ormai spenta, non fosse tornata a splendere, più forte e luminosa di prima. Aveva sollevato con innaturale facilità il suo John da terra ed era corso via, lasciando dietro di sé una scia di polvere. Aveva scavalcato cadaveri insignificanti di alleati e nemici, aveva scansato frecce e spade, aveva attraversato la foresta come un fulmine, fino a raggiungere il nascondiglio da cui suo fratello dirigeva, dall’alto del suo potere, tutto quel versamento di sangue. Solo lui poteva aiutarlo. Era l’unico che poteva mettere in atto quell’incantesimo. Mycroft era l’ultimo degli Stregoni Bianchi. Senza nemmeno curarsi di essere stato seguito, era piombato davanti al suo ultimo parente in vita, lasciandolo sconvolto.

Ricordava di avergli parlato con innaturale calma.

-Salvalo.-

L’immagine degli occhi penetranti di suo fratello attraversava ancora la sua memoria, come una lama glaciale in un corpo caldo.

-Non posso.-

-Salvalo, non è una richiesta! E’ un ordine! So che puoi farlo, salvalo, adesso!-

-Sherlock, non servirà a null…-

-Ti ho detto SALVALO!-

Mycroft non avrebbe potuto fare nulla per fargli cambiare idea. Niente al mondo avrebbe mai potuto avere il potere di far variare la decisione che aveva preso. Sapeva benissimo a cosa andava incontro e non se ne curava, adesso come allora.

-Bene. Prendi il mio braccio.-

Con fermezza, Sherlock aveva avvolto una mano sul braccio del fratello, mentre sorreggeva ancora il corpo del suo John. Mycroft aveva battuto il suo bastone in terra per tre volte e i tre uomini erano svaniti dalla tenda, in una nuvola di pulviscolo azzurro e scintille. Si erano materializzati in una stanza completamente bianca, la stessa in cui Sherlock si trovava ora, ma che all’epoca era stata completamente deserta. Al centro della sala, si stagliava una scultura di cristallo a forma di loto, i petali aperti ai lati di un piedistallo. Una teca. Mentre Mycroft si era avvicinato alla struttura, Sherlock aveva adagiato il corpo di John sul pavimento e aveva cominciato a spogliarlo dell’armatura.

Gli aveva sfilato l’elmo con immensa cautela ed era rimasto a guardare il volto dormiente di John. Gli aveva accarezzato lentamente i capelli ed era sceso poi sul viso, indugiando prima sugli occhi chiusi e poi sulle guance che, come notò solo in quel momento, erano rigate di lacrime. La vista di quelle lievi scie d’acqua lo aveva riportato bruscamente alla realtà, inducendo Sherlock a continuare a liberarlo dall’armatura prima e dalla cotta di maglia poi, per lasciarlo solo con la semplice tunica sottostante, macchiata di terra, sudore e sangue. Senza nemmeno il bisogno che Mycroft lo chiamasse, aveva ripreso il corpo di John fra le braccia e l’aveva portato verso di lui. Suo fratello lo aveva silenziosamente scrutato con i suoi occhi gelidi, ma Sherlock, per la prima volta, vide la tristezza attraversare come una crepa il muro di durezza che Mycroft teneva costantemente eretto. Si erano scrutati per un attimo, i due Holmes, e il più giovane aveva annuito alla silenziosa richiesta del fratello. Sarebbe andato fino in fondo.

-Lascialo al centro.- gli aveva detto, indicando il cuore del loto splendente.

Sherlock aveva obbedito e la salma di John, una volta toccata la piattaforma di cristallo, aveva compiuto un aggraziato movimento che l’aveva portata a stabilirsi, fluttuando a mezz’aria, in una posizione eretta. I petali della teca si erano poi chiusi intorno a lui, con un suono cristallino, e subito il viso di John si era rilassato. Il suo torace aveva cominciato a rialzarsi. Aveva ripreso a respirare.

-John…- gli era sfuggito.

-La tua mano.-                    

Mycroft gli aveva indicato una piccola piattaforma su cui avrebbe dovuto porre il suo palmo per completare il processo. Sherlock, annuendo, aveva mosso la destra con fermezza sulla superficie di cristallo. A quel contatto, la Sala si era improvvisamente illuminata di una luce accecante, per poi tornare visibile. Mycroft era rimasto interdetto. Quel flash gli aveva confermato che quello che Sherlock sentiva dentro era Amore vero.

-Funzionerà.-

-Lo so.-

-Non ti resta che attendere.-

Era seguito solo il silenzio.

-Addio fratello caro.-

-Addio Mycroft.-

Era stata l’ultima volta che l’aveva visto.

Da quel momento non aveva potuto far altro che attendere. Perché il funzionamento della Teca era semplice, dannatamente semplice, ed altrettanto dannatamente malvagio. La Teca poteva riportare in vita una ed un'unica persona, ma aveva bisogno di due elementi, l'Amore e il Ricordo, e due individui, l'Amante e il Caduto. Meglio, necessitava del Ricordo del Caduto e dell'Amore dell'Amante. L'Amore doveva essere puro e il Ricordo chiaro, poiché l'uno doveva catalizzare la trasformazione dell'altro in energia vitale, consumandosi fino all'estremo(1). Il tempo necessario a riportare il Caduto in vita dipendeva dalla forza del sentimento provato nei confronti dell'Amante, poiché più il legame era forte, più tempo sarebbe servito per sradicarne il Ricordo, trasformato poi dall’Amore in Vita. 10 anni, conoscenza. 100 anni, amicizia. 1000 anni, amore. L’Amante sarebbe vissuto immutato nel corso di tutta la durata del processo, fino al risveglio del Caduto, che sarebbe rimasto ibernato all’interno del loto fino allo scadere di quei determinati anni, ma che avrebbe perso ogni ricordo dell’Amante, nonostante l’entità del suo sentimento. Inoltre, il Caduto non avrebbe mai dovuto rivedere l’Amante, poiché un risveglio del Ricordo avrebbe scatenato la reazione inversa, portando il primo ad una fine definitiva. Solo alla morte dell’Amante, il Caduto avrebbe riacquisito il Ricordo perduto. Per contrastare i cambiamenti che sarebbero avvenuti nel corso del suo “lungo sonno”, la Teca avrebbe provveduto ad innestare nella sua mente dettagli  ed informazioni riguardanti l’epoca del risveglio, rimanendo intatti i ricordi personali, escluso ovviamente quello dell’Amante, ma cambiandone il contesto e rendendolo consono all’età contemporanea. I ricordi e i sentimenti dell’Amante, invece, sarebbero rimasti immutati.

Sherlock sapeva benissimo che sarebbe dovuto sparire una volta che John si sarebbe risvegliato, che l’avrebbe guardato solo da lontano, ma John sarebbe stato ancora vivo, e splendente, e luminoso. Ed era disposto a farlo, pur di saperlo in vita. Perché il suo Guerriero era morto per lui ed ora lui sarebbe morto per John, anche se non nel corpo.

Con un ultimo sguardo triste, ricambiato solo dal suo stesso limpido riflesso dal vetro della Teca, l’Amante aveva salutato il suo Caduto con la certezza che l’avrebbe rivisto dopo un secolo. Perché lui era stato per John un grande amico, e lo sapeva con certezza. Di certo non un semplice conoscente.
E così aveva continuato la sua vita per inerzia, si era costruito identità fittizie e si era nascosto dalle masse. Mentre tutto cambiava col passare degli anni, fece tutto quello che era in suo potere per proteggere la Sala e l’edificio che la conteneva. Controllava John ogni volta che poteva e, spesso, si perdeva ad osservarlo per ore nella più completa solitudine. Dopo un secolo di attesa, Sherlock era pronto.

Ma si era sbagliato. Quanto si era sbagliato…

Quella rivelazione era stata quasi come una seconda morte. Inaspettata, forte, potente nella sua immensa semplicità.

Quasi novecento anni prima, ora più ora meno, Sherlock aveva osservato con trepidazione da dietro uno specchio semiriflettente il risveglio di John. Aveva organizzato tutto. Aveva istruito delle guaritrici per portarlo in una struttura consona. Le aveva avvisate su cosa dirgli riguardo l’incidente. Aveva pianificato persino il suo trasferimento, ma non servì a nulla. Non riusciva a capire nemmeno come si sentiva o cosa avrebbe provato dopo, ma le sue domande non avrebbero trovato risposta, almeno non in quel momento. Allo scattare della fatidica ora, John non aveva mosso un solo muscolo. Nessun movimento, nessuna luce indicativa, nessun tipo di cambiamento. Il Guerriero aveva continuato a respirare sommessamente, gli occhi chiusi e il viso abbandonato in un’espressione completamente rilassata.

Sherlock era quasi andato nel panico. Aveva creduto per un attimo che nulla fosse andato per il verso giusto, che qualcosa fosse andato storto, che suo fratello avesse sbagliato. Aveva guardato di nuovo l’orario, la data. Aveva poggiato le mani sullo specchio per la disperazione. John era ancora lì, fermo in quel fiore di cristallo.

E poi, con la forza di un pugno in faccia, l’evidenza tanto lampante l’aveva colpito dritto al cuore.

 “Funzionerà.”  Gli aveva detto Mycroft. Ad aveva funzionato. Niente era andato storto, niente era sbagliato, se non, per la seconda volta, la sua valutazione. Non era amicizia quella che John sentiva per lui. Era Amore.

John lo amava.

John lo amava a sua volta.

John l’aveva amato a sua volta.

Fu in quel momento, nove secoli prima, che una singola lacrima rigò il volto etereo e mai tanto umano di Sherlock Holmes, perdendosi fra le sue labbra che sussurrarono un flebile “Ti amo anch’io.”

E adesso era lì, a contare i secondi che lo separavano dal risveglio, quello definitivo, del suo Guerriero Caduto. Anche stavolta la sua organizzazione era stata impeccabile. Col passare dei secoli aveva affinato le sue doti investigative e deduttive fino a creare il suo lavoro, il Consulting Detective, guadagnando e stringendo conoscenze che potevano fargli comodo, ma mantenendo sempre contatti superficiali, in modo da poter svanire al momento opportuno. Stavolta aveva predisposto il trasferimento di John in un ospedale nelle vicinanze, il St. Barts Hospital, accompagnato da un medico di sua conoscenza, il Dottor Mike Stamford, e dalla sua equipe. Aveva fatto passare il tutto come un esperimento di moderna tecnologia, con tanto di disegni, dati, diagrammi e statistiche. E ci avevano creduto. Era pur sempre un abile manipolatore. Aveva costruito una storia ad hoc su John e il suo incidente, in modo che potessero poi  raccontargliela al suo risveglio per la certa amnesia riguardante gli ultimi istanti della sua vita passata, imponendo di lasciare l’identità del benefattore nel completo anonimato, a causa della segretezza della  sperimentazione. Aveva inoltre reso oscura ogni informazione riconducibile alla presunta missione di John, in modo che, se mai avesse cercato informazioni al suo risveglio, non avrebbe trovato nulla di significativo o compromettente, soprattutto riguardo i suoi “compagni di reggimento”, vissuti mille anni prima e dunque ormai morti. Anche se avesse provato a rintracciarli, non ci sarebbe riuscito in alcun modo. Come precauzione, poi, ogni volta che aveva avuto a che fare con loro aveva cambiato aspetto e credenziali, impersonando un tale Peter Guillam(2) per evitare una eventuale divulgazione di dettagli sulla sua persona, compromettendo così la vita del suo amato. Ed era proprio nei panni del biondo Guillam che Sherlock osservava la Sala da dietro lo specchio, riempita dall'andirivieni del personale ospedaliero.

Durante quell'ultimo minuto, il tempo sembrava essersi dilatato all'infinito. Anche l’attesa di un millennio sembrava essere raddoppiata.
Sherlock guardò con intensità l'orologio alla parete e ne contó tutti i secondi, il cuore martellante ed impaziente. Un vortice di sentimenti sopiti e mai provati prima sembró mescolarsi nel suo stomaco. Tutto quello che aveva represso per mille anni gli piombò addosso all'improvviso, come una valanga di neve in alta montagna. Stava per rivedere il suo John vivo. Questa volta per davvero.

"Cinque." Pensò.

Avrebbe rivisto i suoi occhi.

"Quattro."

Il suo sorriso.

"Tre."

I suoi capelli baciati dal sole e bagnati dalla pioggia.

"Due."

Avrebbe ascoltato il suono lontano della sua voce.

"Uno."

Una luce riempì la Sala e l'equipe, già pronta ai posti stabiliti, si ritrasse, stupefatta. Con un tintinnio lieve, i petali della Teca si dischiusero e il corpo di John tornò a toccare il centro del piedistallo, rimanendo in piedi.

A quel tocco, il Guerriero aprí lentamente gli occhi. Ricordava perfettamente quel meraviglioso colore blu oceano, ma gli parvero comunque più belli che mai.

-John....-

Il sussurro di Sherlock si perse in una nuvola di vapore condensato sulla superficie dello specchio. Ce l'aveva fatta. Il suo Sole era finalmente tornato a splendere, anche se non avrebbe mai più illuminato lui. Prima che il personale cominciasse la procedura, l'Amante si ritrovó a pensare un'unica cosa.

“Dì qualcosa. Dì qualsiasi cosa, John. Sto per rinunciare a te per sempre! Ti prego, parla. Fammi sentire la tua voce...”
La sua preghiera fu esaudita. Prima che chiudesse di nuovo gli occhi e venisse trascinato via in barella, il Caduto esalò un flebile respiro e mormorò un’unica parola.

-S-Sherlock…-
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John Watson si risvegliò.

Quando aprì gli occhi, gli sembrò quasi di essere in un luogo ultraterreno. La luce era così chiara che rimase accecato per almeno un minuto. Si sentiva completamente intontito, come se avesse dormito per un lungo, lunghissimo tempo. Quando finalmente riuscì a mettere a fuoco, vide che si trovava in una stanza chiara, che riconobbe come quella di un ospedale. Era sdraiato su un letto al centro della stessa, a ridosso del muro. Aveva vari macchinari nelle sue vicinanze che emettevano suoni bassi e continui. Una flebo era attaccata al suo braccio destro e vari sensori erano disseminati sul suo torace.

Tentò di alzare le spalle facendo leva sui gomiti. Aveva tutto il corpo intorpidito. Mentre tentava lentamente di fare questi movimenti, un dolore acuto alla testa gli fece chiudere gli occhi. Ricordi confusi vorticavano nella sua mente, senza che riuscisse a metterli a fuoco. Stralci di informazioni e centinaia di immagini si rincorrevano e si accavallavano senza sosta, come in fuga, senza trovare un punto di fissità. Tentó di far luce sulle informazioni base. Sapeva di chiamarsi John Watson. Sapeva dove e quando era nato. Sapeva di aver avuto una vita burrascosa, che la sua famiglia non era stata una delle migliori, che aveva perso tutti, compresa sua sorella Harriet, morta giovane per guida in stato di ebbrezza. Sapeva di aver combattuto come soldato, ma non ricordava dove e il motivo della sua degenza. Quello che non capiva, però, era un qualcosa di indefinito, qualcosa che non riusciva proprio a delineare, ma che era sicuro che ci fosse. Un attimo prima sembrava un alone bianco nell’angolo remoto della sua mente, un attimo dopo era un’ombra sfuggente che l’attraversava rapida senza farsi quasi notare. Un qualcosa che, nella sua assenza, era terribilmente presente.

Un vuoto.

Un vuoto pieno di domande.

Un vuoto di grandi proporzioni.

Mentre John tentava di definire questa stranissima sensazione, una donna entrò nella sua stanza ed iniziò a scrutare i suoi parametri vitali. Aveva corti capelli biondi e sorridenti occhi azzurri. La sua espressione era molto dolce mentre si rivolgeva a lui.

-Signor Watson, finalmente si è svegliato. Sono un’infermiera, per qualsiasi cosa può rivolgersi a me.-

Centinaia di domande erano pronte per essere espresse e John tirò fuori quelle per lui più pressanti.

- Cosa mi è successo? Quanto ho dormito?-

L’espressione della donna, se possibile, si addolcì ulteriormente, ma un velo di tristezza attraversò i suoi occhi.

-Proprio non lo ricorda?-

John fece segno di no con la testa, deluso da sé stesso. La donna sembrò capire il suo stato e subito intervenne.

-Non deve preoccuparsi, con un trauma del genere i casi di amnesia sono frequenti. Vedrà che col tempo ricorderà tutto. Tre mesi fa è stato ferito alla spalla sinistra in Afghanistan, dove era d’istanza presso il Quinto Corpo Fucilieri del Northumberland. I suoi compagni sono riusciti a soccorrerla in tempo e portarla a chi di dovere, ma non ha dato segni di miglioramento, così è stato trasportato qui con urgenza dove ha subito un ulteriore delicato intervento ed ha dormito fino ad oggi. Ci troviamo al St. Barts Hospital a Londra.-

Allora era questo quello che gli era successo. Non gli sembrava possibile che avesse dimenticato un avvenimento di tale portata. Era come se stesse guardando un documentario di guerra per poi scoprire che il protagonista era inconsapevolmente lui. Una sensazione orribile. E quel vuoto, poi? Come si spiegava? Come poteva essere ricondotto ad un colpo di fucile? Cercò disperatamente di frugare i ricordi giusti nella sua mente.

-Ricordo i miei compagni. Lestrade, e Anderson, e Doyle. Sapete se…-

-Non abbiamo notizie di nessun genere su i suoi compagni, ci dispiace.-

-Oh. Capisco.- Uno strano istinto portò John a chiedere quella che, alla fine, era l'unica, vera domanda.

-Crede che sia possibile che abbia dimenticato qualcosa… O qualcuno… Di veramente importante, che non avrei mai dovuto permettere alla mia mente di gettare nel dimenticatoio? Intendo dimenticato completamente, proprio cancellato?-

John stesso riconobbe il tono speranzoso e quasi supplichevole della sua voce. L’infermiera gli si avvicinò e si sedette su di una sedia accanto al letto. Con un leggero sorriso, poggiò la sua mano sulla sua spalla destra.

-Guardi, signor Watson, tutto è possibile, ma entro certi limiti. La sua amnesia è strettamente correlata all’incidente, quindi un lasso di tempo relativamente breve. Quanto può diventare importante una cosa o addirittura un individuo nell’arco di un colpo di fucile?-

Lì per lì non riuscì ad obiettare. Gli sembrò che il ragionamento della donna non facesse una piega.

-Se non è colui che spara, ben poco, direi.- Sorrise aspramente.

Anche l’infermiera rise, ma con dolcezza. Aveva un bel sorriso pulito.

-Non si preoccupi troppo, John. Vedrà che tutto andrà meglio. Pensi solo a ritornare in forze e, di nuovo, mi chiami per qualsiasi cosa. Non si faccia scrupoli, davvero. Qualsiasi cosa.-

-La ringrazio signorina...-

-Morstan. Ma mi chiami pure Mary.-

-Grazie mille, allora, Mary.-

Ed alla fine era stato così. Mary Morstan si era presa cura di lui, non solo nella salute.

Quando uscì dall’ospedale si ritrovò solo e spaesato. Dei suoi compagni del Corpo dei Fucilieri nessuna traccia, ed erano gli unici che ricordava fossero ancora in vita prima della sua degenza ospedaliera. Mary fu la sua ancora di salvezza.  Lo aiutò a scegliere un appartamento con la sua pensione, lo accompagnò ovunque quando ne aveva bisogno, senza mai chiedere nulla in cambio. Quell’unico, dolce viso amico era l’unica cosa che aveva dal suo risveglio. Ma arrivò ad odiarsi, per questo. Vide che in lei era nato qualcosa in più della semplice amicizia, qualcosa di molto più grande e definito, ma tutto questo non aveva trovato corrispondenza nella sua persona. John non riusciva ad andare oltre. Era come se avesse un blocco invisibile ed invalicabile che lo rendeva impermeabile a quel tipo di attaccamento. Certo, le voleva bene, era la persona più cara che avesse, ma nulla di più. Ad un certo punto, John era quasi riuscito ad autoconvincersi di amarla e che la sua presenza costante nella sua vita avrebbe reso tutto migliore, ma si rese conto che stava mentendo a lei e principalmente a sé stesso0
.
Come poteva affermare di amare Mary se non le mancava quando non c’era, se non era tanto importante che non la vedesse anche per lunghi periodi o se non attraversava quasi mai i suoi pensieri? Che sentimento mai poteva essere se doveva convincersi e sforzarsi di provarlo? Che razza di amore aveva questi presupposti?

Nessuno.

O, almeno, nessun amore vero.

Per questo, alla fine, aveva allontanato anche lei, chiamandola solo per farle qualche sporadico saluto. L’aveva fatto per Mary, per proteggerla da sé stesso, per non darle false speranze, perché era giovane e bella e dolce e meritava qualcuno che l’amasse per quello che era, e non che fingesse di esserlo.

Tornò a rinchiudersi nella sua gabbia di ricordi perduti e si gettò in una nuova monotonia, fatta di passeggiate al parco e incontri dalla psicologa, assegnatagli dall’ospedale. Dopo un po’ di tempo, si accorse che la solitudine lo faceva stare poi così male, anche e soprattutto perché era raro che si sentisse davvero solo, nel bene e nel male.

C’erano giorni in cui era sicuro che qualcuno lo seguisse, un distinto qualcuno, ma questo, invece di turbarlo, lo faceva sentire protetto, il che era più che strano, quasi malsano. Ma a John non importava. Nella sua mente, era come se un angelo custode gli stesse dietro per evitare che facesse chissà cosa. Era come se quel qualcuno volesse che stesse bene, come se fosse per quello stesso qualcuno l’essere più importante del pianeta. Ma questo accadeva solo con quella sola e determinata figura che, nonostante fosse indefinita, nonostante non l’avesse mai chiaramente vista con i suoi occhi, era certo esistesse e fosse fatta di carne ed ossa e sangue. Una volta sembrava essere un lembo frusciante di un lungo cappotto blu notte che spariva dietro l’angolo di Baker Street, un’altra un suono lontano, malinconico e triste, di un violino. Era come se il suo corpo emettesse impulsi in sua vicinanza, come se avesse memoria di sensazioni andate che, invece, il suo cervello aveva completamente eliminato. Era certo che quest’entità non gli avrebbe mai fatto nulla di male. Ovviamente, tutto questo era terribilmente difficile da spiegare, oltre che assurdo e folle, e per questo John non lo disse nemmeno alla sua psicologa. Ma quelli erano gli unici, fugaci momenti in cui quella strana sensazione che attanagliava il suo cuore quasi si dissipava. Perché poi c’erano giorni maledetti in cui quel vuoto che sentiva era così presente che era impossibile scappare, perché non c’è fuga da sé stessi, e John lo aveva imparato benissimo. Aveva provato a colmarlo, ma non c’era mai riuscito. Ci aveva provato con Mary, ma non aveva portato a nulla, e, se non con lei, così amabile e dolce, con chi? Il vuoto era troppo grande da poter essere riempito, da chiunque.

Aveva tentato molte volte di delineare quella sensazione, ma più si sforzava più il senso sembrava sfuggirgli di mano. Alla fine, giunse ad una sola conclusione. Il problema era soltanto lui e risiedeva solo ed esclusivamente nella sua mente. Infatti aveva anche elaborato una teoria. Dato che nella sua vita precedente ricordava di aver provato dei sentimenti forti, tutto doveva essere dovuto all’incidente in Afghanistan, contrariamente a quanto aveva affermato sempre Mary. Quel maledetto colpo alla spalla, vicinissimo al cuore, gli aveva strappato via non solo la memoria di quel momento, non solo tre mesi della sua vita, ma anche tutto il resto. Gli aveva portato via, in chissà quale oscuro modo, la capacità di amare.

Da un po’ di tempo a quella parte, aveva elaborato anche una possibile soluzione. Tornare lì, sul campo di battaglia. Tentare di rievocare le circostanze e il luogo della sua disfatta per spronare la sua mente a far luce su quel mistero. Non sembrava una cattiva idea. Non aveva nulla da perdere a Londra, ormai. Nessuno a cui dire addio, niente da abbandonare. In qualche modo, era anche certo che quella presenza che talvolta sentiva l’avrebbe seguito anche in capo al mondo. Per questo, con un nuovo spirito speranzoso, si mise ben presto all’opera. Preparò e firmò numerose scartoffie, superò molteplici visite mediche, fu messo alla prova da vari test fisici e psicologici. Incontrò svariate difficoltà burocratiche, ma nulla riuscì a fermarlo, nonostante sembrasse quasi che il mondo gli remasse contro. Era l’unica idea che aveva, l’unico modo per poter almeno tentare di illuminare quell’oscura ombra che sentiva su di lui dal giorno suo risveglio, e l’avrebbe seguita fino alla fine. Dopo qualche mese, i suoi sforzi vennero ripagati. Fu affidato al Quinto plotone della Terza Divisione della British Army, a quel tempo d’istanza nei pressi di Helmand(3).

Così, una volta spolverata la divisa, John Watson era tornato in Afghanistan. Aveva inforcato di nuovo il suo fucile ed era tornato pienamente alla vita e al regime militare. Non gli dispiaceva. Nuove conoscenze, nuovi compagni, nuovi ricordi gli si ponevano davanti, ma di quelli vecchi nemmeno l’ombra. Dopo circa tre settimane, John si accorse che quel suo piano così brillante non sarebbe servito assolutamente a nulla. Il vuoto continuava ad opprimerlo e nessun frammento della sua memoria sembrava tornare al giusto posto. L’unica sua gioia, se così si poteva definire, era che ora almeno aveva un qualche scopo nella vita e una costante fonte di distrazione dai suoi cupi pensieri. Le cose sembravano essere molto migliorate rispetto alla chiusa solitudine di Londra. Fino a quel fatidico momento.

Erano trascorsi 26 giorni da quando era tornato in servizio. Il suo plotone stava compiendo un giro di ricognizione che non sarebbe dovuto durare molto. La città di Helmand era stata precedentemente evacuata e controllata in seguito ad un recente attacco terroristico. John camminava al lato della camionetta militare, il fucile in spalla e il passo deciso. Con la coda dell’occhio, improvvisamente, vide un leggero movimento alla sua sinistra. Se non avesse avuto buoni riflessi, se lo sarebbe perso. Con un cenno della mano avvisò i suoi  compagni e, con cautela, cominciò a dirigersi verso quella zona. Dietro l’angolo fra un basso muro di mattoni ed una casupola tenuta in piedi da assi di legno stava rannicchiata una bambina, le spalle poggiate alla superficie solida e un velo nero tutto impolverato poggiato sul capo. Con le braccia cingeva le ginocchia portate al petto e tremava da capo a piedi. Alzò il viso, dapprima nascosto, verso John e il suo plotone. Nei suoi occhi aleggiava l’espressione di chi sa benissimo cos’è la morte. Con una stretta di compassione, John abbassò il fucile e tentò di avvicinarla. Fu in quel momento che una raffica di colpi eruppe dall’interno della casupola, diretta verso lui. Quell’attimo di esitazione gli sarebbe costato la vita.

Trattenne il respiro e si preparò ad abbracciare la fine, ma questa tardò ad arrivare. Anzi, non arrivò affatto. La scarica di proiettili che avrebbe dovuto colpirlo era stata intercettata da un corpo che non era il suo, sbucato fuori dal nulla a frapporsi tra lui e l’aldilà. Era balzato da dietro il basso muro di mattoni grezzi, a braccia aperte, proprio un attimo prima che John venisse colpito. Ed ora, nella medesima posa, giaceva a terra, un lago di sangue che si espandeva sotto di lui, la polvere che si alzava. In preda ad uno strano istinto, era quasi corso verso di lui per  evitare che toccasse il terreno, ma non ci riuscì. Altre scariche di proiettili lo costrinsero a rifugiarsi dietro l’angolo. Poteva ancora vedere quel corpo a terra. Ne era completamente ipnotizzato. Mentre il suo plotone riuscì a far breccia nella baracca e gli spari cessarono, John rimase immobile a fissare quell’uomo in fin di vita, senza vedere nulla di lui, ma con una crescente ed inspiegata sensazione di paura, tristezza e disperazione.  L’aveva salvato. Quello sconosciuto l’aveva strappato alla morte. Quell’uomo non poteva che essere…

Quel qualcuno.

Il qualcuno.

Il suo qualcuno.

Con uno scatto, abbandonando ogni precauzione, John uscì dal suo riparo, ma un attimo prima che riuscisse finalmente a raggiungerlo, qualcosa di molto peggiore di una scarica di colpi lo attraversò come corrente elettrica. Dovette fermarsi per evitare di cadere, la testa che gli girava paurosamente. Milioni di immagini, suoni, colori si affacciarono tutte in una volta nella sua memoria. Scuri, ribelli ricci neri. Penetranti e acuti occhi di ghiaccio. Battute sarcastiche e sorrisi tanto splendidi quanto rari. Voce bassa e calda. Tutto aveva un unico filo conduttore, un unico viso, un unico nome.

-SHERLOCK!-

Ora tutto era chiaro nella sua mente. Niente più domande senza risposta o quesiti impossibili rimasti in sospeso. Era Sherlock, era sempre stato lui. Era lui l’entità che sapeva lo proteggesse, che lo seguiva, che vegliava su di lui. Ma perché non si era mai fatto vedere? Perché non gli era mai corso incontro? E come faceva ad essere vivo a più di  1000 anni di distanza dal suo tempo? La risposta era tanto ovvia quanto terribile. Se era ancora vivo, dopo che era più che certo di essere morto per lui, dopo più di un millennio, Sherlock aveva potuto fare un'unica cosa. Era ricorso alla Teca e, per farlo, doveva provare un unico sentimento. Non era possibile. Non era giusto.

Sherlock lo amava.

Sherlock lo amava a sua volta.

Sherlock lo aveva amato a sua volta.

E l'aveva scoperto troppo tardi. Il vuoto non esisteva più, ora che sapeva che l’ombra di quel qualcuno finalmente aveva un’identità, ed era quella di Sherlock, il suo Sherlock, l’uomo che aveva sempre amato, l’uomo per cui aveva combattuto mille anni prima in quella maledetta battaglia fatta di spade e frecce, di magia e di morte, l’uomo che aveva dimenticato e che ora giaceva inerme in una pozza di sangue e polvere. L'uomo che amava piú di ogni cosa al mondo e che aveva scoperto nel modo più brutale possibile che ricambiava il suo Amore. Azzerò la distanza fra loro e si inginocchiò al suo fianco. Prese il volto del suo amato fra le mani e si perse in esso.

Era esattamente come lo ricordava, eccetto per i capelli biondi.

Nessuna ruga attraversava il suo viso, sempre così incredibilmente pallido. I suoi meravigliosi occhi di ghiaccio erano così fuori posto in quel luogo così caldo. Senza quell’espressione brillante che sempre lo aveva caratterizzato, sembravano quasi di vetro. Fissavano e riflettevano il cielo così lontano. John li guardò inerme, scuotendolo debolmente. Quegli occhi non l’avrebbero più guardato, non gli avrebbero più sorriso, non gli avrebbero più parlato. Non avrebbero più brillato per uno strano mistero o per una sua battuta arguta. Non l'avrebbero più fatto rabbrividire, e non solo di ammirazione. Non l'avrebbero più trapassato come se fosse stato composto di sola acqua alla ricerca del più piccolo dettaglio per impressionarlo.

-Sherlock, Sherlock, ti prego, non puoi andartene, non ora. Non… Non è il momento di scherzare! Rispondimi, Sherlock. Rispondimi…-

Non ebbe mai una risposta. Lacrime calde bagnarono il volto di John e si persero su quello di Sherlock. Tutto era inutile. L’aveva perduto per sempre. Proprio quando quel vuoto non esisteva più, se ne era creato uno più grande e devastante, una voragine immensa che, ne era certo, non sarebbe mai riuscito a superare. Come poteva il mondo continuare a girare ora che non aveva più la sua Stella intorno cui orbitare? Come avrebbe fatto senza di lui, ora che era consapevole della sua esistenza? Come sarebbe riuscito ad andare avanti se il vero motivo per cui era sceso in campo più di mille anni prima era stato proprio per proteggerlo? Nessuno oltre lui era rimasto immobile, incurante del contorno di guerra, perché nessuno poteva davvero capire l'entità di quello che stava accadendo. E, mentre ancora stringeva tra le braccia il suo Amore Caduto e si perdeva nei suoi ricordi appena riconquistati, la cruda e aspra realtà colpí John alle spalle. Un colpo di fucile raggiunse la sua gamba destra da dietro, mentre era ancora inginocchiato. Il dolore lacerante lo portò a stringere Sherlock ancora di più. I suoi compagni gridavano il suo nome, spari sembravano echeggiare da un'immensa distanza e rumori di un motore facevano da sottofondo ai suoi pensieri, tutti rivolti all'uomo da cui non riusciva a staccarsi. Sentì degli strattoni alle sue spalle, e pensò beatamente che sarebbe morto lì, accanto all'unica persona che aveva sempre amato, vergognandosi di sé, poiché aveva reso vano il suo sacrificio. I suoi sacrifici.

-Perdonami....- sussurrò prima di chiudere gli occhi, stremato. -Perdonami, Sherlock.-

Ma non ci fu nulla da perdonare. John fu trascinato via dagli altri soldati del plotone, insieme alla salma di Sherlock. Anche lui, infatti, indossava la divisa militare e faceva parte della British Army. Al suo risveglio, John dovette fare i conti con l'immane peso della sua perdita. Aveva dormito per tre giorni e la salma di Sherlock era già stata rispedita in patria, da chi non ne aveva la più pallida idea. Il dolore alla gamba non era nulla in confronto a quello che sentiva dentro. Non aveva nemmeno potuto salutarlo. La verità era così dolorosa che si rammaricava di non essere morto. Seppe dal Maggiore Sholto cosa accadde davvero in quei momenti in cui aveva perso lucidità. In realtà non gliene importava nulla. Se non avesse voluto notizie sul suo Sherlock, ne avrebbe volentieri fatto a meno.

Avevano subito un'imboscata e, non si sa come, Sherlock ne era stato al corrente. Su iniziativa personale, si era allontanato dal suo plotone ignorando e sfuggendo agli ordini del suo Capitano ed aveva seguito i presunti attentatori. Tipico di Sherlock. In quei mille anni non era cambiato di una virgola. Il Maggiore aveva continuato a chiamarlo con un altro nome, poichè l'uomo aveva cambiato identità e assunto l’aspetto di un tale Christopher Tietjens(4). John, ovviamente, aveva capito tutto. Sherlock era sempre stato un abile attore, se così lo si poteva definire, e la sua capacità di trasformismo poteva quasi essere confusa con la magia, già molto tempo prima. Una volta trovati gli attentatori, Chris/Sherlock aveva salvato John dando la sua vita. Ed era questo che John non gli avrebbe mai perdonato. Ma c'era di più. Il Maggiore Sholto, dopo avergli comunicato che sarebbe ritornato in patria, gli porse una busta di carta leggermente sgualcito. Una lettera L'avevano trovata in una tasca del pantalone della divisa di Tietjens, accuratamente avvolta in un involucro di plastica. Dopo avergli affidato quel foglio di carta, il Maggiore l’aveva lasciato da solo a fare i conti con la sua tristezza.

Rigirò la lettera fra le dita. Sembrava pesare quanto un macigno, lo stesso che John sentiva poggiato sul suo stomaco. Lesse l’intestazione. La bella grafia di Sherlock si stagliava pulita e precisa sul foglio bianco. "A John Hamish Watson, Quinto plotone Terza Divisione British Army". Un triste sorriso spuntò sul suo volto alla lettura di quelle parole. Con mani tremanti, si fece coraggio e aprì l’involucro e la busta.

Caro John,

Se stai leggendo questa lettera  significa che ti sei messo nei guai e ho dovuto rimediare con la mia stessa vita, come pensavo sarebbe accaduto prima o poi. Tu e il pericolo siete sempre stati una coppia indivisibile, d'altro canto. Spero che non si sia macchiata di sangue. L'ho messa apposta nelle tasche dei pantaloni. La probabilità di essere colpiti a morte agli arti inferiori è notevolmente piú bassa, e l'involucro di plastica dovrebbe prevenire eventuali contaminazioni, per cui spero che potrai leggere il tutto senza intoppi. Avrei di gran lunga preferito che rimanessi a Londra, ma non c'é stato niente da fare. Ho provato in tutti i modi ad evitare che tu partissi per l'Afghanistan, ma sei il solito idiota e non c'è niente che riesce a fermarti quando ti metti in testa qualcosa. Quindi, eccoti qui, a leggere le ultime righe di un morto che, almeno, può finalmente dirti quello che prova. Vederti andar via da me, da tutto, mi ha distrutto, come non pensavo avrei mai potuto essere. Ero completamente annientato. Così, come avrai già capito, ho chiesto aiuto a Mycroft. Per una volta mio fratello è servito a qualcosa. Siamo ricorsi alla Teca. Sai benissimo cosa vuol dire e i presupposti per utilizzarla, per cui non ti tedieró ulteriormente. Ha funzionato. Respiravi di nuovo. Dovevo solo aspettare per rivederti di nuovo vivo. E l'ho fatto, per più tempo di quanto avessi mai potuto immaginare. Non avevo idea che tu provassi quello che anch’io avevo scoperto di sentire. Questa cosa mi ha distrutto. Non fraintendere, ne sono stato felice, ne sono felice, ma sono arrivato ad odiarmi. Se solo non fossi stato così dannatamente cieco su me stesso, su te, avremmo potuto essere un Noi. Ma tutto è inutile, ormai. Con i “se” e con i “ma” non si va da nessuna parte. Lo sai, non sono bravo con queste genere di cose, non lo sono mai stato, e i mille e più anni trascorsi non mi hanno reso migliore, soprattutto perché non c'eri tu. Ma lascia che ti dica una cosa. Sei l'uomo più coraggioso, più gentile e più saggio che io abbia mai avuto l'incredibile fortuna di poter incontrare e ti chiedo scusa se non sono mai riuscito a capire che quello che mi legava a te era più di una semplice amicizia. Non ho mai capito nulla di relazioni, nulla, e, quando ho iniziato a farlo, era già troppo tardi. Ho dovuto lasciare che ti portassero via da me, da tutto, per sapere che ti amavo. Per questo, mi dispiace. Ti chiedo scusa se sei morto per colpa mia, ti chiedo scusa se non siamo mai stati un NOI, ti chiedo scusa se non sarò più al tuo fianco da lontano a vegliare su di te. E aggiungo tre cose.

Una, per te: non colpevolizzarti. Non un singolo momento. Tutto quello che ho fatto, l'ho deciso da solo, in pura consapevolezza delle mie azioni.

Due, per me: vai avanti. Sempre, contro ogni tristezza. Perché il mondo non puó e non deve perderti. Sei troppo importante.

Tre, per noi: ama e lasciati amare. Incondizionatamente. Perché è l'Amore che ti fa vivere e deve continuare a farlo. Perché sei un uomo meraviglioso e ne meriti all'infinito. Perché  solo amando vivrai in eterno.

Posso confermartelo. Mi hai salvato così tante volte e in così tanti modi…

Sono morto ogni singolo giorno aspettando il tuo risveglio, ma non devi preoccuparti, John. Ti ho amato per mille anni, ti amerò per altri mille ancora. Anche se non da dove sei tu. Qualsiasi cosa ti sarà necessaria, qualsiasi cosa ti accadrà, da questo momento, te lo giuro, sarò sempre con te. Sempre.

Arrivederci, John. Sempre tuo,
W. Sherlock S. Holmes
 
Lacrime calde bagnarono il volto si John e si persero fra le lenzuola della sua branda. Mentre leggeva, gli era quasi sembrato di sentire la sua voce. Non si accorse che una figura lo stava osservando dall’uscio della porta fin quando questa non ruppe il silenzio. Era di nuovo il Maggiore.

-Dunque, presuppongo che lo conosceva molto bene.-

John non staccò gli occhi dalla lettera.

-Anche di più.- Mormorò.

-Mi dispiace davvero molto per la sua perdita.- Fece una pausa. -Ma l'ha salvata, Watson. Doveva tenere a lei almeno quanto voi. Perciò, onori la sua memoria, ora e sempre. Se lo ricordi, nei momenti difficili. Non faccia che il suo sacrificio sia stato vano. Così sarà come ucciderlo di nuovo.-

John alzò finalmente lo sguardo. Non gli importava di mostrare il viso solcato dalle lacrime. Il Maggiore aveva ragione. Per quanto fosse stato difficile, non avrebbe permesso che Sherlock fosse morto inutilmente. Col cuore distrutto, si ritrovò a dire solo una frase.

-Lo farò.-


 
Note:
  1. Per semplificare il tutto e mostrare la mia follia post studio, lascio anche la “reazione chimica”.
                                                                           Ricordo ----(Amore)------> Vita
       L’amore sarebbe il catalizzatore;
  1. Peter Guillam: personaggio della serie di spionaggio di Jon le Carré, interpretato da Benedict nel film “Tinker, Taylor, Soldier, Spy”;
  2. V plotone Terza Divisione British Army d’istanza ad Helmand: ho inventato il plotone, ma la Terza Divisione e la location della missione le ho trovate su Wikipedia;
  3. Christopher Tietjens: personaggio della tetralogia “Parade’s End” di Ford Madox Ford, interpretato sempre dal nostro Ben nella miniserie omonima della BBC. Se non l’avete vista, guardatela assolutamente!!
NdA:
Vi chiedo scusa, davvero. Per tutto. Questa cosa è nata dai troppi video angst e dalle tremila canzoni deprimenti che associo a questa Ship (che ho barbaramente tradotto, stravolto e disseminato nel testo). Poi, come vi sarete accort*, alcune parti della lettera sono prese dal best man speech di TSOT. Se siete arrivat* fin qui e non nutrite nessuna “inspiegabile” voglia di uccidermi, meritate una medaglia al valore. Per cui, grazie se non vi apposterete sotto casa con mazze e fucili. Un doveroso ringraziamento va anche a Fede, perché ha sentito l’idea per prima e, meravigliosa come sempre, non ha tentato nemmeno di dissuadermi, ma mi ha spronato invece a finirla. Dopo quasi un secolo, ce l’ho fatta. Fatemi sapere che ne pensate, se ne è valsa la pena leggere questa tragedia e se qualcosa di questa storia vi è piaciuto. Se vi va, ovviamente.
Un saluto,
Ida <3
  
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