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Autore: fren    17/05/2015    3 recensioni
'«Non l'ho presa perché la desideravo» mi aveva rivelato, tanti anni prima. «L'ho portata via perché stava avvelenando il cuore delle persone che amavo. Il potere logora l'anima degli uomini.»
Le sue parole mi avevano fatto rabbrividire. Sì, io lo sapevo. L'avevo provato sulla mia pelle.
Gourry, invece, sembrava estraneo a quel richiamo. Infatti non si era fatto problemi a cedere la Spada, quando gli era stato imposto come prezzo da pagare per riavere me.
La sua anima era incorruttibile. Il suo cuore era puro e trasparente come il vetro.
Solo lui poteva portare l'arma di luce senza restarne abbagliato. Questo, la sua famiglia, non lo aveva mai accettato.'
Seguito di una mia precedente fanfiction, 'The Borderline'. Mi vedo costretta, per ragioni di trama, a mettere l'avvertenza OOC. Lettori avvisati^^
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gourry Gabriev, Lina Inverse, Personaggio originale
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Fragile
Fragile

Per noi, la vita costituisce un pericolo maggiore: noi siamo fatti di vetro; quando cadiamo, guai a noi! Quando cadiamo, tutto, per noi, è perduto.
(Friedrich Nietzsche, La gaia scienza)


«Quello che dici non ha senso…» mormorò Joy. Sembrava incerto sulle gambe, lo sguardo stravolto.
Chiusi gli occhi, sperando con tutta me stessa di riaprirli su un altro scenario. Ma quello che avevo dentro non cambiava. Nemmeno al buio potevo sfuggire allo strappo doloroso che si era aperto al centro della mia anima. Era come se tutti i sentimenti stessero defluendo da quella ferita insanabile. Restavano solo una dolorosa impotenza e un bruciante senso di colpa.
Non avrei dovuto toccare la spada.
Tanti anni di studi e pratica per venire meno alla più importante delle lezioni: mai approcciarsi a un oggetto magico se non se ne conoscono tutti i pericoli.
E adesso Gourry se ne era andato. E io ero a pezzi, in tutti i sensi.
Mi strinsi addosso il lenzuolo, misera difesa contro il freddo. Il gelo che sentivo addosso veniva da dentro. Era l’impronta delle mani ghiacciate di Gourry quando mi aveva afferrato e scaraventato contro l’armadio.
Dei, aveva la forza di dieci uomini. Ero scivolata sul pavimento, tenendomi un polso. Doveva essersi slogato.
Gourry non mi aveva dato modo di riprendermi dal confuso stupore in cui mi trovavo. Mi aveva sollevato e stretto le mani alla gola al punto che, per un breve istante, avevo pensato che mi avrebbe ucciso.
I suoi occhi erano pozzi vuoti, abissi profondi in cui non riuscivo a vederlo. Solo una volta, in tanti anni, gli avevo visto quello sguardo.
Mentre rantolavo, cercando di divincolarmi, lui aveva sbattuto le palpebre. Qualcosa, dell'uomo che amavo, era emerso per un breve istante in superficie, per poi sprofondare di nuovo dentro di lui. Quell'attimo di incertezza, tuttavia, mi aveva dato modo di sgusciare dalla sua presa di acciaio. Tossendo e ansimando mi ero accasciata a terra, strisciando lontana da lui. Dovevo difendermi, a qualunque costo. Avevo afferrato un candelabro d'argento da uno dei comodini e, quando Gourry si era avvicinato, per finire quello che aveva cominciato, non avevo esitato a colpirlo con quello.
Un rumore assordante, di vetro incrinato, aveva raggiunto le mie orecchie e il mio cuore si era rattrappito.
Che cosa avevo fatto? Che cosa avevo fatto?
 
Joy si piegò al mio fianco.
«Lina, cosa...chi ti ha ridotto così? Dov'è Gourry?»
«Te lo ho detto, Joy. Se n'è andato.»
Il tono di voce di Joy era stridulo, il mio eccessivamente calmo. Le lacrime si stavano cristallizzando sulle mie guance, presto non ne avrei avute più da versare. Qualcosa si stava indurendo, dentro di me. Era un modo come un altro per non cedere, supponevo. Per restare integra. Se mi fossi lasciata andare, se fossi crollata, sarei stata perduta.
Lo sapevo, lo avevo già vissuto.
«Ma chi...» Joy mi sfiorò una spalla e io mi ritrassi come se mi avesse ustionato con il tocco delle dita.
«Non toccarmi!» esclamai. Mi faceva male tutto, ma più di ogni cosa non volevo essere sfiorata da nessuno. Dovevo capire cosa era in grado di fare quella spada maledetta, prima di fare altri disastri. Prima che il danno diventasse irreparabile, sempre ammesso che non lo fosse già.
Joy si ritrasse, disorientato. Poi, nei suoi occhi passò un barlume di comprensione.
«Non sarà stato...» Ebbe un attimo di esitazione, di incredulità. «Non è stato Gourry a farti questo, vero?»
Il silenzio si insinuò fra di noi come uno spiffero di aria gelida. C'era una finestra aperta, da qualche parte, e da lì stavano entrando nubi di tempesta.
«Non è stato Gourry, vero Lina?»
Scossi piano la testa, ma non fu sufficiente. Joy vedeva dentro di me.
«Lo uccido» disse, voltandosi verso la porta. «Lo uccido e poi gli faccio un discorso.»
«Joy...»
«Lo uccido con le mie mani. Poi lo riporto in vita e lo uccido di nuovo.»
«Joy
Joy inciampò nei suoi stessi piedi, tanto era sconvolto. Si aggrappò alla maniglia, stringendola fino a far sbiancare le nocche.
«Non servirà a niente. Se ne è andato per sempre!» gridai, con tutto il fiato che avevo in gola.
L'urlo rimbombò nel silenzio, rimbalzando tra le pareti della stanza come una palla impazzita.
Joy deglutì, poi, dopo alcuni istanti, colpì la parete al suo fianco con il pugno chiuso. La smorfia di dolore che si dipinse sul suo volto non fu sufficiente a dissipare il cipiglio scuro che induriva i suoi lineamenti.
Perfetto, ora eravamo in due ad avere un polso slogato.
 
Mentre il Recovery faceva effetto mi costrinsi a non guardare negli occhi grigi del mio amico. Mi ci sarei riflessa ed era l'ultima cosa che volevo fare. Seduti sul letto disfatto, tra le macerie del mio matrimonio, entrambi guardammo verso la custodia vuota che aveva ospitato la Spada di Ombra, la terribile eredità che Lord Gabriev aveva lasciato a suo figlio.
«Quella cos’è?» chiese Joy.
«Il motivo per cui Gourry ha…» le parole mi morirono in gola.
Non ero sincera, non del tutto. La spada di certo aveva un potere oscuro, lo avevo percepito subito, appena la avevo stretta tra le mani. Ma Gourry era già arrabbiato. Gourry era fuori di sé.
E la colpa era solo mia.
La sera prima ero tornata in camera piena di collera. Per me, per Gourry, per quello che stavamo passando. Non volevo ricordare ciò che avevamo perso. Qualcosa che, lì per lì, mi era parso solo una liberazione e che, a lungo andare, si era trasformato in una prigione da cui non riuscivo a liberarmi.
Un muro invisibile ci separava. I nostri desideri non collimavano più.
Gourry voleva una famiglia e io… io non sapevo più quello che volevo.
Mi ero chiusa la porta alle spalle, strappandomi la reticella dai capelli e lasciandola cadere sul pavimento. Ciocche scomposte mi si erano appiccicate alla nuca sudata. Quello stupido vestito di velluto era troppo pesante. Era opprimente. Me lo ero sfilato con gesti bruschi, restando solo con la sottoveste addosso.
Rivedere Joy mi aveva turbato. Mi aveva ricordato la persona che ero, quattro anni prima.
Lui non era cambiato, ma aveva trovato cambiata me, lo avevo letto nel suo sguardo sconcertato. Ricordava una combattente; una guerriera. E si era trovato davanti una donna spezzata, logorata nello spirito.
Mi ero seduta davanti alla specchiera, scrutando il mio riflesso. Che fine aveva fatto il mio entusiasmo? Avevo pensato a Gourry, giù nel salone, che vezzeggiava il piccolo Gael e posava la mano sul pancione della cognata.
«Spero che sia una femmina» aveva detto lei, con un sorriso speranzoso. Lo stesso che le aveva rivolto lui. Già, Gourry, in quel breve periodo, ci aveva sperato. Chissà se, in quelle poche settimane di consapevolezza, aveva nutrito delle preferenze sul sesso del bambino. Io non lo avevo fatto, ma Gourry di certo sì. Lui immaginava un volto dove io vedevo solo macchie confuse. Vedeva un futuro dove io scorgevo solo buio.
Un mormorio, dall’armadio, aveva raggiunto le mie orecchie. Il lato oscuro aveva una voce molto suadente, a cui difficilmente ero riuscita a resistere nella mia vita.
«Darò solo un’occhiata…» avevo sussurrato al mio riflesso.
Chi vuoi prendere in giro, Lina?
«Ci vorrà un secondo…»
Mi ero avvicina all’armadio, aprendo le ante con delicatezza. La custodia di velluto era così invintante… Così proibita.
Mi ero inginocchiata davanti a quello scrigno perfetto e, dopo una breve esitazione, avevo fatto scattare la chiusura.
L’elsa era di ottima fattura. Vederla, per un breve istante, mi aveva ricordato la sua gemella, la Spada di Luce, e qualcosa di simile al rimorso si era impadronito di me. Gourry l’aveva ceduta per riavermi. Era il suo bene più prezioso, ma la sua priorità ero diventata io. Avrei dovuto meritare il suo amore, invece lo stavo imbrogliando come la peggiore delle vigliacche.
Le mie dita risultavano sottili e pallide vicino al manico massiccio. L'acciaio lanciava bagliori sinistri nella penombra della stanza.
Lord Gabriev ci aveva proibito di toccarla. Ma ero pronta a giurare che avesse detto la stessa cosa della Spada di Luce. In fondo, se la impugnavo senza usare formule, che male potevo fare? Era solo un'elsa. E io sentivo scorrere in me il brivido di eccitazione che oggetti come quello avevano sempre esercitato sulla mia persona.
Potere, brama di conoscenza, gusto del proibito. C'era un motivo se avevo scelto la magia nera a discapito della bianca.
L'avevo presa tra le mani, sollevandola davanti a me. Era pesante, fredda, immensamente bella. Avevo scrutato le finiture della guardia, il modo in cui la pietra era incastonata nel pomolo. Sì, aveva proprio la forma di un cuore. Un cuore liscio e trasparente. All'improvviso, qualcosa aveva catturato la mia attenzione. Mi ero avvicinata e avevo visto delle sottili venature rosse sporcare la trasparenza del vetro. C'erano anche quando avevo guardato la spada la prima volta? Non ricordavo, ma del resto l'avevo avuta sotto agli occhi per così poco tempo che quel particolare poteva anche essermi sfuggito.
Mi ero sollevata, brandendola davanti a me, per saggiarne il peso. Avevo compiuto qualche mossa, come mi aveva insegnato Gourry, ma senza la lama l'equilibrio era incerto. Poi avevo guardato di nuovo la pietra sul pomolo. Era diventata quasi completamente rossa. Un rosso cupo, che ricordava il sangue.
Spaventata, avevo cercato di riporre la spada, ma proprio in quel momento un lungo nastro di nebbia scura era scaturito dal manico. Un fascio di ombra, che si confondeva tra il buio della notte.
L'avevo gettata a terra, incapace di sopportarne ancora il peso tra le mani.
Ci erano voluti pochi secondi perché tornasse a essere una semplice elsa, mentre la pietra riacquistava la sua trasparenza. Io, però, mi sentivo scossa. Qualcosa mi aveva inquietato mentre la stringevo tra le mani.
Era stato in quel momento che avevo sentito i passi di Gourry, davanti alla porta. Non avevo tempo per rimettere la spada a posto, così avevo sollevato il mio abito da terra e lo avevo lasciato cadere sull’elsa e sulla custodia. Dubitavo che Gourry se ne sarebbe preoccupato, e io avrei provveduto più tardi a sistemare ogni cosa.
Mio marito era entrato nella stanza. Sembrava scosso, come se qualcosa lo avesse turbato nel profondo.
«Sei ancora sveglia?»
Mi ero stretta nelle spalle.
«Non riesco a dormire.»
Lo avevo scrutato sedersi sul bordo del letto e massaggiarsi i polsi. Sì, suo padre era morto da poche ore, ma Gourry sembrava soffrire anche fisicamente, oltre che nell’anima.
«Tutto bene, Gou?» gli avevo domandato, sedendomi accanto a lui.
«Sì… no. Non lo so, Lina. Non mi sento molto bene, in effetti.»
Gli avevo posato una mano sul braccio. Era freddo, gelido. E stranamente rigido.
«Cosa ti senti?»
«Io…» Gourry si era portato una mano al petto, dove c’era il cuore. «Nulla di cui preoccuparsi, davvero. Ho solo bisogno di dormire, sono ore che non chiudo occhio.»
«Sì, avresti proprio bisogno di dormire…» avevo concordato, mordendomi il labbro e lanciando un’occhiata nervosa al mio vestito afflosciato a terra.
«Sdraiati qui, accanto a me» aveva sussurrato mio marito, prendendomi tra le braccia. Avevo capito che aveva bisogno di me, più di quanto riuscisse ad ammettere, così mi ero stesa al suo fianco. Il suo respiro, tuttavia, usciva come uno sbuffo di fumo. Il suo fiato era gelato.
«Gourry… sei sicuro di stare bene? Sei… gelido» avevo mormorato, sollevandomi e scrutandolo. La pelle, sulle sue tempie, era tanto pallida che riuscivo a intravedere sottili vene blu. No, non era pallida… era quasi trasparente. Cosa diavolo…?
Ma non ebbi modo di domandarmelo. In quel momento Gourry mi aveva attirata a sé, baciandomi. C’era una tale disperazione, in quel bacio, che ero rimasta inerte, incapace di sottrarmi alla sua presa, che diventava sempre più possessiva.
Ne ho bisogno, dicevano le sue mani su di me. Eppure, c’era qualcosa di stonato nei suoi movimenti. Una rigidità che non gli apparteneva. Conoscevo il tocco di Gourry su di me più di ogni altra cosa. Il mio corpo era una mappa che lui aveva tracciato, un territorio che, solo, aveva esplorato e conquistato con dolcezza e pazienza, con passione e calore.
Ma le sue dita, in quel momento, lasciavano tracce di neve e brina sulla mia pelle.
«Gourry…»
«Ti prego, Lina. Ho bisogno di sentirti, adesso
Non avevo protestato. Il modo in cui l’aveva detto era stato sufficiente a farmi tacere. Con mia sorpresa mi aveva fatta voltare, prendendomi da dietro. Mi negava anche il suo sguardo. Non capivo.
Era scivolato in me senza indugi, e io avevo chiuso gli occhi, mordendomi le labbra. Senza le sue carezze a prepararmi, non ero pronta.
Per la prima volta avevo l’impressione di fare l’amore con un perfetto sconosciuto, ed era una sensazione che non mi piaceva. Non mi piaceva affatto.
Dopo eravamo rimasti immobili, l'uno accanto all'altra.
«Perché, Lina?»
«Perché... cosa?»
«Perché non mi parli? Io... ho come l'impressione che tu mi stia tagliando fuori. Cosa ho sbagliato?»
Avevo lasciato passare qualche secondo.
«Niente, Gourry. Non hai sbagliato niente.»
Sono io che ho sbagliato tutto.
«Credevo che insieme avremmo potuto affrontare tutto. Ma questa cosa... questa non riusciamo a superarla, vero?»
Avevo chiuso gli occhi, scostandomi da lui.
«Ti sbagli, l'abbiamo superata. Io l'ho superata.»
«Io... forse no» aveva ammesso lui.
Quella confessione, per qualche strano motivo, mi aveva irritata. Mi ero voltata dall'altra parte, affondando il volto nel cuscino.
Volevo che la smettesse di rinvangare il passato: non faceva bene a nessuno dei due. Volevo che si addormentasse in fretta, per darmi modo di sistemare quello che andava sistemato.
Quando ero certa che avesse, infine, ceduto al sonno, ero scivolata fuori dal letto. Prima della spada dovevo pensare alla pozione, o non avrebbe più avuto effetto.
Mi stavo portando quel liquido amaro alle labbra quando la voce di Gourry mi aveva fatto trasalire.
«Lina, non dormi? Cosa stai facendo?»
«Niente. Avevo un po' di mal di stomaco. Ho preparato un infuso...»
Gli occhi di Gourry mi avevano cercato, nella penombra. Mio marito era in grado di fiutare le bugie da un miglio. Le mie, soprattutto.
«Perché ti nascondi?»
«Non mi sto nascondendo...»
«Lina» Gourry aveva abbassato il tono di voce, sollevandosi dal letto. «Non starai... Quello non è...» Non riusciva a dirlo. Era troppo, persino per lui, che pure mi conosceva come le sue tasche. Ma Gourry non sapeva quando potevo diventare meschina ed egoista. O forse lo sapeva, e preferiva ignorarlo.
«Miei dei» un barlume di comprensione era passato sul suo volto. «Per questo non è più successo.»
Quelle parole ebbero l'effetto di un sasso lanciato con violenza in uno stagno. Portarono a galla tutto ciò che se ne stava immobile sul fondo.
«Non è successo perché io non volevo che succedesse» avevo risposto, con le parole che mi tremavano fra le labbra.
«Ma tu avevi detto...»
«Ho mentito!» avevo esclamato. «Ho mentito, Gourry. Io... non sono pronta. Forse non lo sarò mai.»
«È normale avere paura...» aveva tentato lui, per quanto sconcertato dalle mie affermazioni. «E, dopo quello che è succes...»
«Non dirlo!» lo avevo ammonito. «Non voglio parlare di quello è successo.»
«Invece dovremmo, perché, da quello che vedo, non parlarne ti ha fatto più male che bene.» Il suo tono era asciutto. Percepivo la delusione, il biasimo per il mio assurdo comportamento. Ciononostante, Gourry si stava sforzando di essere comprensivo. Anche davanti alle mie menzogne. Anche davanti al fatto che, da mesi, lo stavo imbrogliando alimentando in lui false speranze, non mi rimproverava nulla.
Oh, Gourry. Sei sempre stato migliore di me, in tutto.
«Tu... non capisci» avevo risposto, scuotendo la testa. Sentivo qualcosa di duro incastrato nella gola, qualcosa che non voleva sciogliersi. Un nodo stretto con troppa forza.
«Se non capisco è perché tu stai facendo di tutto per non farmi capire, per confondermi!» aveva detto lui, alzando la voce. Non era arrabbiato, sembrava solo... amareggiato. Ferito. «Che cosa vuoi, Lina?»
«Io… non lo so, va bene? Vorrei avere le risposte… vorrei riuscire ad affrontare il futuro con serenità ma… non ci riesco. Quello che so è quello che non voglio. E quello che non voglio è…»
«Un figlio.»
Ero rimasta immobile, senza distogliere lo sguardo dal suo, i pugni stretti con violenza.
Gourry si era morsicato le labbra, poi, dopo quelli che mi erano parsi secoli, aveva scosso piano la testa.
«È un tuo diritto. Quello che mi fa male è che hai deciso anche per me, senza farmene parola. Credevi che non avrei capito?»
Quell’affermazione mi aveva lasciato senza parole. Già, credevo che non avrebbe compreso la mia decisione, che non l’avrebbe accettata? Mi ero convinta che il suo desiderio di una famiglia fosse più forte di quello che provava per me?
Gourry aveva compiuto qualche passo nella stanza, coprendosi le tempie con le mani.
Avrei potuto dire molte cose. Che mi dispiaceva, tanto per cominciare. Che il rimorso per quello che gli avevo nascosto non mi faceva dormire la notte. Che era complicato, dannatamente complicato. Non eravamo più due ragazzini spensierati, per gli dei. Eravamo adulti.
Ma non avevo detto nulla di tutto questo. Mi ero stretta le braccia al corpo, chiudendomi in un ostinato mutismo. Avevo guardato mio marito camminare su un abisso e non gli avevo teso alcuna mano per salvarsi dalla voragine che rischiava di risucchiarlo da un momento all’altro.
Non ne avevo la forza.
Io, Lina Inverse, colei che aveva quasi distrutto il mondo con il più temibile degli incantesimi, mi sentivo annichilita, inerte.
Gourry, alla fine, si era fermato. Quasi sovrappensiero aveva raccolto il mio abito da terra, porgendomelo.
«Mettiti addosso qualcosa, si gela qua dentro…»
Poi la aveva vista. L’elsa della Spada di Ombra, che giaceva a terra vicino alla sua custodia.
Prima che potessi dire o fare qualcosa si era piegato, afferrandola. La mano si era stretta all’impugnatura e io avevo sgranato gli occhi.
«Non potevi proprio farne a meno, vero?» aveva detto mio marito scuotendo la testa.
«Gourry, mettila giù. Io… credimi, è meglio se non la tocchi!»
Ma lui non stava più ascoltando. Il suo sguardo era ipnotizzato dal sottile fumo nero che aveva iniziato a sprigionarsi dalla guardia.
«Gourry!»
Era stato un attimo. Se tra le mie esili mani la spada aveva prodotto un’esile ombra, in quelle di Gourry si era trasformata. Una lama più scura della notte era apparsa a completare l’arma. Il cuore di vetro sul pomolo si era fatto rosso cupo, e poi nero come l’inchiostro.
Mi ero fatta avanti, per togliergli quella spada maledetta dalle mani. Era stato allora che Gourry mi aveva spinto via, lontana. Avevo sbattuto contro l’armadio, mi ero slogata il polso.
Ma a lui non era importato niente.
I suoi occhi erano vuoti, lontani. L’arma lo stava possedendo, e aveva un potere terribile. In un istante ero tornata indietro di anni, quando Phibrizio lo aveva rapito e assoggettato al suo potere.
Quello non era il mio Gourry e io… io dovevo difendermi. Nella colluttazione che era seguita avevamo rovesciato e capovolto tutto ciò che c’era nella stanza.
Infine, lo avevo colpito con il candelabro. E il rumore di vetro che era scaturito da quell’impatto mi aveva fatto trasalire.  
Gourry era tornato in sé.
«Cosa…?»
Aveva guardato la spada,tra le sue mani, poi aveva guardato me. Il suo volto era stravolto dall’orrore.
«Cosa ti ho fatto?»
Mi ero portata una mano alle labbra. Erano spaccate, sanguinavano. Il polso faceva un male terribile. Gourry si era coperto la bocca con la dite tremanti, reprimendo un gemito.
«È la spada… mettila giù…» avevo detto, e la mia voce mi era sembrata lontana, come se non mi appartenesse più.
«Cosa ti ho fatto…» aveva ripetuto lui, indietreggiando. Avevo teso una mano verso di lui e Gourry era arretrato ancora di più.
«No! Non ti avvicinare…» Aveva scosso la testa, incredulo. Il mio volto doveva essere uno spettacolo tremendo per lui. «Lina…» aveva mormorato, con un singhiozzo.
«Gourry, va tutto bene. Lo so che non sei tu. È… è quella stupida spada. Mettila giù!»
«Non ci riesco.»
«C-cosa?»
«Io… devo andarmene.»
Si era voltato, e io lo avevo guardato afferrare confusamente i suoi abiti dal bracciolo di una poltrona.
«Gourry!»
«Non capisci! Se restiamo insieme, in questa stanza… potrei anche ucciderti.»
«Di che diavolo stai parlando?»
«Io… non lo so. Sento che potrei farti… qualsiasi cosa. Io... io desidero farlo.»
«Non lo faresti mai. Gourry, guardami!»
«Lo ho già fatto!» aveva gridato lui. Aveva teso una mano verso di me, indicandomi, e solo allora avevo scorto le crepe che si tendevano sulla sua pelle, risalendo sul braccio, fino al gomito.
Fratture di vetro rotto.
Era il punto in cui lo avevo colpito con il candelabro. Il panico mi aveva serrato la gola.
«Che cosa ci sta succedendo, Gourry…?»
«Perdonami.»
Mi aveva rivolto un breve sguardo, colmo di disperazione, poi era sparito oltre l’uscio.
Era un incubo, non poteva essere vero. Eppure i minuti erano passati, e io ero rimasta lì, intontita, raggelata.
Gourry non era tornato.
Non sarebbe tornato mai più.

«Lina…» Joy mi prese il volto tra le mani, costringendomi a guardarlo. «Mi stai ascoltando?»
Ci misi qualche istante a metterlo a fuoco.
«Dove pensi che possa essere andato?» mi domandò il mio amico.
«Io… non lo so. È tutto così assurdo, Joy. Noi… stavamo litigando. E poi ha preso in mano quella dannata spada e…»
«Quindi è stata la spada?»
«Io… credo di sì, non lo so. L’ho tenuta in mano anche io, ma non mi è successo nulla del genere.»
Ero confusa. Sentivo che i pensieri si sovrapponevano nella mia mente senza un ordine ben preciso. Riuscivo solo a pensare a Gourry, al modo in cui mi aveva aggredito, al suo sguardo vuoto. Alle crepe sul suo braccio.
Come se…
Scossi la testa a quel pensiero: era assurdo.
«D’accordo. Allora dobbiamo prima di tutto capire cosa è in grado di fare quella spada.» Gli occhi di Joy si spostarono per la stanza, fino a raggiungere la custodia della spada. Era rimasta abbandonata per terra, come un guscio vuoto e inutile. Si alzò e andò a prenderla, rigirandosela tra le mani.
«C’è un’incisione qui» disse, avvicinandola al volto. «Ma… è illeggibile.»
«Fammi vedere.»
Presi l’astuccio e scrutai il punto che Joy mi indicava. All’interno, effettivamente, c’erano dei segni senza senso. Provai a ruotare la custodia, ma non assumevano alcun significato.
«Dovrei contattare la Gilda…»
«Lo puoi fare?»
Aggrottai le sopracciglia.
«Non a quest’ora della notte, suppongo. Ho bisogno che qualcuno tenga aperto un canale, e adesso staranno tutti dormendo.»
Joy scrutò fuori dalla finestra. Il cielo nero non lasciava presagire alcuno spiraglio di luce.
«E allora non resta altro da fare che aspettare» disse, tornando sul letto e stendendosi accanto a me,  che mi ero raggomitolata su me stessa, troppo scossa per fare o dire alcun che. Immaginavo fosse lo shock. Doveva essere quello che succedeva quando tutte le tue certezze crollavano. Quando la vita che avevi vissuto fino a poco prima si sbriciolava davanti a te come un castello di sabbia.
Avevo già vissuto qualcosa di simile, con Gourry, ma le premesse cambiavano completamente in quel caso. Lui era mio marito, adesso; avevamo affrontato una discussione lunga e penosa per entrambi, aveva scoperto le mie bugie, il mio scarso coraggio nell’affrontare la situazione.
Una lacrima scese silenziosa sulla mia guancia tumefatta. Con il Recovery avevo curato solo il polso, non trovavo l’energia per nient’altro.
Joy mi attirò a sé, stringendomi tra le braccia, e io nonostante tutto lo lasciai fare.
«Andrà tutto bene. Lo troveremo, vedrai. Si chiarirà ogni cosa.»
«No, Joy, è un casino» balbettai, affondando il volto nel suo collo.
«Sai, qualcuno una volta mi ha insegnato che, se c’è un problema, da qualche parte c’è anche la soluzione per risolverlo.»
«Ho paura che questa volta il problema sia più grosso della soluzione.» Non riuscivo a togliermi dalle orecchie il suono del vetro rotto.
«Ssst, ora dormi. Ci sono io qua con te. Ci sono io.»
  
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