Una. Due. Tre. Quattro.
Aveva subito perso il conto, dimenticandosi ben presto di tutte le volte che la frusta era calata su di lui. I colpi erano forti, e sembrava mirassero a spezzarlo.
Uno. Due. Tre. Quattro.
I secondi scorrevano lenti, come se il tempo stesse rallentando appositamente per fare in modo che lui provasse più dolore, che lui si sentisse sporco e impuro. Gli uomini attorno a lui lo guardavano con una freddezza che non aveva mai visto in nessuno, con uno sguardo carico d’odio e di vergogna.
Ma vergogna per quale motivo?, si chiedeva. Cosa c’era di tanto vergognoso nell’amare qualcuno con tutto te stesso? Solo perché era una persona del tuo stesso sesso voleva dire che era un amore innaturale e sporco?
Questo continuava a pensare mentre la frusta lo colpiva senza sosta, mentre quegli uomini senza emozioni e dal cuore di ghiaccio procedevano con la loro tortura.
Ma niente avrebbe potuto cambiare quello che provava. L’unico pensiero che gli permetteva di non impazzire era Renly, il suo amato ora sepolto chissà dove sotto terra.
Renly, amore. 
Due cose che ora l’avevano portato in quel luogo.
La frusta calò per l’ultima volta, poi gli uomini se ne andarono, lasciandolo solo nell’oscurità.
Solo con i suoi timori, il suo dolore e un vuoto incolmabile, lì dove un tempo c’era stato Renly. Forse essere ucciso da quegli uomini non sarebbe stata una brutta cosa, forse avevano ragione loro: aveva commesso dei crimini contro tutti ed era giusto che pagasse.
Voleva resistere ma allo stesso tempo voleva chiudere gli occhi e lasciarsi cullare dalle tenebre, e chissà, magari ritrovare il suo amato.
Renly, amore. 
Due cose che l’avevano fatto diventare quello che era, due cose che probabilmente sarebbero state la sua fine.
E di nuovo si sentono le frustate, accompagnate da alte grida di dolore. Non sapeva nemmeno da quanto tempo stava in quella stanza, forse tanti giorni o solo una manciata di ore. Ogni cosa scorreva contro di lui, privandolo di tutto quello che era stato.
Poi una luce, accecante e calda, era entrata da quella porta che aveva visto aprirsi solo qualche volta, e da essa erano entrati tanti guerrieri in armatura. Era quasi sicuro di aver visto il vessillo della sua casata sopra quei mantelli, ma non ne fu del tutto certo, almeno fino a quando non vide sua sorella precipitarsi verso di lui, in lacrime.
L’aveva liberato, gli aveva sciolto le catene e poi l’aveva afferrato prima che cadesse a terra. Si sentiva esausto e terribilmente vuoto.
Lì attorno la battaglia infuriava, ma lui nemmeno la sentiva. Sua sorella continuava a tenerlo stretto, mentre lui continuava a ripetere in un sussurro “mi dispiace, mi dispiace…”
Perché mai come in quei giorni, o in quelle ore, si era sentito tanto dispiaciuto per ogni cosa. Aveva cercato di chiedere scusa a tutti nel silenzio di quella cella, per, in qualche modo, essere perdonato.
Aveva chiesto scusa alla sua famiglia, a sua sorella, agli dei vecchi e nuovi e a tutte le persone che gli venivano in mente.
Aveva chiesto perdono a Renly.