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Autore: Ortensia_    17/05/2015    6 recensioni
Guardò di fronte a sé e per un istante ebbe la sensazione che quell'universo nero lo inghiottisse. La malattia lo aveva distrutto, quell'oscurità non avrebbe lasciato alcuna traccia di Kise Ryouta: lui era il cadavere freddo e rinsecchito di una farfalla avvolta nelle sue stesse ali, il lucignolo carbonizzato di una candela, così che, come tale, non avrebbe mai più potuto emanare luce propria.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Daiki Aomine, Ryouta Kise
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Tu sei tutto quello che rimarrà di me





Quando gli aveva chiesto se gli sarebbe stato vicino, la risposta di Aomine era stata così brusca che, seppur affermativa, Kise non aveva potuto fare a meno di sprofondare nell'abisso del dubbio. D'altro canto, però, sapeva che non sarebbe mai riuscito a biasimare Aomine se all'improvviso avesse deciso di infrangere la promessa e correre lontano, verso quel futuro che avevano tanto sognato e che lui non avrebbe mai potuto possedere.
Anche quel giorno, quando lo aveva supplicato di portarlo al campetto più vicino, la risposta di Aomine era stata brusca, – tanto che a Kise era perfino sembrato che propendesse per il no –, eppure lo aveva accontentato.
Ora, Ryouta era in piedi di fronte al canestro, i muscoli delle braccia tesi e contratti, le ginocchia piegate: sentiva l'aria fredda del mattino che si insinuava fra i capelli, un sottile alito di vento che gli scivolava dietro le orecchie e gli lambiva la nuca, facendolo rabbrividire un poco; percepiva appena l'odore acre della terra bagnata e quello pungente delle foglie marce sconquassate dalla pioggia; avvertiva un fremito di piacere che dalle dita si diramava fino alle spalle, pizzicando le membra e facendole vibrare e tremare come corde di violino ogni volta che picchiettava i polpastrelli contro la superficie ruvida e dura del pallone da basket.
C'era il vento leggero del mattino che si trascinava dietro l'odore di pioggia, l'adrenalina che scorreva e palpitava sotto la pelle, e tutto era bellissimo, ma sembrava che Kise non avesse intenzione di lasciare il pallone, era come pietrificato, con le labbra contratte e un singulto rabbioso ad attanagliargli la gola, e questo perché lui, il canestro, non poteva vederlo.
«Kise.» la voce di Aomine gli parve impastata di noia, e lo sentì schioccare la lingua contro il palato, in un moto di disappunto.
«Aspetta.» Kise, invece, sussurrò a fior di labbra e si ritrovò ben presto annichilito da un tremolio di impazienza misto alla spiacevole consapevolezza di essere completamente impotente di fronte alla totale oscurità piombata sui suoi occhi da poco più di una settimana.
Kise si tranquillizzò non appena percepì la presenza di Aomine al suo fianco – considerando che era ancora disorientato e impacciato, non sapeva dire come ci riuscisse, ma sapeva esattamente che quei tonfi sordi, repentini e nervosi corrispondevano ai sui passi, che quel profumo tanto simile alla fragranza delle pesche era quello della sua pelle, e che lo sbuffo che prorompeva sulle labbra con un'esplosione rumorosa e poi moriva lentamente era il suo modo più gentile per comunicargli che lo aveva stufato e stava cominciando a perdere la pazienza –. Aomine era un insieme di tante cose, e Kise riusciva a percepirle tutte senza doversi minimamente sforzare, anzi era così facile che spesso si illudeva che i suoi occhi fossero guariti e che fosse tornato a vedere.
Aomine gli afferrò le braccia e Kise si lasciò condurre, focalizzando la propria attenzione sulla pressione delicata che le dita dell'altro esercitavano sulla sua pelle: c'era una certa rigidità nel suo tocco, si riusciva a percepire l'eco sommessa di una rabbia trattenuta a stento e perciò non era difficile capire che l'ex asso del Touou desiderava soltanto che quella farsa si concludesse al più presto.
«Grazie.» Ryouta sorrise debolmente, ma i muscoli tesi tremarono appena quando si rese conto che dopotutto, anche se l'altro lo aveva aiutato ad assumere la posizione corretta, non era cambiato nulla.
~ Guardò di fronte a sé e per un istante ebbe la sensazione che quell'universo nero lo inghiottisse. La malattia lo aveva distrutto, quell'oscurità non avrebbe lasciato alcuna traccia di Kise Ryouta: lui era il cadavere freddo e rinsecchito di una farfalla avvolta nelle sue stesse ali, il lucignolo carbonizzato di una candela, così che, come tale, non avrebbe mai più potuto emanare luce propria.
Quando piegò il polso all'indietro per prepararsi al lancio, Kise sentì di avere paura di quell'oscurità, un terrore così grande da bloccargli il respiro, e non appena avvertì la superficie ruvida del pallone stridere sulla punta delle dita, capì che non sarebbe mai riuscito a fare canestro.
Stese le braccia lungo i fianchi, chinò appena il viso e ascoltò i tonfi sordi del pallone che rimbalzava poco lontano.
«Ho fatto canestro, Aominecchi?» non sapeva dire perché si ostinasse a domandarglielo, visto che conosceva già la risposta.
Aomine si soffermò sul pallone a spicchi che si trovava sotto il canestro e inspirò appena.
«Ah... sì.» si morse la lingua e si insultò mentalmente: come aveva potuto esitare proprio in un momento simile?
Kise singhiozzò senza alcun preavviso, così vigorosamente che per un istante Aomine ebbe la sensazione che quel singulto provenisse dal suo cuore.
«N–non... non ho fatto canestro!» Kise si morse il labbro inferiore, nel vano tentativo di soffocare i gemiti di disperazione «non ho fatto canestro, vero Aominecchi?»
Aomine schiuse le labbra e pronunciò il suo nome, ma si scoprì senza voce e così restò a fissarlo mentre si asciugava goffamente le guance e gli occhi gonfi e bagnati di lacrime, nel tentativo di arrestare il pianto fragoroso che si stava riversando implacabilmente sul suo viso.
«Kise.» appena riacquistò la voce, Aomine gli afferrò la spalla e schiuse le labbra per riprendere fiato, cercando di non badare al dolore diffuso che gli attanagliò il petto non appena i polmoni si riempirono d'aria.
Kise singhiozzò con più forza e gli afferrò il braccio, quindi lo tastò appena e ne seguì la lunghezza come se si fosse trattato di una corda, sospingendosi in avanti solamente quando sfiorò la spalla di Aomine con la punta delle dita.
«Kise, calmati.» Aomine diede un'occhiata repentina al di là della griglia metallica per assicurarsi che non ci fosse nessuno nei paraggi, quindi intrecciò le proprie dita ai capelli di Kise, che già singhiozzava con il viso al centro del suo petto e continuava a ripetere il suo nome.
«Torniamo a casa, adesso. Sarà per un'altra volta.»
Ryouta era perfettamente consapevole che non ci sarebbe stata un'altra volta, che non sarebbe mai potuto diventare un giocatore di basket professionista.
«Andiamo...» Aomine sussurrò appena, avvolgendogli le spalle con le dita, e Kise scosse energicamente il capo: non voleva andare via, desiderava stringere il pallone da basket ancora una volta, anche se ciò significava essere di nuovo inghiottito dall'oscurità.
«Andiamo.»
Non voleva andare via, ma la sofferenza derivante dall'idea di un futuro inarrivabile privò le sue gambe della forza necessaria per reggersi in piedi, così che Aomine riuscì ad avere la meglio.


Da quando i medici avevano comunicato a Kise che quella malattia era irreversibile e lo avrebbe portato alla cecità in breve tempo, Aomine si era lasciato intontire dalla convinzione che il corpo dell'altro non fosse più fatto di carne, ma di porcellana. La porcellana più delicata di tutto il Giappone, così preziosa che il solo alitarci sopra era un delitto estinguibile esclusivamente attraverso la pena capitale.
Adesso sembrava che la porcellana si fosse tramutata in qualcosa di ancora più fragile e bello, come un fiore di vetro. Un fiore di vetro incompleto, senza corolla e con lo stelo attorcigliato.
Kise aveva perso la vista da una settimana, e da altrettanto tempo non facevano l'amore, e con quel pensiero fisso che lo tormentava da almeno un paio di giorni, Aomine si soffermò sulla testolina bionda e leggermente spettinata, – a causa della folata di vento che li aveva investiti a pochi metri da casa –, che faceva capolino al di là del rigido schienale del divano.
Daiki sfiatò appena e si umettò le labbra con la punta della lingua, quindi la fece schioccare contro il palato e sbuffò sonoramente: quel lugubre silenzio lo innervosiva, questo perché non era altro che l'infima dimostrazione che lui e Ryouta si sarebbero potuti perdere molto presto, l'eco di una realtà molto vicina e altrettanto dolorosa. Eppure tutto sembrava così ovvio: era più che plausibile che il suo fidanzato si fosse scavato a poco a poco un mondo tutto suo in cui rifugiarsi per annegare il dolore, che lui avesse paura di scuotere la quiete di quell'universo chiedendogli di fare l'amore o anche soltanto avvicinandosi di un passo di troppo.
Aomine continuò a fissare la testolina bionda senza battere ciglio e picchiettando le dita sulla superficie dura e fredda del piano cottura, nervoso e indeciso sul da farsi.
Non riusciva a trovare parole di consolazione per quella situazione, anzi a dire il vero era convinto che non fosse possibile alleviare il dolore di Kise neppure per un istante: gli bastava immergersi nei suoi panni per un solo secondo per sentire sulla propria pelle quanto facesse male e, considerando che quello che percepiva lui era molto probabilmente solo un quinto dello strazio, per il suo fidanzato doveva essere a dir poco devastante, un tormento che solamente lo scorrere implacabile del tempo sarebbe riuscito a lenire.
Quando Aomine si chinò di fronte a lui e gli strinse le mani nelle sue, Kise sorrise e, liberandone una, gli sfiorò il mento con la punta tremante delle dita.
«Kise...» Aomine borbottò il suo nome, e le dita dell'altro scivolarono lente sulla sua guancia sinistra, lambendola con estrema delicatezza.
«Va bene così, Aominecchi.» nella voce di Kise coesistevano il dolore e l'eco sorda di un'accettazione forzata, ma Aomine si soffermò, piuttosto, sulle sue labbra e sul loro movimento, lento e meraviglioso come gli azzurri flutti del mare in una calda giornata d'estate.
«Ora voglio soltanto che mi baci.»


Kise sembrava sapere esattamente come muoversi e dove si trovassero le labbra di Aomine, perché ogni volta che sollevava il viso dal cuscino in preda ad uno spasmo di piacere, non doveva fare il minimo sforzo affinché la sua bocca si infrangesse contro quella dell'altro.
Esattamente come quando, percependo la vicinanza di Aomine, si illudeva di aver improvvisamente riacquistato la vista, in quel momento Kise pensò di essere guarito del tutto, perché fare l'amore con lui era così semplice da rendere il buio non più una costrizione, ma uno spazio sconfinato entro il quale la sua immaginazione imperversava, libera da ogni vincolo.
Aomine, dal canto suo, sembrava aver compreso che cosa volesse davvero il suo compagno, aveva capito che trattarlo come un pezzo di vetro era il modo più infimo per ribadirgli il suo handicap e che, per tanto, non era consigliabile trattenersi e comportarsi diversamente rispetto a prima che l'ombra della malattia incombesse su di loro.
Aomine allentò la stretta attorno ai fianchi magri dell'altro e lasciò scivolare le mani al fondo schiena, poi sulle natiche sode e infine sulle cosce calde, dove le dita arrancarono con forza sulla pelle bagnata di sudore, corrompendone il candore tracciando piccoli solchi sanguigni con le unghie e i polpastrelli.
Kise piegò il capo all'indietro, torcendo il collo bianco e nodoso, ed emise un mugolio soffocato, le dita aggrappate alle spalle del compagno in una stretta incerta, l'intero corpo sconquassato da brividi di piacere.
Ryouta si sentiva scuotere nel suo stesso essere ogni volta che facevano l'amore, e che ora ci fosse il buio, tutto intorno a lui, non cambiava proprio nulla, – dopotutto rimaneva la consapevolezza che Aomine fosse lì con lui, che quell'oscurità non lo aveva portato via insieme a tutto il resto –. Aomine era la sua unica certezza, tutto ciò che sarebbe rimasto di lui.
Giunto ormai alle porte dell'amplesso, Aomine strinse i capelli di Kise fra le dita e si soffermò per qualche istante sul suo viso trafelato dal piacere, sul rosa vivo delle labbra contratte, schiuse, petali morbidi e caldi sui quali rimbalzavano gemiti flebili e vibravano i loro respiri irregolari e affannosi: era sempre bellissimo, anche senza luce negli occhi e con il volto macchiato dai colori consumati di una maschera di gioia ormai ammuffita e troppo stretta per restare aderente alla pelle senza spezzarsi e mostrare, qua e là, i segni di un'esistenza perduta e amaramente rimpianta.
Aomine schiuse le labbra in un gemito roco e lasciò che Kise, subito dopo aver intrecciato le dita delle mani sulla sua nuca, lo trascinasse a sé.
«Ti amo...» Daiki sussurrò appena, stampandogli un bacio veloce sulle labbra, e Kise si strinse un poco di più, sorridendo.
«Ti amo anche io.»
In quel momento, con i corpi fusi nell'amplesso e le bocche unite, a suggellare ogni altra parola, furono certi che, qualsiasi cosa fosse accaduta, sarebbero rimasti insieme.


«Sai cosa mi dispiace?» Kise era steso sul fianco destro, le braccia intrecciate, poste fra il viso e il cuscino; teneva gli occhi puntati su Aomine e sembrava proprio che lo guardasse, ma era una sensazione strana considerando che, in verità, non poteva vederlo, – tuttavia, Daiki non poteva negare che fosse allo stesso tempo sorprendentemente piacevole, questo perché anche lui, esattamente come il suo compagno, era sensibile alle illusioni e capitava spesso che si lasciasse abbagliare dall'idea che Ryouta fosse ancora nel pieno delle sue facoltà –.
«Cosa?» Aomine parlò piano, con la voce ancora alterata dall'eco recente dell'orgasmo e il ventre tremante a causa del respiro irregolare.
«Che non potrò più vedere il tuo viso.» non c'era tristezza nella voce di Kise, ma solo il rimbombo di una misera rassegnazione.
«Però sarò sempre qui.»
Kise restò in silenzio per qualche istante, poi increspò le labbra in un sorriso.
«Stai sorridendo, vero?»
«Eh?» Aomine aggrottò appena la fronte e storse il naso; Kise, dal canto suo, ampliò il sorriso e accennò una risatina sommessa.
«Lo sento dalla voce... e adesso sei imbarazzato.»
«O-ohi, Kise! Smettila!»
Kise rise di nuovo e gli accarezzò lo sterno con la punta delle dita, fermandosi lì dove il battito ancora accelerato e irregolare del cuore era maggiormente percettibile.
«Ma lo sai cosa, Aominecchi? Ho pensato che alla fine va bene così, anche se ci impiegherò del tempo per accettarlo.»
Aomine restò in silenzio e gli accarezzò il dorso della mano senza smettere di guardarlo.
«Io ti amo e so che riuscirai a realizzare il nostro sogno, e io ne sono felice, e lo sai perché?» Ryouta sorrise teneramente e assottigliò appena lo sguardo, felice che, in uno sforzo di immaginazione, fosse riuscito a vedere il viso di Aomine ancora una volta.
«Perché tu ora sei me, così quando giocherai a basket ci sarò anche io con te.»




L'angolino invisibile dell'autrice:

Dovete sapere che ci sono lettori cattivi che chiedono ad autori cattivi di scrivere cose strappa feels. Quindi innanzitutto metto le mani avanti dicendo che l'idea perfida non è mia ma, appunto, di una lettrice (Kurama Kuroo) e... beh, ovviamente mi è piaciuta così tanto che su diciassette progetti da cominciare ho dato la precedenza proprio a questo!
Strano ma vero, sono soddisfatta. Ultimamente non ho molti lettori, ma ho l'impressione che la cosa non dipenda da me, piuttosto dal fatto che la sezione di KnB stia venendo abbandonata un po' da tutti... però pazienza, io per ora continuerò a scrivere di questi bei bambini e cercherò di dare meno peso ai numeri!
Ovviamente la shot è ambientata dopo le superiori e non ho voluto specificare quale sia la malattia di Kise perché, francamente, non avevo assolutamente voglia di basarmi sull'aspetto medico, ma solo su quello umano.
Ultima cosa: il titolo e l'ultima frase, in particolare il: “Tu ora sei me” sono ispirati al dialogo finale fra Robert Jordan e Maria in “Per chi suona la campana” di Ernest Hemingway (insomma, alla fine qui hanno fatto tutto Kurama Kuroo e Hemingway, io non so davvero che cosa c'entro/?/).
Ringrazio chiunque abbia letto questo piccolo delirio!
Alla prossima!
   
 
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