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Autore: Targaryen    18/05/2015    8 recensioni
"Vi è una quiete innaturale in quei luoghi quando ogni suono tace, una quiete che spaventa e in cui riecheggia il silenzio denso che avvolge i morti lasciati a marcire sui campi di battaglia. Thranduil è sicuro che sia questa una delle ragioni per cui sul Gorgoroth nessuno cerca la solitudine."
Nel 3434 S.E. uomini ed elfi diedero vita all'Ultima Alleanza e affrontarono Sauron nella terra d'ombra, in una guerra che durò sette anni e che si concluse con la temporanea sconfitta del servo di Morgoth.
Genere: Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Amroth, Elrond, Gil-galad, Thranduil
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sussurri di foglie e di vento'
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Odog în - Sette anni


"Colui che non ha visto il calar della notte
non giuri di inoltrarsi nelle tenebre."
-  Lord Elrond   -
 
(Il Signore degli Anelli – J. R. R. Tolkien)
 

 
Dagorlad (3434 S.E.)
 

Sulla piana di Dagorlad l’odore della paura traspira dalla terra violentata dal clangore dell’acciaio, e appesta l’aria tramutandola in sudario. E’ un miasma che si fa corpo e che fissa il cielo con gli occhi vuoti dei caduti, un fetore di putrefazione che aleggia sul campo di battaglia, gemendo attraverso mille e più voci riunite in un unico, raccapricciante grido di rabbia e di agonia. E tra le note di quel lamento la domanda che il vento sussurra, irridendo la loro stirpe: è un inganno l’immortalità?
La spada affonda nel petto, il colpo così violento da frantumare le piastre di metallo permettendole di scivolare giù, sino al cuore. Il cuore di un uomo, che pompa sangue rosso e caldo come quello che imbratta il volto, quasi irriconoscibile, dell’elfo che poco prima egli si era gloriato di consegnare all’oblio. In cosa sono diversi, ora?
Allertato dallo spostamento d’aria che anticipa l’assalto, Thranduil si piega di lato, il corpo più svelto della mente e l’arma ancora infissa nelle carni del nemico, e con l’altra lama taglia la gola di un secondo e mozza le gambe di un terzo. L’orrido gorgoglio con cui l’uomo aspira aria e sangue si mescola al gemito di colui che rovina a terra, e su cui la notte cala per opera della medesima spada che gli stacca di netto la testa. Rapida, precisa, perché il suo scopo è uccidere e non spargere sofferenza e la morte che regala è una morte pulita.
Thranduil getta un’occhiata al volto livido del padre, la guancia aperta da un fendente e la sorpresa del momento congelata nello sguardo vitreo. Le vesti raffinate riposano abbandonate tra il fango e anch’egli fissa il cielo, la corona riversa di lato e l’argento che si rifiuta di rifulgere sotto il sole, spento come il suo re.
Sa che quando le lame saranno sazie il dolore lo piegherà come un fuscello sotto la furia della tempesta, ma per ora non c’è tempo per pensare ai morti a meno di non volerli raggiungere. Per ora le lacrime devono attendere.
Aiutandosi con un piede libera la spada dal corpo privo di vita che pare volersi fare beffa di lui ostinandosi a trattenerla in sé, e la pianta nel collo largo ed indifeso di un orco. Sono stupidi gli orchi, ma sono tanti ed egli si aggrappa all’unica speranza che gli rimane: Gil-galad ed Elendil devono essere in una situazione migliore della sua.
Non ci sono posizioni in cui arroccarsi a difesa, solo una distesa piatta e informe dinanzi a loro e le paludi alle spalle, le paludi che hanno inghiottito Amdír e quasi tutti i suoi elfi. I silvani di entrambi i regni si sono riuniti intorno a lui e una corona invisibile cinge già il suo capo. Già Thranduil ne avverte il peso, ma non può fare altro se non pregare che la vittoria giunga grazie ad altri. Oropher ed Amdír hanno fatto tutto il possibile per impedire ai loro popoli di concorrere per conquistarla, ed egli quasi riesce ancora ad udire la propria voce mentre cerca disperatamente di sovrastare l’ordine scellerato del padre.
“No! Fermati padre! Moriremo tutti!”
Ha gridato, terrorizzato da ciò che sapeva sarebbe seguito, ma poi ha spronato il cavallo e lo ha affiancato nella sua follia, perché era suo padre ed era il suo re e perché egli amava entrambi e ad entrambi doveva ubbidienza.
Ora quel padre giace calpestato ed ancora egli lo ama, ma un’ira sorda fa tremare le fondamenta di quell’amore dinanzi ai cadaveri di cui il re è responsabile.
“Un re dovrebbe proteggere chi si affida a lui”, accusa Thranduil rivolto al suo spirito ormai lontano, le parole sostituite dal tonfo sordo delle lame che si abbattono su chi è tanto stolto da giungere alla loro portata. Furia e disperazione rendono pericoloso anche un incapace con la giusta arma tra le mani, e trasformano chi la sa maneggiare grazie al talento e all’esperienza in un avversario che nessuno vorrebbe affrontare.
Il tempo corre via senza quasi che egli ne abbia nozione. Su suo ordine i sopravvissuti hanno formato un perimetro di difesa compatto, i grandi scudi schierati a protezione laddove il terreno lo consente, ma non riusciranno a resistere a lungo attaccati sui quattro lati.
Thranduil lo capisce in fretta ed altrettanto in fretta comprende che la loro unica possibilità di salvezza risiede nel riunirsi all’esercito di Gil-galad. Elendil è troppo lontano, oltre la linea dell’orizzonte. Se restano tagliati fuori verranno falciati uno ad uno per una semplice questione di inferiorità numerica o, peggio ancora, verranno spinti verso gli acquitrini e la loro fine diverrà addirittura più rapida. Già il terreno cede sotto ai suoi piedi, imbevuto di acqua e troppo scivoloso per essere un valido alleato a chi fa della precisione la sua forza.
Si volge ed afferra per un braccio il più vicino tra i comandanti di suo padre. Ha una lieve ferita ad un fianco, ma non si è mai allontanato troppo da lui e non ha mai smesso di mozzare teste ed arti. Egli non sa quale sia il suo nome né quale ruolo ricoprisse nell’esercito ormai decimato, ma non ha importanza. Sente di potersi fidare e, in mezzo a sconosciuti, l’istinto è l’unica cosa su cui può contare.
“Mio signore”, mormora questi.
Lo guarda dal basso, come tutti o quasi. Thranduil ricorda ancora la risata del padre la prima volta in cui si accorse di dover sollevare il capo per fissarlo negli occhi. Sul suo volto vide la sorpresa, perché lui stesso svettava sugli altri, ma prima ancora vi riconobbe l’orgoglio. Era orgoglioso di lui, re Oropher di Boscoverde il Grande: perché gli ha sottratto il diritto di ricambiare?
“Ordina alle compagnie di avanzare e di non disperdersi. Se restiamo qui saremo cadaveri prima di sera!”
L’elfo fa un cenno di assenso e svanisce nella mischia.
Pochi istanti e Thranduil sente i corni squillare da ogni direzione, così forte che per un attimo teme che persino l’Alto Re ai piedi del Morannon sia indotto ad ubbidire a quell’ordine. Poi non pensa più a nulla e si limita ad andare avanti e a rimuovere ogni ostacolo che vorrebbe impedirgli di farlo. Ostacoli che respirano, ma in fondo niente altro che ostacoli.
Il sole infiamma già l’occidente quando egli riesce infine a distinguere l’emblema della stirpe reale sugli stendardi blu e argento di Gil-galad. E’ stanco, ma non può permettersi di sedere per riposare né di soffermarsi su quale possano essere le condizioni dei suoi guerrieri. Altri sono caduti durante l’avanzata, ma non così tanti e chi è rimasto pare non meno determinato di quanto lo fosse alle prime luci dell’alba. I loro colpi sono meno precisi, ma non meno letali. Sono valenti i silvani in battaglia, si rende improvvisamente conto Thranduil, e la rabbia muta le sue labbra in una linea sottile. Con un migliore equipaggiamento e guidati con sensatezza avrebbero aperto le file nemiche forse meglio dei Noldor nelle loro armature dorate. Vite inutilmente perdute e occasioni sprecate in nome di antichi dissapori.
Lontano, nel cuore della mischia, Aeglos volteggia nell’aria come dotata di vita propria, oltrepassando le carni troppo velocemente affinché sia possibile seguirne la danza. Tra le mani di Gil-galad canta ed uccide e a Thranduil pare quasi di udirne il sibilo mentre ride assetata di sangue. Glorfindel è appena riconoscibile laddove lo schieramento elfico si unisce a quello dei mortali, un rivolo d’oro che si insinua in un mare di tenebra trascinandosi dietro ombre che montano neri cavalli. I Nazgûl, gli Spettri dell’Anello.
“Thranduil!”
La voce di Elrond lo raggiunge sovrastando il frastuono della battaglia ed egli si gira in direzione del suono. Lo vede procedere verso di lui facendosi largo tra i nemici lordo del sangue degli orchi, i lunghi capelli scuri coesi in un ammasso indistinto e il volto striato di nero.
In un batter d’occhio la mano del signore di Imladris è sulla sua spalla, lo sguardo incapace di trattenere il groviglio di emozioni che lo pervadono e la voce incrinata. Insolito per lui, così bravo a controllare ogni gesto e ogni parola.
“Sei vivo”, sussurra intensificando la stretta, come a volersi accertare di averlo di fronte.
Thranduil non si sorprende di come Elrond lo avesse ormai dato per morto. Lui stesso ha creduto di doversi unire ai caduti quel giorno, e il giorno non è ancora finito. Trae un profondo respiro, cercando di mantenere un contegno dinanzi al ricordo ancora troppo vivo della distesa di corpi gonfi abbandonati negli acquitrini e del volto di suo padre con le ossa scoperte.
Sa quale sarà la prossima domanda di Elrond e si costringe a non pensare. Non ancora.
“Oropher e Amdír … dove sono?”, lo sente chiedere con urgenza.
“Entrambi morti, insieme a quasi due terzi dei nostri guerrieri”, risponde, la voce atona e distante che a stento riconosce come sua.
Elrond serra gli occhi per una frazione di secondo. Neppure lui può concedere più tempo al dolore e quello non è il momento giusto per chiedere spiegazioni. Spiegazioni che, forse, solo chi non è più con loro potrebbe fornire.
“Il nemico sta cedendo, ma dobbiamo entrare prima che cali la notte”, lo informa.
Il terreno su cui si trovano si eleva appena al di sopra della piana che si estende di fronte al Morannon. Thranduil si guarda intorno. Le forze di Sauron si stanno raccogliendo lungo il fronte principale, laddove Gil-galad ed Elendil stanno guidando l’avanzata incuneandosi sempre più in profondità nel cuore dello schieramento avversario. La pressione sulle ali si sta alleggerendo, e forse è anche per questo che i silvani sono riusciti a ricongiungersi all’armata. Dalle alture poste ai lati del Cancello Nero non giunge alcuna offensiva, e se Sauron ha sguarnito i monti per rafforzare la linea di difesa deve dubitare della sua capacità di arginare l’assalto.
“Fainion”, chiama.
In un momento imprecisato ha domandato al comandante quale fosse il suo nome. L’elfo accorre, le vesti sudice e un vistoso bendaggio in corrispondenza del fianco destro. Thranduil non ricorda di averlo visto fermarsi per improvvisare quella fasciatura di fortuna. Ha sempre avuto la sensazione di averlo alle sue spalle, lui e pochi altri. Li osserva per la prima volta con attenzione e comprende: la guardia personale di suo padre, la guardia del re. Deve anche a loro l’essere riuscito ad arrivare vivo fin lì e si ripromette di ricompensarli a tempo debito.
“Tutti coloro che dispongono di arco e frecce si mantengano nelle retrovie e prendano di mira il fronte”, comanda, “Ci sono zone sopraelevate che possono essere sfruttate sul fianco destro. Ordina ai capitani di prendere posizione e di non sprecare i colpi. Gli altri vengano con me.”
“Sì, mio signore.”
Fainion si allontana lesto mentre Thranduil segue Elrond, chiama i silvani a raccolta e si unisce alle forze di Imladris.
La resistenza del nemico è ostinata e molte altre vite vanno perdute prima che le avanguardie alleate riescano a dividere in due la linea avversaria.
Senza più nessuno che li ostacoli, gli eserciti di Gil-galad ed Elendil attraversano in un batter d’occhio il tratto di pianura che li separa dai Cancelli del Morannon, ma commettono un errore. Dall’alto gli orchi iniziano a far piovere frecce a cui è stato appiccato un fuoco innaturale, che brucia più a lungo e che si diffonde con maggiore velocità, ed altri caduti si aggiungono alla lunga lista di quel giorno.
Di nuovo nella mischia Thranduil non pensa ad altro che ad atterrare quanti più avversari può e non vede ciò che accade ai piedi del Cancello Nero, ma in un momento imprecisato gli arcieri elfici devono aver avuto la meglio su quelli nemici, perché i dardi smettono di bersagliarli e la terra vibra quando i colossali battenti iniziano a ruotare. Lentamente il Morannon si apre e le forze alleate penetrano nel ventre di Mordor.
L’attraversamento del varco ormai sguarnito richiede meno tempo del previsto, ma non è esente da rischi perché qualche servo di Sauron è ancora appostato nel buio di anfratti nascosti e scocca frecce che spesso vanno a segno.
Ed è una di queste frecce che si pianta nel braccio con cui Thranduil sta per sferrare il colpo di grazia all’ennesimo orco. La sorpresa ed il dolore improvviso lo fanno sussultare ed egli vacilla, ma ha abbastanza esperienza per capire che non deve retrocedere e la lama penetra esattamente dove deve uccidendo il nemico all’istante.
Con uno sforzo Thranduil estrae la spada, ma non riesce a farlo con la stessa rapidità di prima e, sbilanciato, rovina al suolo riverso all’indietro sotto l’impeto dell’ascia che si abbatte su di lui e che stride scivolando sul metallo della lama. Il dardo che sporge si spezza nell’impatto col terreno, strappandogli un gemito, ma egli riesce a conservare sufficiente lucidità per costringere il braccio martoriato a trafiggere il ventre scoperto dell’orco che si apprestava a colpire di nuovo. Rotolando di lato si allontana dal cadavere e cerca di rimettersi in piedi.
Cerca, perché un re caduto è l’occasione che ogni nemico brama e troppo tardi si accorge dell’uomo alle sue spalle, della sua lunga lancia e del movimento con cui la guida verso di lui. Non emette alcun lamento quando la punta si incunea sotto l’armatura e penetra nel fianco, ma sente il sapore del sangue sulle labbra e all’improvviso la notte diviene più nera.
Guarda per un attimo l’uomo negli occhi, occhi scuri su pelle scura, e getta una delle due spade per afferrare l’asta. Un profondo respiro e, in un unico gesto, scatta indietro estraendola dalle carni mentre gli mozza la testa con l’arma che tiene nell’altra mano. Grida forse, o forse no, ma cade in ginocchio mentre il sangue macchia le vesti sotto il metallo, caldo come la vita che con esso fugge via.
E’ strano, ma ciò che avverte in quel momento non è la paura, bensì il desiderio sfrenato di vedere le stelle oltre la cappa di fumo che grava su di loro. Intorno la battaglia infuria, ma ora i suoni gli giungono soffusi e la vista gli si confonde. Ed è questo, meglio del dolore, a fargli comprendere come la punta di quella lancia sia penetrata troppo a fondo per consentirgli di combattere ancora. Le forze lo stanno abbandonando in fretta ed egli quasi sorride di fronte alla sorte. E’ sopravvissuto all’inferno delle paludi per morire lì, con la vittoria a portata di mano.
“Mio signore!!!”
La voce di Fainion lo riscuote dal torpore che lo sta sprofondando nell’incoscienza. Si accorge che il comandante delle sue guardie sta urlando mentre si precipita verso di lui, e il terrore che traspare da quel grido è la migliore conferma delle condizioni in cui egli versa. Con uno sforzo di volontà focalizza lo sguardo e quasi dimentica la sofferenza quando vede Fainion intercettare scomposto l’ennesimo fendente destinato a lui. Tenta di avvertirlo, ma il corpo non gli risponde come dovrebbe e non gli permette di essere veloce abbastanza. Fainion blocca il colpo e gli salva la vita, ma cade tra la polvere portando l’orco con sé. In qualche modo Thranduil trova l’elsa della spada e riesce ad affondarla tra le scapole del servo di Sauron, ma è comunque troppo tardi. L’elfo muore lì, con gli occhi spalancati che riflettono il cielo nero e che forse vorrebbero, come i suoi, vedere le stelle.
Il re di Boscoverde scivola a terra sotto il peso di una nuova colpa, e quasi ringrazia l’oblio che lo accoglie mentre i silvani appena sopraggiunti si dispongono a difesa intorno a lui.

 
***


Per la decima volta dopo il crollo del Cancello Nero il sole è svanito oltre l’orizzonte, tramutando quell’eterno crepuscolo nella tenebra più cupa. Negli accampamenti l’attività freme e nuove tende vengono issate sotto il cielo privo di stelle. Esse brillano ovunque tranne che nella terra d’ombra, dove le polveri vomitate dall’Orodruin si adagiano come un manto che soffoca ogni luce.
Gil-galad percorre a passo svelto il sentiero sterrato fresco di costruzione, l’abitudine al comando che trapela da ogni gesto e il volto abitato da una calma quasi innaturale. Eppure gli occhi grigi sono gentili e raccontano di un animo benevolo se pur determinato, e nessuna scorta lo accompagna. Indossa una lunga tunica blu, l’armatura deposta per l’occasione, e un cerchietto d’oro sul capo a trattenere i lunghi capelli corvini, retaggio della sua stirpe come il titolo che sfoggia. Stella di radianza, Alto Re dei Noldor.
Dinanzi alla tenda del re di Boscoverde i silvani posti di guardia incrociano le lunghe lance, sbarrandogli il cammino. Non riconoscono la sua autorità ed egli si ferma, paziente. Non è giunto per aprire divisioni nella loro alleanza, ma è lì per parlare, se Elrond gli consentirà di farlo, e per capire.
Qualcuno scosta la spessa stoffa che protegge l’ingresso e il signore di Imladris si fa avanti, avvolto in una semplice veste grigia e l’aria stanca. Un suo cenno e le guardie si allontanano, permettendo a Gil-galad di raggiungerlo e testimoniando la fiducia che colui da cui prendono ordini ripone in Elrond nonostante la diversa discendenza.
Gil-galad non prova astio per questo, solo tristezza, ma il passato non si cancella e le colpe neppure. I Noldor hanno commesso errori che sono costati troppe vite per essere messi da parte, e il fatto che non tutti si siano resi colpevoli può sfuggire al giudizio di chi quelle colpe le ha subite. E può sfuggire il fatto che neppure i Sindar siano esenti da sbagli, anche se forse non altrettanto grandi se visti con il senno di poi. Di sicuro alcuni giorni prima un errore è stato commesso, e il nuovo re di Boscoverde non può non averlo capito. Indossa la corona in virtù di questo.
“Posso parlargli?”, domanda.
Elrond annuisce.
“Sì, mio signore, ma non a lungo.”
“Non ho intenzione di vanificare i tuoi sforzi, non temere”, lo rassicura Gil-galad, “Ma ho necessità di sapere su quante forze posso contare. La guerra non è vinta.”
“E’ tuo diritto. Seguimi.”
All’interno della tenda le lanterne aggrappate ai lunghi pali in legno spandono una luce calda che pare quasi animare il verde intenso dei tendaggi, mutandone le decorazioni in tronchi e foglie e le ombre danzanti nella carezza del vento.
Elrond scosta la stoffa leggera che delimita un’area appartata sul lato più lontano dall’ingresso, ed invita Gil-galad ad avvicinarsi. Il sovrano lo fa quasi con circospezione, mettendo da parte per un istante la fredda rigidità del re, e si ferma a pochi passi del letto.
Thranduil volge il capo nella sua direzione, lentamente, ma non mostra sorpresa nel vederlo. Sul suo volto non vi è alcun segno della battaglia sostenuta, nessuna escoriazione o ferita evidente, ma l’incarnato è troppo pallido e l’azzurro che da sempre conferisce alle sue iridi il chiarore del cielo terso di primavera sembra essersi arreso al grigio dell’inverno.  
Gil-galad esita, per la prima volta dubbioso delle proprie intenzioni. Forse avrebbe dovuto attendere ancora e concedere più tempo al re di Boscoverde.
Questi pare indovinare i suoi pensieri e solleva la mano, invitandolo con un gesto a prendere posto sullo scranno accanto a lui.
“Non temere”, lo rassicura, “Parlare con te non mi può causare più danni di quelli che ho già ricevuto. E lord Elrond ti caccerà via a forza se si accorgerà che stai esagerando. Siedi.”
La sua voce tradisce una profonda spossatezza, ma non è la voce di qualcuno che si è arreso. Gil-galad sorride e accoglie l’invito.
“Come ti senti?”, domanda.
“Vivrò.”
A breve distanza da loro Elrond ascolta in silenzio, intento ad ordinare con cura alcuni recipienti in legno. All’interno di essi si intravvedono foglie finemente sminuzzate, che Gil-galad è sicuro debbano possedere virtù terapeutiche ma che non conosce. Del resto non è lui il maestro di guarigione. Lui è soltanto un re ed un guerriero, e ha più dimestichezza con la morte che con la vita, tanto che ora si trova improvvisamente a corto di parole dinanzi al re di Boscoverde. Come domandare a qualcuno che ha già perduto troppo se è disposto a perdere altro? Ha visto ciò che è rimasto dell’armata silvana e il suo cuore ha mancato un battito davanti all’ecatombe delle paludi. Ma Sauron non è vinto e Thranduil lo sa. Gil-galad lo legge nel suo sguardo.
“Perdonami per non averti fatto visita prima, ma non è dipeso da me”, si scusa.
Chiamato in causa, Elrond rivolge ad entrambi un’occhiata gentile prima di ritornare alla sua occupazione. Sarebbe superfluo rimarcare che quel divieto non era dovuto ad un capriccio, poiché non c’è membro dell’alleanza che non sappia come il Reame Boscoso abbia rischiato di perdere due sovrani in un sol giorno.
“Ne sono convinto”, sorride Thranduil.
Gil-galad si lascia sfuggire un leggero sospiro e si costringe ad indossare di nuovo le vesti del re. Vorrebbe che quella fosse solo una visita di cortesia, ma tutti loro sanno che ciò non è possibile.
“Re Thranduil”, dice, scandendo il titolo come a voler sottolineare quel necessario cambiamento di ruolo, “Davanti al Morannon abbiamo vinto una battaglia, ma non la guerra. Re Amroth sta giungendo per prendere il comando di ciò che resta dell’esercito di suo padre. Non so ancora cosa egli intenda fare, ma ciò che mi preme è capire cosa hai intenzione di fare tu. Non sono qui per discutere delle gesta dei morti: non possono più parlare e ciascuno di noi può giudicarle in cuor proprio. Le perdite che la tua armata ha subito sono indicibili, me ne rendo conto, ma anche così ridotta può fare per noi la differenza. Non è questo il momento per costringerti ad una simile scelta, e vorrei non doverlo fare, ma questo lusso non mi è concesso.”
Thranduil ascolta in silenzio con lo sguardo smarrito nel vuoto, quindi abbassa le palpebre e per un istante chiude fuori il mondo. Non è il lusso di non rispondere quello che vorrebbe gli fosse concesso, bensì quello di dimenticare. Dimenticare il corpo martoriato del padre che è stato seppellito senza che egli potesse dirgli addio, dimenticare Fainion che gli ha regalato la propria vita e tutti coloro di cui non conoscerà mai il nome. Dimenticare, null’altro.
Una lunga pausa prima che il figlio di Orodreth parli di nuovo.
“Condurrai i silvani a Boscoverde, re Thranduil, o resterai al mio fianco?”, domanda.
Thranduil torna a guardarlo, le iridi che paiono aver ritrovato chissà dove il loro colore.
“I morti hanno le loro colpe, ma non credere che chi è rimasto in vita non ne abbia di proprie”, ribatte, “Mio padre ha commesso un errore imperdonabile ed Amdír non è stato da meno, ma mi domando se tutto questo non potesse essere evitato grazie ad una maggiore lungimiranza da parte dell’Alto Re dei Noldor.”
Elrond si volta, improvvisamente dimentico delle sue erbe.
“E’ dunque questa la tua risposta?”, chiede rigido Gil-galad.
Nel tempo di un battito di ciglia la sua voce ha perduto tutta la cortesia di pochi istanti prima, ma Thranduil non vi fa caso, quasi non lo avesse udito parlare.
“E da parte mia”, aggiunge in un sussurro.
Un’accusa rivolta a sé stesso che pesa più di quella indirizzata a Gil-galad.
Il signore del Lindon comprende e china il capo, il suo accenno d’ira spento sul nascere. Quanti morti, dagli Anni degli Alberi, ha provocato il male che Melkor ha sparso nel mondo, e quanti invece le incomprensioni che hanno messo fratelli contro fratelli? E quante di queste incomprensioni sono state generate dal malvagio Valar e dal suo servo?
“Non potevi prevederlo”, azzarda.
“Potevo invece, e potevi farlo tu”, lo corregge Thranduil, “Ed entrambi dovremo vivere sapendo questo.”
Di nuovo il silenzio, interrotto questa volta dalla voce di Elrond che pretende l’attenzione di Gil-galad.
“Deve riposare”, lo avverte.
Con un cenno di assenso il re dei Noldor si alza. Forse è stato troppo avventato cercare una risposta quando il lutto è ancora così vicino. Allunga la mano destra e abbozza un saluto, ma Thranduil lo ferma.
“Resterò al tuo fianco, ma come tuo pari”, dichiara, “Tu comandi i Noldor, solo i Noldor. Mio padre è morto, ma questo non è cambiato.”
Gil-galad resta immobile per un istante, la mano sospesa a mezz’aria, quindi la ritrae e solleva il capo.
“No, questo non è cambiato né io ho mai preteso di cambiarlo”, dice, “Ma Sauron è il nemico, e neppure questo è cambiato.”
Non si sofferma sul fatto che Thranduil neppure una volta si sia rivolto a lui usando il suo titolo. Quella rinnovata alleanza è già una vittoria inattesa e non intende metterla a rischio. E, soprattutto, non intende offendere il dolore del re di Boscoverde dando importanza a ciò che importanza non ha.
“Quando ti sarai ristabilito parleremo di tattica, e lo faremo da pari a pari”, aggiunge, “Per ora recupera le forze e, se posso permettermi un consiglio, concediti il tempo per piangere coloro che hai perduto. Le ferite del corpo sono le più facili a guarire.”
Quindi si volge e guadagna l’uscita.
“E’ un buon consiglio”, riconosce Elrond una volta che Gil-galad si è allontanato.
Thranduil non risponde e si abbandona contro i cuscini, la volontà di non apparire debole davanti all’Alto Re svanita e lo sforzo sostenuto che esige il suo tributo.
“Ti sono grato per ciò che hai fatto e che stai facendo”, sussurra, le parole appena distinguibili nel silenzio della notte, “Sono in debito con te.”
Elrond scuote il capo.
“Non hai alcun debito verso di me”, lo rimprovera con gentilezza, “Ma non sarò io a cercare di dissuaderti se ti fa piacere crederlo. Ora però devi dormire. Posso darti qualcosa che ti aiuti se lo desideri.”
Le parole di Elrond strappano a Thranduil un sorriso.
“No, cercherò di ricordare da solo come si fa”, lo rassicura, e chiude gli occhi sperando di non sognare.

_____________________________

Note alla prima parte:
L’accenno iniziale all’inganno dell’immortalità è un chiaro riferimento a Fëanor e alla sua ribellione. Fainion (“figlio delle nuvole” in sindarin) è un personaggio di mia invenzione.

 
  
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