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Autore: BJgirl    18/05/2015    1 recensioni
"Ma Holmes era in grado di capire l'impossibile lasciandosi sfuggire le cose più ovvie"
Pre-Reichenbach
[EX "It's so overt it's covert"]
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Molly Hooper, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando aprì gli occhi, Sherlock si trovò con più della metà del viso sommerso nel cuscino.  Rotolò lentamente su un fianco e notò che l’unica luce proveniente dalla finestra della sua camera era prodotta dal lampione sul ciglio della strada. Era ancora notte (aveva davvero dormito tutto il giorno?) ma non sapeva che ora fosse di preciso.
Doveva decidersi a cambiare la batteria dell’orologio sul muro. Erano ormai mesi che era fermo.
'Irrilevante', decise infine.
Si accorse di sentirsi stordito e non riusciva a capirne il motivo; sospirò e si girò sulla schiena, tornando a fissare il soffitto, esattamente come il giorno precedente.  Adesso però il soffitto aveva perso la maggior parte del suo charme. Dopo alcuni minuti si ricordò di essersi addormentato mentre vagava per il suo palazzo mentale e di non aver percorso il suo cammino al contrario per uscirne. Sbuffò frustrato.
Per lo meno tutti i postumi erano spariti. John aveva ragione, era solo una questione di tempo.
Già, John.
Sherlock tornò con la mente all’arrivo del dottore il mattino precedente; appena sentì la sua voce tutto il malessere scomparve. O meglio, scomparve dalla sua mente.
 La cosa lo preoccupava e non poco. Soprattutto perché non era la prima volta che la sola presenza di John bastasse a distrarlo, a mandarlo fuori strada mentre seguiva l’ordine disordinato dei suoi pensieri. E questa era una cosa grave.
Quando si era involontariamente addormentato la sera precedente stava cercando di sistemare nel suo Palazzo tutte le volte in cui era stato distratto dalla presenza di John, possibilmente in ordine cronologico. L’essersi addormentato nel bel mezzo di questa operazione non aveva fatto altro che aumentare la sua confusione.
Sbuffò di nuovo.
Decise che suonare qualcosa fosse una saggia scelta. A dire il vero, non era nemmeno una scelta, semplicemente ne aveva voglia. Ma il pensare di fare cose sagge serviva ad infondergli un senso di soddisfazione. Cosa se ne facesse di quella sensazione, nessuno l’ha mai saputo. Nemmeno lui.
Alzandosi notò di essere ancora vestito con -non era possibile- gli stessi abiti che aveva indossato per la ‘festa’ a Scotland Yard due giorni prima. Si corresse, tecnicamente era un giorno e mezzo.
Gettò da qualche parte la camicia e i pantaloni del completo, indossando poi i pantaloni del pigiama e la sua solita vestaglia.
Uscì dalla camera e percorse a piedi nudi il corridoio, entrando poi nel salotto e dirigendosi verso la finestra. Il violino e l’archetto sembravano attenderlo, poggiati in bella mostra sulla scrivania accanto alla finestra. La luce proveniente dai lampioni illuminò la figura del detective fino alla vita, costringendolo a socchiudere gli occhi per qualche secondo. Prese un paio di spartiti da terra e li sistemò sul leggio, poi afferrò il violino e l’archetto e si mise in posizione.
Appoggiò l’archetto sulle corde e ruotò leggermente il busto, come era solito fare quando era in procinto di iniziare a suonare; lasciò vagare lo sguardo sul salotto e vide di sfuggita un’ombra sulla poltrona.
Si fermò immediatamente e di voltò.
I suoi occhi impiegarono qualche istante per abituarsi al buio. Con qualche sforzo riuscì ad identificare la persona che era seduta sulla poltrona.
John.
“Che ci fai qui?” chiese Sherlock, con la voce ancora un po’ rauca.
“Potrei e dovrei farti la stessa domanda” rispose John, un tono piatto che suonò strano alle orecchie del detective.
“Io sono venuto per suonare. Lo faccio spesso, ma questo lo sai già. Ho risposto alla tua -cioè mia- domanda. Tu invece se ti alzi durante la notte al massimo cammini per la stanza oppure scendi solo per farti un the, per poi tornare subito in camera tua. E non resti così seduto al buio” iniziò uno dei suoi soliti sproloqui Sherlock.
“Non essere idiota” fu il commento del dottore.
“Come scusa?” chiese il moro, piuttosto sorpreso.
John sbuffò.
‘Assurdo’ pensò Sherlock. ‘Da quando i ruoli si sono invertiti? Magari anche la Terra ha iniziato a girare al contrario?’
Come se sapessi quale sia il verso di rotazione della Terra, puntualizzò una vocina nella testa del detective.
“Perché per una volta non chiedi quello che vuoi sapere, invece di dover fare dei giri di parole e di concetti immensi?” sbottò John.
Sherlock non disse una parola. Guardò l’ex soldato negli occhi. Questa volta davvero il dottore ci aveva visto giusto. Magari ci aveva visto giusto un sacco di volte, da tanto tempo -da sempre- e aveva fatto finta di niente.
‘Sicuro’ si ritrovò a constatare Sherlock nella sua testa.
 Perché allora tirare fuori questo argomento in quel momento? Insomma, John non si era mai lamentato dei suoi modi. Ad essere precisi, non si era mai lamentato del modo in cui Sherlock comunicasse con lui. Criptico ma comprensibile.
Sherlock non staccò nemmeno per un secondo i suoi occhi da quelli di John e neanche il dottore sembrava intenzionato a rompere quel contatto. Gli occhi di John erano risoluti ma allo stesso tempo velati da una leggera ombra, che si mostrava solo per pochi istanti, ad intermittenza.
La vera domanda che Sherlock avrebbe voluto porre era ‘Perché sei qui John, cosa c’è che non va?’, perché era ovvio che qualcosa non andasse e doveva essere qualcosa di importante, per tenerlo seduto lì nel buio della notte senza nemmeno una tazza di the accanto.
Però Sherlock non ne era capace. Semplicemente non ce la faceva. Eppure John aveva capito anche quella volta.
Mentre guardava fisso negli occhi di John, sentì per la prima volta il bisogno di dirgli che teneva a lui (forse le persone normali avrebbero detto qualcosa come ‘voler bene’) ma che a volte lo odiava perché la sua semplice presenza bastava a mandare alla deriva la sua concentrazione, che non capiva perché e odiava non capire. Però no, in fondo non odiava John.
Il dottore non si mosse di un millimetro finché con calma si alzò dalla poltrona e si avviò per le scale senza dire una parola, lasciando Sherlock da solo in salotto.
Quando sentì la porta della stanza di John chiudersi, Sherlock si voltò di nuovo verso la finestra, abbassando lo sguardo sul primo spartito.
Non sapeva se suonare fosse ancora una scelta saggia.
 
 
John chiuse la porta e si trascinò fino al letto, dove si lasciò cadere. Non aveva chiuso occhio quella notte.
Il pensiero di Sherlock, la consapevolezza di aver associato la parola ‘tenero’ a Sherlock lo aveva davvero scosso. Almeno, dopo una notte insonne, aveva accettato il fatto che non ci fosse nessuna motivazione che lo avesse spinto a formulare quello strano accostamento. Stava facendo progressi. Più o meno. C’era solo una strana sensazione che non riusciva a definire.
Ripensò al giorno che ormai era finito da qualche ora.
Dopo quella breve ‘chiacchierata’ con Sherlock, John tentò di dormire, ma invano. Provò anche a farsi una tazza di the che, con sua somma sorpresa, trovò disgustosa. Quindi uscì per fare due passi, perché aveva bisogno di fare due passi. Non sentiva nemmeno più tutta la stanchezza accumulata durante in turno di notte.
Poi aveva incontrato per caso Greg e avevano deciso di pranzare assieme. Parlarono dell’ex moglie di Greg, di quanto fosse probabile una relazione tra la Donovan e Anderson – o meglio delle prove che avevano- e di altre cose talmente banali che John nemmeno le ricordava.
Dopo aver salutato Greg, che avrebbe iniziato il suo turno nel primo pomeriggio, John andò a fare la spesa, ma prima si concesse un’altra passeggiata. Tornò a Baker Street che il sole era già tramontato, sistemò gli acquisti e notò che non c’era nemmeno l’ombra di Sherlock. Optò per una doccia calda dopodiché si ritirò nella sua stanza deciso a concedersi una lunga e profonda dormita.
Nonostante le sue ottime intenzioni, si ritrovò quasi tormentato dal pensiero del suo migliore amico. Era riuscito a rimandare quel momento per tutto il giorno, ma adesso aveva esaurito tutti i diversivi. Rimase in balia dei suoi pensieri per un tempo indefinito, finché quel letto iniziò a sembrargli davvero troppo scomodo. Decise di scendere al piano inferiore.
Quando Sherlock entrò in salotto lui era su quella poltrona da molto tempo ormai.  Nel momento in cui il detective lo notò e gli pose quella domanda che ne sostituiva palesemente un’altra, John si sentì davvero infastidito dal comportamento del suo coinquilino. Perché, lui che sapeva cosa fare e cosa dire –sempre sempre sempre, lo sapeva- doveva fare questi giochetti? Ovviamente Sherlock non aveva idea di come ci si sentisse a non avere delle risposte –il grande detective le aveva sempre tutte, e anche alla svelta.
John perdeva ore a scervellarsi dietro cose che, per quanto stupide potessero sembrare agli occhi del mondo, erano importanti ai suoi. E poi si sa, il suo cervello era decisamente ordinario.  
Il dottore che non riusciva a venire a capo nemmeno di un cruciverba si sforzava tanto, mentre il detective che aveva tutto, che vedeva tutto, ingorava deliberatamente quel tutto. Era decisamente frustrante.
John alzò la testa che aveva tenuto ben premuta sul materasso fino a quel momento perché gli sembrava che l’aria iniziasse a scarseggiare e notò che i lampioni erano ormai spenti e il cielo chiaro.
Sospirò afflitto. Quella nottata insonne non aveva portato consiglio.
  
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