Questa non è una flashfic.
O meglio – magari mi spiego, va – questa non è nata come flashfic. È uno stralcio di una fanfiction
più lunga che ho attualmente in cantiere (sperando che arrivi a vedere
la luce) ma quando ho scritto la frase finale mi sono accorta che poteva essere
carina anche da sola. Ho contato le parole ed erano 500 pulite, l’ho
preso come un segno del destino.
Vedete voi.
suni
TROPPO TARDI
A volte sto seduto, da solo, e penso a cose
successe decenni fa con la minuzia di chi cerca di ricostruire precisamente
eventi salienti. Forse con l’andare degli anni sto diventando uno di quei
vecchi malinconici che non fanno altro che ripensare ai tempi andati con
nostalgia, pascendosi delle memorie di gioventù anziché guardare
all’avvenire. Strano, perché sono sempre stato un tipo
determinato, proiettato nel futuro e negli obiettivi desiderati e concentrato
sulle speranze del domani, ma col passare del tempo ho preso a riguardare
più sovente a quanto è stato. Forse mi serve a trarre il mio
personale bilancio o semplicemente a cercare di capire meglio le dinamiche
della vita e le sue assurde stranezze, attraverso i ricordi.
Ne ho uno in particolare su cui la mia mente
ritorna spesso, è un ricordo molto bello che mi piace conservare come si
conservano quelle foto dolorose dei defunti, che a guardarle fanno venire le
lacrime agli occhi: un tramonto su Konoha osservato dall’alto delle teste
degli Hokage, all’epoca dei miei diciassette anni. Io ero sdraiato a
pancia in giù col capo mezzo penzolante nel vuoto sotto di me e le
ginocchia piegate con i piedi all’aria, Orochimaru era accoccolato al mio
fianco, assorto nella contemplazione del villaggio su cui calava il buio. Non
parlavamo, stavamo semplicemente lì in silenzio a guardare la nostra
città, fianco a fianco. Eravamo appena tornati da una missione molto
lunga e avevamo sentito entrambi il bisogno di riconciliarci con
l’insieme di Konoha: ci eravamo diretti lassù entrambi nello
stesso momento senza nemmeno dirlo a voce alta, come seguendo un schema
premeditato.
Poi a un certo punto mi voltai a guardarlo, contemporaneamente
lui mi sorrise – lo faceva di rado, se non con scherno – e
piegò leggermente la testa verso di me, facendo ondeggiare l’ala
corvina dei capelli.
“Jiraiya,” mormorò
meditativo, “non ti piacerebbe rimanere quassù, così,
per sempre?”
Non avevo idea del significato che lui dava a quel per sempre. Sorrisi anche io di rimando
ed annuii con convinzione, prima di sogghignare sornione.
“Che animo sentimentale, musone,”
commentai beffardo.
Sospirò profondamente, condiscendente.
“Devo compensare le tue idiozie con il mio
intellettualismo,” replicò con fare superiore. E, non so bene
perché, quelle parole mi trasmisero un tepore balsamico, mi fecero
sentire parte di qualcosa. Compensare
presupponeva un qualche tipo di comunanza, voleva dire essere almeno in due,
spalla a spalla, come fratelli. Ed era buffo e banalmente bello immaginare
quell’equilibrio nato dal bilanciamento delle differenze.
È la sensazione più straordinaria che
ricordi ma è strano e doloroso, adesso, ripensarci sapendo tutto quel
che è successo dopo. Rivedo quei due ragazzi abbarbicati in cima al
monte e avverto l’impulso di chiamarli. Mi sembra di doverli
assolutamente avvisare, di dover gridare con tutto il mio fiato che non c’è
bisogno di essere immortali per apparire unici agli occhi di qualcuno, di dover urlare al giovane, ignaro Jiraiya
che deve fare qualcosa e aiutare il suo amico a rinsavire prima che sia troppo
tardi.
Ma è già troppo tardi, ormai.