Lettera a un Cuore Malato
Non riesco a ricordare da quando ho
iniziato ad avere incubi su di te.
Più cerco di rovistare dentro la mia
testa, più il totale e spaventoso buco nero avanza, distruggendo e cancellando
ogni minima, stupida, importante traccia.
È come se il lungo e solido filo che
un tempo ci univa fosse stato tagliato, permettendo così alle innumerevoli
immagini e ai tanti ricordi di fuggire, di attraversarmi e di volare in cielo
come mille farfalle rosse.
Rosse, sì – come il sangue.
Perché è esattamente così che le vedo.
Ognuna di loro porta dentro un minuscolo pezzettino
di te;
ognuna di loro è bellissima, diversa, semplice, complessa, affascinante ma allo
stesso tempo pericolosa, mortale, triste, amara. La consapevolezza di non
averti mai davvero conosciuto mi ferisce come un coltello seghettato che
penetra dentro la carne morbida e sensibile. Eppure ti ho accudito dentro la
mia testa per così tanto tempo, tenendoti al sicuro e nutrendoti come una madre
amorevole e premurosa.
Il dolore che mi hai procurato è simile a
quello che si prova quando si perde qualcuno d’importante.
Sai, all'inizio credevo (ne ero fermamente
convinta) che a unirci fossero solo le cose belle –
quei momenti magici dentro i quali ci rifugiavamo; quelle veloci occhiate che
solo noi riuscivamo a cogliere; quelle risatine silenziose spezzate solo dal
battito dei nostri cuori.
Eppure, soltanto adesso, ho capito che a
legarci era unicamente un sentimento insidioso: il dolore.
Entrambi soffrivamo e combattevamo le
nostre guerre con ostinazione – chi nascondendosi, chi sfuggendogli e chi, come
me, tentando di aiutare gli altri per non essere costretta ad affrontare i
propri demoni interiori; gli stessi che si appostano sotto il tuo letto, quelli
che ti seguono per la strada e ti sussurrano silenziosamente all’orecchio.
I demoni che vedevo allo specchio,
plasmati a mia immagine e somiglianza, che mi costringevano a odiarmi talmente
tanto da divenire un gesto quasi naturale, spontaneo.
E in mezzo a tutto questo ci siamo
incontrati, ci siamo avvicinati l'uno all'altra e abbiamo così iniziato a
sorreggerci e a supportarci a vicenda.
Più stavamo insieme e più i mostri che ci
spaventavano tanto andavano via, ci lasciavano in pace.
Scomparivano.
E noi continuavamo a far finta di
niente, avanzando testardi verso quell'unico vicolo cieco che c’era possibile
attraversare.
L'importante era, però, che camminando ci
tenessimo per mano.
Non credo che tra noi ci fosse unicamente
quello; so che in fondo mi volevi bene esattamente come te ne ho voluto io. Che
tutto quello che abbiamo passato è stato vero. Reale.
Ma so anche che, probabilmente, ho
conosciuto solo una parte di te – o forse è stata l’unica parte che ho voluto davvero
conoscere.
Dopo che ci siamo allontanati, ho pensato
che non sarei stata più in grado di vivere e che non sarei stata più capace di
andare avanti se non eri con me.
Credevo che non sarei stata più felice e che
la solitudine mi avrebbe imprigionato, impedendomi di evadere da quella cella
fredda e angusta chiamata cervello.
C'è stato un periodo in cui ho avuto
paura di dormire.
La sera m’infilavo sotto le lenzuola
ghiacciate e pregavo affinché la notte passasse, affinché non mi permettesse di
pensare a te.
Forse, per certi versi, i miei desideri
non sono stati del tutto inascoltati.
Non riuscii più a dormire. Tuttora, se
qualcosa mi preoccupa, l'effetto collaterale è questo.
Le poche volte in cui riuscivo a riposare
sognavo te: ti potevo vedere, potevo toccarti, ma non potevo parlarti.
Dalla mia bocca non usciva alcun
suono e quando ti scorgevo, mentre sollevavi le sopracciglia lentamente,
come segno d’impazienza, mi sforzavo di trattenerti in qualche modo, di farti
capire che la colpa non era mia.
Ma solo della mia stupida voce.
La mia stupida voce che non mi permetteva
di raggiungerti.
Ovviamente questo è stato uno dei tanti
incubi che ho fatto, eppure lo ricordo con affetto.
Forse è dato dal fatto che alla fine
riuscimmo a parlare; che finalmente, dopo avermi visto con le mani attorno alla
gola, invece di andare via, ti mettesti a piangere.
"Perdonami"
singhiozzasti. "Mi dispiace tanto, ma devi continuare a vivere. Vivi
anche per me."
Tutto quello che riuscii a rispondere fu
un "va bene" striminzito.
Probabilmente, il lungo e solido filo che
ci univa cominciò a spezzarsi dal quel preciso momento.
Sai, se ripenso a te, le uniche immagini
che riemergono dalla mia memoria sono quelle felici e spensierate di noi due,
insieme.
Una in particolare ti ritrae seduto
accanto a me, nella mia camera, che cerchi disperatamente di trovare su Youtube
la canzone Disturbia di Rihanna.
Stavi lì, sorridente e festoso, con
indosso una delle tue magliette preferite.
I pantaloni neri dalle righe rosse ti
stringevano leggermente i fianchi.
I capelli spettinati ti lasciavano la
fronte scoperta.
I tuoi occhi piccoli e lucidi passavano in
rassegna ogni singola figura, per poi squadrarmi incerto e aggrottare la
fronte, arricciando il naso.
Rammento ancora che quasi subito ti
mettesti a ridere e mi dicesti di volermi bene.
Mi diedi un bacio sulla guancia,
chiamandomi amore.
Chissà per quale motivo, ora non sto più
tanto male a quel ricordo.
Il mio cuore continua a battere
lentamente, le mie mani a digitare sulla tastiera;
la gatta dorme accanto al termosifone.
Può davvero essere che ti abbia
dimenticato?
Che sia finalmente riuscita a scavalcare
il muro infinito che mi teneva lontana dal mondo esterno?
Non mi fa più paura la risposta,
ormai.
Non mi spaventa più il fatto di averti
lasciato andare.
Di aver lasciato sfumare il tuo ricordo, quello amaro e tormentoso, così come
si sfumano gli acquerelli prima di cominciare a dipingere un nuovo progetto su
carta bianca.
Probabilmente ti starai chiedendo il
perché di questa lettera – eppure non c'è un significato preciso.
Ti dirò, non sono nemmeno sicura che il
vero destinatario sia tu.
Magari è semplicemente uno sfogo; un'auto
confessione.
O forse è una lettera rivolta al mio
cuore; a quello logoro e malato che era rimasto incastrato dentro di me, saturo
di ferite infette e piaghe sanguinolente.
Non ne desidererei comunque uno nuovo – so
bene che non potrei mai rimpiazzarlo.
Neppure lo vorrei.
Perché se c'è una cosa fondamentale che mi
hanno insegnato, è che il dolore che ogni ferita ti provoca può essere placato
solo attraverso il tempo. E nessun uomo potrà mai sottrarmi il mio tempo.
Penso che sarà l'ultima volta che
piangerò per te.
Proprio per questo mi godrò fino in fondo
le lacrime, consapevole del fatto che non appena saranno sparite dal mio viso,
anche tu non ci sarai più.
Addio.
Spazio
autrice:
Appartiene a un passato doloroso, lontano,
durante il quale ho perso molto, pianto molto.
All’epoca – ero solo una bambina
spaventata e piena d’incertezze – non riuscivo a credere che il futuro sarebbe
stato migliore del presente.
Ero ancorata alla sofferenza e alla
negatività, senza trovare la forza per andare avanti.
Avevo applicato la regola del “fare di
tutta l’erba un fascio”, per intenderci: se adesso sto male, starò male anche
domani. E dopodomani.
Mi viene da sorridere, oggi.
Poi ho scoperto qualcosa che mi ha
letteralmente salvato la vita.
La scrittura.
Riversavo qualsiasi emozione, idea, sogno
e fantasia all’interno di questo meraviglioso mondo fatto d’inchiostro nero.
E sono riuscita a riemergere dagli abissi
della depressione e a respirare come si doveva.
Tale lettera ne è un esempio: il primo
esempio.
E per questo il più importante.
Non ho corretto nulla, né modificato le
parole. Per rispetto e amore verso la me stessa di tanto tempo fa.
Perché pubblicarla adesso? Come omaggio
alla bambina di allora.
Per dirle che il futuro sarà incredibile.
E triste, spaventoso, scoraggiato, faticoso.
Ma incredibile.
Per raccontarle di come la bambina si è
trasformata in una donna forte e fiera.
Per ricordarle che tutto è possibile. Che
c’è sempre una soluzione, una seconda possibilità.
Per abbracciarla e per confidarle che è
bellissima. Anche se lei non lo sa. E non ci crede.
Per svelarle che è davvero fortunata; ha
una famiglia e delle persone che la amano per com’è.
Per complimentarmi con lei; rispetta le
persone che la circondano. Questo non è cambiato.
Se vi siete intrattenuti a leggere sino a
qui, vi ringrazio.
E vi ricordo che superare un brutto
momento, di una settimana o di un anno – una depressione – si può. Anche se
all’inizio sembra impossibile.
Con affetto,
una Road chan che non vede l’ora di sapere
cosa le riserva il domani.