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Autore: Bolide Everdeen    23/05/2015    4 recensioni
[Storia interattiva-Tributi al completo]
C'è una nazione, Panem.
C'è un anniversario, il cinquecentesimo della creazione di questo stato.
C'è un nuovo presidente, Coriolanus Snow.
C'è un'edizione speciale degli Hunger Games.
Ci sono ventiquattro tributi.
Ci sarà solo un sopravvissuto.
***
Dal primo capitolo:
"Ma Panem è simile ad un'enorme arena.
Non si può fuggire.
Solo combattere, o morire.
A voi la scelta."
Genere: Azione, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Altri tributi, Caesar Flickerman, Presidente Snow
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie '500 - Behind the scenes'
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Capitolo XVI

L'aridità

Giorno 6

Distretto 8, Who Powell

Sopra, era la notte. Il buio, qualche stella solitaria e spaventata, chissà da cosa. Come potevano essere spaventate persino le stelle? Who non si era mai rimproverata di aver provato paura, ma questo accorgimento fece pensare se stessa più umana.

Come mai era finita per osservare il cielo sovrastante? Non se lo ricordava. Forse quella distesa blu l'affascinava incoscientemente, aveva un bisogno interno e magnetico di osservarla. Niente glielo garantiva, ma lo credeva. Necessitava di credere in qualcosa di totalmente irragionevole, come per giustificare il suo futuro gesto.

Eracle si era soffermato per trarre un ultimo oggetto, un ultimo calice della salvezza mentre il sonno di Andrea si protraeva.«Andiamo?» le sussurrò all'orecchio, per racchiudere il segreto fra loro due, e non condividerlo con il dormiente alleato. Ex alleato, si ricordò Who. Ora è un nemico come gli altri.

E un giorno, questa trasfigurazione avrebbe annerito anche il viso di Eracle. La ragazza tralasciò la domanda ovvia, se sarebbe sopravvissuta abbastanza perché questo evento potesse accadere, e si dedicò solamente alla spossatezza che provocava il pensiero. Si sentiva come su un burrone, spinta dal vento: era sicuro che questo sarebbe intervenuto, ma era impossibile interpretare la sua intensità, la sua cattiveria di quel momento. E, in quell'attimo, era particolarmente malvagio.

Annuì velocemente. Fecero per camminare, ma un gelido sussurro dietro di loro li catturò:«Andare, dove?»

Un altro soffio di vento. Questa volta, totalmente destabilizzante. Perché in quel posto erano solamente lei, Eracle il quale sicuramente non aveva pronunciato quelle parole e... Andrea.

Non si voltò. Non tentò neanche. Conosceva il suo ghigno eccitato e rabbioso, i pugni minacciosi, il respiro quasi ansimante e pieno di vendetta. Lo aveva rimirato così tante volte in allenamento, e si era lasciata pervadere dalla paura. Eracle non seguì la consapevolezza di conoscere già il volto. Si girò comunque, gettandole uno sguardo per tranquillizzarla. Who aveva tentato di non dimostrare il suo improvviso timore, ma forse era talmente irrigidita da far sospettare all'amico di tremare. Internamente. Non era stato una raffica di vento, ma un terremoto.

«Da qualche parte. Senza di te» rispose, con la voce lievemente insicura, Eracle. Who credeva, o meglio, era sicura, che stesse guardando negli occhi il nemico. Come fai? si domandò, mentre quella sensazione spiazzante la feriva di nuovo. Era come se, nonostante il vento aggredisse Eracle, anche lei cadesse.

Quando Andrea rise fragorosamente alla replica dell'altro, Who si decise a conquistare le sue redini e di voltarsi verso il nemico. Era come nella sua immaginazione, pronto a chissà quale rissa. Chissà a quale dolore da infliggere loro. Ma cosa ricavava da questo? Scoprì in questo modo un'altra sua caratteristica che la distruggeva: la totale incomprensione per lui. Sperò che i suoi occhi non brillassero del suo timore, o che il buio li nascondesse. Andrea non avrebbe potuto fare altro che trarre potenza dalla sua interna morte.

«Dove pensi di andare, seriamente, Chentuarion? In questi giorni, hai lasciato che i grandi ti servissero la pappa mentre facevano tutto il lavoro. E tu? Come sei intervenuto? In nessun modo. Hai lasciato che gli altri uccidessero, mentre ti rilassavi con la tua amichetta.» Fu a quel punto in cui la forza di Who fu più provata: quando Andrea la attraversò con un'occhiata meschina, fortificata dal suo sorriso beffardo. E si avvicinò a lei.«Conta così tanto che non ne ricordo neanche il nome... come si chiamava? Who? Divertente, eh?»

A terra. Guarda a terra. Si ripeteva questi comandi, per dimenticare tutte le emozioni affrettate a presentarsi ed aggrovigliarsi nella sua mente. Ma la sua testa fu violentemente riscattata quando, nella morsa di quelle possente dita, Who fu obbligata a fissare gli occhi di Andrea, improvvisamente volti alla voglia di uccidere.

E le doleva. Aveva sempre temuto quella presa, ma testarla sulla sua mandibola fu asfissiante. Quasi la sua aria non riusciva ad attraversare i polmoni, il suo respiro ad essere chiaro, la pelle a proteggere il suo scheletro. Ed Eracle non reagiva. Il dolore fermò anche le lacrime.

«Allora, Chentaurion? Si chiamava Who, giusto? Vedi che non conta nulla neanche per te? Che bella cosa, piccola Who, presa in adozione e poi scaricata come un'orfana... non sarebbe meglio fare finita, no?» le domandò, urlando, chiedendo forse al mondo e non solo a lei. Sfogandosi. Who ebbe questa impressione. Non poteva più ordinarsi di guardare a terra, ma rinfrancò il desiderio di non piangere.

E, all'improvviso, cedette. Tutto quanto, assieme. Si accorse di essere sollevata da terra quando impattò con il territorio, quando Andrea urlò senza alcun dolore, ma come se uno spillo innocente lo avesse sfiorato, come se una linea storta fosse apparsa in un'enorme disegno geometrico. Who riuscì appena a scorgerlo toccarsi la spalla, notando Eracle con la sua spada dietro, che avvertì queste parole:«Ah! Ti credevi furbo, Chentaurion?»

Ultime. Who pensò questo aggettivo, non appena si rese conto di essere sdraiata, colpita prima allo stomaco e poi al volto. A pancia all'ingiù. Il patimento si posizionò alla prima posizione in quelli totalizzati nella sua esperienza; questo la riduceva ancora di più a un fantoccio accasciato sul pavimento, a delle mani che tentavano di stringersi, a degli occhi che avrebbero voluto interpretare la vita ma scorgevano solo il buio e qualche luce, anche quella stranamente oscura...

Però, sentiva. Sentiva delle vere urla, dal tono di Eracle. Sentiva una sottospecie di lotta, ma non le importava. Voleva solo che quel dolore finisse. O respirando, o lasciandosi andare alla mente.

Dopo un po', si accorse di perdere sangue. Non le importava. Pregava affinché si sbrigasse, così da asfissiare tutta la sofferenza assieme a lei. Tutto ciò che distinse, però, fu un colpo di cannone. Non le interessava a chi appartenesse; sperò fosse suo, ma niente si calmava nel suo corpo. Non si avvertiva come morta.

Alla fine, il male si attenuò. E Who iniziò a trovare quell'inerzia, quel sedativo sanguinoso, quella soglia prima del sonno rilassante. Come se si trovasse in un sogno.

Stava bene. Si accorse che, in ogni caso, non c'era da temere. D'altronde, quale senso aveva continuare in quelle condizioni? Quale senso aveva arrendersi subito?

Chissà se morire è così.

Lo scoprì poco dopo.

 

Distretto 12, Savannah Sparks

«C'è niente?»

«No.»

Julian scrutava il cielo. Lei lo domandava quasi per gentilezza, come se ancora avesse una speranza nei confronti della sua idea. Un'idea cretina, non aveva esitato a definirla lei, ma, sul fondo dell'anima, sentiva una voce contraddirla. Forse era solo contrariata perché non era stata lei a originarla.

Tutto era nato il pomeriggio prima. Julian si era avvicinato a lei, con gli occhi spenti della noia ed accesi dalla voglia di un'occupazione, mentre erano nel settimo cerchio.

«Parlami di te» le aveva chiesto, nel momento in cui il fresco che li sovrastava e il canto di quegli uccelli quanto odiosi quanto invisibili si era presentato come opprimente. Non riusciva più a covare la sua voglia di essere in un posto dove esistesse qualche divertimento al suo interno. Allora, Savannah si era affidata alla più vicina idea di quella che era stata la sua vita fino a un paio di settimane precedenti, per raccontare come Julian le aveva domandato, per ingannare il tempo.

«I miei genitori pensano sia un disastro» aveva subito riesumato, sorridendo. Le origini di quel sorriso non era affatto chiara, forse la nostalgia stava iniziando ad annidarsi al suo cuore, a farle desiderare l'aria piena di carbone del dodici. Di stimolare un altro poco la sua famiglia ad essere delusa da lei.«Alcuni nel distretto mi chiamano “la strega cattiva vestita da Biancaneve”. Una bella reputazione, in complessivo.» Fece una smorfia. Non si trattava di disprezzo verso la sua condizione, di cui invece era decisamente orgogliosa, ma di amplificarla con un'ironia contrariata.«E tu? Quale principe delle fiabe sei?»

Anche Julian, di rimando, aveva accolto la richiesta con un risolino.«Il principe che voglio, quando desidero.» La noia stava andando affievolendosi nel suo sguardo, quando una nuova iniziativa lo aveva conquistato arditamente, animandolo di nuovo.«Ho un'idea.»

«Cosa?» aveva indagato subito lei. E cosa altro avrebbe potuto fare? Quella scintilla stava cominciando a bruciare anche Savannah. Julian si era avvicinato e aveva proposto, gesticolando eccitato concitatamente «In questo momento non ci stanno guardando, sicuramente. Avranno mandato un ibrido a qualcuno, perciò noi siamo salvi. Poi, Strateghi, state calmi, è una cosa che vi piacerà sicuramente» aveva aggiunto, dirigendo il suo sguardo verso un tronco. Aveva trovato una telecamera? Savannah si sentì offesa, anche perché lei non aveva neanche sospettato lontanamente della sua presenza.«Abbiamo bisogno di sponsor. E anche di un modo per accalappiarceli. Sei brava a recitare?»

Quella domanda si ripropose distorta più volte nelle orecchie della ragazza, come se volessero fargliela elaborare per arrivare ad un senso. «Si, ma...» iniziò, per poi interrompersi. Il senso la aveva percossa improvvisamente, tacendola e lasciandola sbigottita.«Oh.»

«Esattamente.» Non capiva per quale motivo Julian dovesse confermare un'ipotesi di cui non era affatto a conoscenza, forse avevano una strana ed asfissiante telepatia che coinvolgeva Savannah fino allo spavento. In ogni caso, il pensiero del suo alleato era... particolare. Come il modo in cui lei era arrivato a capirlo, così indefinito.

La congettura di Savannah era una finzione. Una finzione spudorata, plastica da quanto era un pensiero, una recitazione per ammorbidire i capitolini e mandare i loro soldi sotto la forma di cibo, o di utilità. Ne avevano, a dire la verità, anche se un giorno non troppo futuro i viveri si sarebbero esauriti sotto la famelica morsa dei loro provati stomaci. La necessità di sponsor si poteva manifestare anche come uno dei loro numerosi graffi, forse più gravi dei loro pensieri, che violavano il loro corpo dopo sei giorni di arena. E poi, sarebbe stato un metodo per passare il tempo. Era incredibile rendersi conto di avere per preoccupazione più lieve il modo con il quale devastare i secondi.

Ma non capiva ancora quale genere di messa in scena.«A cosa pensi, esattamente?» chiese lei, affievolendo la voce come se si preoccupasse che qualcuno riuscisse ad avvertire i loro piani. Come se dovessero essere solo un cofano dorato condiviso da loro due.«Dovremmo fare finta di essere innamorati» sputò il compagno.

E lei sputò una crisi di risa. Non era mai stata seriamente innamorata, al distretto, al massimo qualche cotta immaginaria aveva striato il suo cuore, ma l'amore? Quale sarebbe stato il senso di fingere a quel modo, di stare insieme? In fondo, Savannah era d'accordo nel credere che fosse un'idea decisamente acuta, ma quasi si vergognava nel praticarla. Una sensazione simile a non voler sprecare il suo sentimento covato in un anfratto invisibile del suo corpo per serbarlo fino al momento in cui sarebbe servito seriamente. Non lo poteva gettare solo per sopravvivere. O forse, credeva di non poter arrivare a recitare fino a quel livello. O forse, si vergognava nei confronti del volto di Julian.

Ma sarebbe servito. Niente di meglio per far sospirare i capitolini, con un dramma del genere. Perciò, aveva accettato. Si erano presentate occasioni in cui avevano finto, fredde e timide effusioni di parole, e adesso scrutavano il cielo in attesa della loro ricompensa. Ma nulla. Non era bastato.

«C'è bisogno di qualcosa di drastico» decise Julian.«Tu cosa pensi di fare?»

Un brivido, di cui non aveva compreso la natura, s'infiltrò in lei. La parola “drastico” l'aveva alimentato, e avrebbe dovuto celebrare anche la sua spiegazione, ma non la trovava. «Improvvisiamo. Fingi che io stia male, per esempio, che non mangi da un giorno.» Non credo verrebbe bene, al contrario pensò, senza aggiungerlo.

«Va bene.» Il ragazzo aveva diretto i suoi occhi verso la telecamera nascosta nell'albero, aveva fatto un cenno e atteso fino a quando non si era deciso ad iniziare, allungando una mano dolcemente verso la figura di Savannah, che nel frattempo si era accasciata a terra.«Come va, piccola?» domandò, con voce tremante, come se fosse intorpidita dalle lacrime, come se queste fossero pronte per irrigargli il volto e restituire l'energia alla ragazza.«Bene» lamentosamente era interferita lei, accomodandosi la mano dell'alleato sulla guancia, accompagnandola. Si era abituata con il tempo a contenere il suo rossore quando si sarebbe voluto presentare, e perciò si sentì tranquilla sulla sua interpretazione. Però, provava qualcosa di nuovo, e non era affatto male.«Ho fame» continuò.

«Mi spiace, piccola. Mi spiace non poter fare nulla per te» continuò Julian, riducendo il suo tono ad un tremito. E poi si avvicinò.«Mi spiace.»

Affondò la sua testa nel ventre di Savannah, e lei poté giurare di sentirsi bagnata da delle lacrime. Si stupì di quanto Julian sembrasse vero, e spero che questa sensazione arrivasse anche nelle case. Sarebbe significato che quella farsa non fosse del tutto inutile. Era divertente, ma quasi imbarazzante. Non lo dimostrò mai, da grande professionista del trattenere le sue emozioni.

«Ehi» continuò la ragazza, riscattando la testa del compagno, con degli occhi realmente segnati dalle lacrime.«Va tutto bene. Tu non devi fare nulla. Va tutto benissimo così.»

I loro volti furono, per un attimo, a distanza di respiro. Poi, Julian consolidò la commozione di quel momento in un bacio.

Savannah non lo rifiutò. Era pur sempre una scenografia, chiaramente per la sua bocca, ma non per gli spettatori. Chiuse gli occhi, perciò non vide come il risultato potesse essere. E non sapeva cosa pensare. Ecco, ora a casa hanno finito un pacchetto di fazzoletti concluse, ma non aveva un'opinione su quello che aveva provato lei. Fisicamente, non era stato spiacevole. Mentalmente, non aveva segnato nessun confine. Era una finzione. Basta. Non c'era nulla da provare.

Lievemente, si congedarono l'uno con l'altro. Il silenzio venne varcato da un bip, acuto e ripetuto. Gli occhi di Julian sembrarono cancellare in un attimo tutto il loro rossore, per poi correre subito verso la fonte del suono. Lei non si mosse. Non era finita, ancora.

Ce l'abbiamo fatta! non poté evitare di pensare, reprimendo tutti i suoi festeggiamenti. Doveva essere sofferente, ma dentro era sfrontatamente soddisfatta. E lo fu ancora di più quando Julian tornò, deponendo un barattolino con un minuscolo telo sgonfiato appresso, lo svitò e ci trovò della carne essiccata. E un paio di biscotti a forma di cuore.

Avevano vinto. Con un sorriso reciproco, di intesa mascherata con l'amore, si complimentarono uno con l'altro.

Si era formata una strategia.

 

Giorno 7

Distretto 7, Milton Marvin

Camminava. Trascinava i suoi piedi, inutilmente su quel terreno, scatenando qualche cumulo di polvere nascosto e residuo in profondità. Vorticava, nel momento in cui si alzava, come lui. Si sentiva totalmente svuotato, come se il cielo sovrastante fosse solo un'illusione, il sole che lo scaldava una cattiveria inflitta da qualcuno che voleva obbligarlo a continuare. E perché, poi? Fino a qualche giorno prima si sentiva gestito da una missione specifica: non abbandonare la sua alleata, a cui aveva promesso protezione, aiuto. Ma lei era scappata. Nelle sue braccia, aveva deciso di respingere le sue offerte e morire. Lasciarlo solo. Punirlo, forse, in qualche modo.

Come mai? Come mai? Queste parole risuonavano nella sua mente fino a tramutarsi nel più insopportabile delle grida, nel più insistente dei terremoti. No, non era un semplice mal di testa. Qualcosa di più profondo. Una bomba piazzata da Myrtle prima di andarsene, così per fargli rimpiangere di averla lasciata andare. Non era stata la giusta scelta. Ormai, era impossibile spiegarle che non aveva potuto trattenere la sua anima.

La sua gola risuonava dalla secchezza. Aveva dell'acqua? Forse. Non lo ricordava più. In ogni caso, non si soffermò ad esaminare il contenuto dello zaino. Non ci pensò neanche, non si soffermò un attimo su un'idea del genere. Gli pareva di essere in chissà quale mondo etereo, distante dalla polvere scatenata dai suoi piedi. Esisteva, da qualche parte. Ma non quella.

Non ricordava neanche di essere nato in un certo distretto 7, un posto presente nella sua memoria, ma in una memoria così vaga da potersi definire quasi un sogno. Non esisteva, probabilmente, lui non aveva alcuna ragione di sormontare quella terra ancora. La sua mente era abitata da un'enorme bolla d'aria, forse la fame e la sete, ma era talmente stanco da non riuscire a diagnosticare la causa del dolore. Se lo meritava, dopotutto; guarire non era nei suo interessi.

Ed allora, perché camminava? Si domandò questo, e istintivamente si bloccò. Già. Aveva senso. La domanda gli arrivò all'improvviso, come lo stimolo. Tentò di concentrarsi, qualche secondo solamente sprecare le sue energie, per rispondere. Forse... voleva sprecare il suo tempo fino a quando qualcosa non l'avrebbe colpito così violentemente da inibirgli persino di passeggiare. Forse cercava un particolare oggetto. Cosa, allora?
Giusto. Nulla. Voleva solo sprecare tempo.

Ricominciò, così. Trascinando i piedi, conservando le sue energie continuando a mantenere il contatto fra piedi e terreno. Fino a quando non captò miracolosamente un rumore di passi insicuramente felpati alle sue spalle.

Alzò la testa, allora. Prima l'aveva lasciata penzolare ad osservare i vani movimenti delle sue gambe, non avendo anche lei un obbiettivo. Ora doveva guardare, seriamente. Studiare la situazione.

Qualcosa si attuò al suo interno. Uno spirito materiale, determinato e testardo. E trovò la sua denominazione, sorprendentemente: era lo spirito di sopravvivenza. Allora, era ancora un essere umano.

Ma non si mosse. Attese, perché nessuna idea gli suggeriva di spostarsi. E dove, poi? La sua posizione era il desolato quinto cerchio, dove non esisteva nascondiglio. In più, se l'aggressore arrivava da dietro e non si voleva mostrare camminando con un'impercettibile leggerezza, era ormai nel mirino del bersaglio. E, per scoprire il volto del suo assassino, si voltò.

Il maggiore stupore fu percepito quando alle sue spalle non colse la figura di un assassino, ma di una ragazza moralmente indifesa. Una massa di capelli biondi oscurati dalla sporcizia, ribellati ad una coda di cavallo, con la testa piegata su un coltello dall'aspetto non più minaccioso. Il volto era oscurato dalla sua apparente tristezza.«Scusa... io non volevo.»

La sua voce sembrava rigata da un pianto, teneramente inquietato. Chi c'era ancora di tributi femminili biondi, a quel punto? Milton non ricordava. Ma non ebbe paura di lei. Si avvicinò, lievemente, sussurrando:«Ehi... non fa niente. Va tutto bene.»

Allora, lei lo fronteggiò con il suo sguardo, incagliando in un paio di occhi azzurri. E, da lì in poi, la nebbia di Milton sembrò diradarsi. Vide ai suoi piedi una cassa di cavi, sulle sue spalle le testimonianze della presenza di uno zaino, ed in lei la ragazza del distretto 3. Rimembrare il nome sembrò eccessivamente faticoso.«Non va affatto bene. Sono un mostro. Stavo per ucciderti!»

«Non l'hai fatto. Va benissimo così, fidati. Non sei un mostro, queste... queste sono le regole.» Non capì come mai queste parole fossero così spontanee nella sua bocca, come mai consolasse la sua nemica. Eppure, non era una nemica. Forse riconosceva uno spavento talmente naturale da creare una compassione. O da creare un riflesso.

La voce di Milton era segnata dalla sua siccità, e questo sembrò riscattare un animo gentile nella ragazza.«Aspetta... hai sete? Ho dell'acqua.»

Annuì senza neanche accorgersene. Era stato un'altra volta lo spirito di sopravvivenza, la sua voglia di bere. Aspettò bramoso, simile ad un cagnolino in attesa della pappa, fissando il tributo mentre estraeva tremolante una bottiglia di acqua piena a metà. Quando fu il suo turno, l'afferrò con vigore e si vide colto da una strana lucidità prima di bere. Perché aspirarne un sorso indicibilmente goloso? Avrebbe dovuto essere avaro. Conservare per un futuro che sarebbe potuto esistere. Così, si limitò a un goccio prima di restituire alla ragazza la sua bottiglia.

«Grazie» esclamò, porgendo di nuovo l'acqua.«Era il minimo, per farmi perdonare» si chiarì lei, puntando una seconda volta gli occhi al terreno. In quel momento, Milton realizzò che stava parlando con uno dei tributi ancora in gioco non per uno scontro. In pace. Lei gli aveva offerto dell'acqua, lui consolazione. Avevano già condiviso qualcosa, anche senza conoscersi.

«Milton» si presentò, porgendo la mano. Quel gesto gli parve anormale anche emesso da lui. Che senso mai aveva? Sembrava originario di quel passato, di quel sogno.

Ma, evidentemente, anche per lei aveva un significato. Accettò la presa, dichiarando:«Emilie.» Emilie, ripeté mentalmente. Emilie, la ragazza con gli occhi azzurri.

Da quel momento lei non lasciò mai più la sua memoria.

«Sei sola?» Incomprensibilmente, Milton non si sentiva affatto a disagio. La poteva capire. Erano così tremendamente simili. Terrorizzati, quasi. L'uno dall'altro, dal paesaggio, da quel cielo in qualche modo fittizio. Emilie rispose con il capo, facendo cenno di sì e confermando con la voce.«Tu?»

«Anche.» Poi, fu il silenzio. Forse stavano meditando. Entrambi, su una proposta inevitabile quanto futilmente fondamentale.

Alla fine, fu Milton a ritrovare il metodo, nutrito efficacemente da quel goccio d'acqua.«Ce la fai a portare i cavi? O è meglio che li porti io?» Con un sorriso timido, lei rifiutò cortesemente:«No, ce la faccio.»

E così fu. Insieme, s'incamminarono usandosi dell'altro come arma per spaventare la paura.

 

Distretto 9, Athena Rainway

Era notte. Era freddo. Quando si pensava alle prime due caratteristiche di quel luogo, risaltavano alle percezioni subito quello: il buio, e il gelido sospiro dell'aria sulla pelle. Athena si proteggeva solo con il suo sacco a pelo.

Aveva realizzato di necessitare di quell'arma insofferente che è il sogno nel momento in cui si era accorta di quanto fosse impossibile rimanere sveglia un'intera notte a vegliare affinché i nemici non le infliggessero nessun dolore. Ma quali nemici? Si trovava nel decimo cerchio, e sembrava essere l'unica abitante di quel posto. E così, lentamente, sinuosamente, i suoi pensieri l'avevano corretta assieme alla voglia fino a farle dormire. Così, si era arresa. Però, si parava con i suoi personali possessi tenendoli accanto a sé nel sonno, sotto il sacco. In questo modo non sarebbero stati notati. O almeno lo sperava. Era un allarme efficace, in ogni caso.

Non era caduta fra le braccia di Morfeo, la sensazione era più quella di essere affogata da loro. Da non poter respirare quasi dalla condizione in cui il riposo l'aveva posta. E quell'asfissia si coronava di un strano sogno, dove era possibile respirare, ma con una pesantezza anormale.

Si trovava in una piazza. La sua descrizione si poteva confondere in dettagli di quella del distretto 9 e quella principale di Capitol City, intorno a lei c'erano centinaia di facce di coetanei, alcuni conosciuti; ma Athena non lo notò. Sembrava... oppressa da qualche pensiero più pesante. E questo si presentò nella sua mente nella nebbia solita dei sogni: la Mietitura. Non si soffermò un attimo a ricordarsi che non era possibile, che lei era già posta nell'arena. Stava sognando. Poteva solo sperare in direzione contraria dell'estrazione.

Sul palco, che pareva straordinariamente vicino per la distanza a cui lei si posizionava, blaterava un nuovo deforme presentatore: era il ragazzo del 10, Eaves, il quale ricopriva il ruolo dell'accompagnatore con una strana attitudine capitolina mai presente nella vera versione. Si presentò e, dopo aver presentato un'edizione imprecisata dei giochi, il pubblico applaudì vigorosamente, incitando il nome di Eaves. Athena non ne capiva il motivo. Avrebbero dovuto esserne spaventati, se si trovavano lì, no? Erano raggruppati fra le persone possibili come nuovi tributi.

Eppure, era come se loro sapessero qualcosa di terrificante. Occhiate maligne e rimproveranti le venivano lanciate dai famelici sguardi dei coetanei, mentre in lei si moltiplicava la sensazione di essere appiattita al muro lì dietro. Anche se non era appoggiata a nessun muro. Non se ne accorse.

Eaves trotterellò fino ad una boccia, senza specificare se fosse maschile o femminile. D'altronde, Athena non scorgeva maschi. Ora lo notava. Era una sfilza di ragazze compresse in una folla famelica e rabbiosa, più vicina al distretto 2 che a... dove si trovava? Rendendosi conto di non conoscere il luogo in cui si trovava, lasciò cadere il paragone.

E poi, perché ci sarebbero dovuti essere maschi? Qualcosa di interno, incagliato nel suo spirito, le suggeriva che non fosse normale.

Silenzio. Poi, il ragazzo si avvicinò al microfono, mentre tutto intorno a sé sembrava congelarsi un momento.«Emanuelle Hepburn.»

Emanuelle? Giusto, anche Elle sarebbe potuta essere estratta. E allora, perché non si erano incontrate?

Allora, l'attenzione di Athena si focalizzò su un altro lato della piazza che prima era giaciuto inconsiderato, o forse non esisteva neanche. Lì, i personaggi sembravano più vaporosi, distanti da terra; oscillavano tristemente, attendendo chissà quale desolante destino. E, da quel posto, la braccia racchiuse nelle mani, veniva avanti Elle, trascinandosi lentamente, come se oppressa da un grande peso. Salì sul palco, mentre un velo di fumo si depositava ai suoi piedi. Il suo volto era cinereo.«Che cosa significa questo?» domandò ad alta voce, e Eaves la trapassò con uno sguardo venato di potenza e malvagità. Lo stesso comune delle altre ragazze. Un biglietto apparve silenzioso nelle sue mani e, senza staccare i suoi occhi da lei, come una condanna, il ragazzo annunciò:«Athena Rainway.»

Ed arrivarono le urla. Urla di derisione delle sue compagne, di quei volti talvolta visti talvolta frutto di una complessa immaginazione, tutte mirate a svestirla della sua dignità. Prima di poter muovere un passo, era sul palco. E anche una scia di vapore la aggrediva ai piedi.

Cosa sarebbe accaduto, allora? Aspettarono, mentre la gente inferiva su di lei, con fischi e condanne. Come mai? Cosa aveva mai fatto? Si ritrovò improvvisamente con le mani legate dietro ad un palo, ad osservare il cielo per eludere la folla in contraddizione rispetto a lei. Era grigiastro; le pareva di vedere la pioggia stagliarsi contro la terra, ma non la sentiva strisciare sul suo volto. Che strano. Per un momento, si concentrò su quello. Poi un crepitio iniziò ad assalirla dai piedi.

Osservò il pavimento. Fuoco. Cosa diamine...? Quando il calore si accentuò, proveniente da chissà quale inferno, la risposta le fu chiaro. Le stavano bruciando. Lei ed Elle.

In realtà, non c'era nessun inferno a detenere la paternità di quel rogo. Era lei, lei a creare le fiamme. Da lei scaturivano, da lei si diffondevano per entrambi i legni. Elle le lanciava sguardi ansiosi di spiegazioni, ma lei non riusciva a comprendere il motivo di quella condanna. Lei non era mai stata in grado di generare incendi, come mai in quel momento? Chi era stato ad appiccare il fuoco?

Si divincolava. Si doveva salvare, in qualche modo. Ma era sospesa da terra, era la causa della sua pensa, cosa mai poteva fare? Elle continuava a languire quell'occhiata, così impregnata di innocenza da far infiltrare in lei il senso di colpa. No. Nessuna di loro due sarebbe morta. Ma...

Una verità interna si nascondeva nel suo fegato. Una di loro se n'era già andata. Quale delle due? Athena non capiva. Cercava solo di salvarsi. Voleva solo salvarsi.

A un punto, un grido fendette l'aria. Il suo nome, urlato con tutta la potenza e la disperazione presente nel corpo del produttore; un'ansia incorporata in uno strillo. Non riconobbe subito la voce. Ma si voltò, e lo vide. Vide suo padre, bruciato dalle sue fiamme, mentre anche lui tentava di mantenere la sua vita.

Aveva una seconda opportunità. Era tornato. Ma stava morendo, ancora.«Papà!» strepitò, con il tono più acutamente devastato presente nel suo corpo, secco per un dolore sconosciuto. Doveva trovare una mano. Slegare suo padre. Non se lo meritava, di sparire un'altra volta. Era rimasto solo Eaves.

«Salvalo!» gridò Athena, sul volto del nemico, che si trovava sopra di lui, su un palco esasperatamente invisibile. Una figura impassibile; lunghe dita dall'aspetto minaccioso messe in risalto da chissà quale terrore.«Salva mio padre!»

L'unica cosa che poteva spegnere il fuoco erano le sue lacrime. Eaves rimase lì, ad allargare beffardamente il suo sorriso, a manifestarlo fino a quando la vita l'avrebbe torturata. E lei lo pregava, infusa da una disperazione indicibile. No. Non sarebbero state quelle fiamme la causa della sua morte. Non si sarebbe condannata, né avrebbe determinato la fine di suo padre. Perché non era il momento.

Come poteva dire che non era il momento? Poteva non volerlo, ma... ma non c'era altro. Le grida, che arrivavano nonostante nessuno stesse sullo sfondo. La risata vendicativa di Eaves. Le fiamme che la aggredivano sempre di più.

Poi, il fuoco arrivò a nutrirla direttamente alla bocca, a diventare parte integrante del suo respiro. Doveva affannarsi, per raggiungere qualcosa. Mentre tutto si annuvolava, mentre tutto si tramutava in fumo.

Si sentì attraversare da un calore indicibile. Fu un secondo, un attimo, un battito di ciglia. Fu il più atroce dolore della sua vita.

E poi si svegliò. Era notte. Era freddo. Quando si pensava alle prime due caratteristiche di quel luogo, risaltavano alle percezioni subito quello: il buio, e il gelido sospiro dell'aria sulla pelle. Athena si proteggeva solo con il suo sacco a pelo.

Proteggersi da cosa?

Si ritrovò ad avere paura dell'invisibile.

 

Spazio autrice

Be'...

Ehilà.

Qualche giorno fa, pensavo che questo è uno dei miei ultimi spazi autrice. Probabilmente, il quartultimo. Perché dopo questo capitolo, ci sarà la semifinale, che si svolgerà nel nono giorno. Ne salterò uno, ma prima di riempirlo delle banalità più grandi, mi sono contenuta. Passo velocemente ai commenti sui POV.

Who Powell: sì, lo so, qui ho esagerato come al solito con le OTP. Avrei voluto mettere più sangue, ma con Who mezza morta era impossibile scrivere qualcosa.

Savannah Sparks: ecco. Non l'ho fatto apposta. È stato più forte di me. Però, non li shippo, Savannan non prova neanche emozioni quando bacia Julian... Avevo bisogno di sponsor. In qualche modo.

Milton Marvin: non ho resistito neanche qui. Mi sembravano una bella coppia di alleati.

Athena Rainway: A.K.A., a volte ritornano. Penso che questo sogno sia una delle cavolate più grandi che abbia mai prodotto.

Ovviamente, è inutile che ribadisca di affogare la tastiera nelle lacrime ogni volta che decimo qualcuno. In questo capitolo sono morti, solo nel sesto giorno:

  • distretto 2, Eracle Chentaurion;

  • distretto 8, Who Powell.

Ecco. Nulla da aggiungere.

Alla prossima,

Bolide

 
  
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