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Autore: Gatto Magro    26/05/2015    0 recensioni
Capitano. Grotta. Cera.
E tutto quello che avrò la malaugurata idea di scrivere, finché alla TV non fanno qualcosa di bello.
1. Ossequi, Capitano.
2. Ave Icarus.
3. All I wanna do is (bang-bang).
4. Sunday mo(u)rning.
5. Le Porte Spettrali.
6. Caro Bellamy,
7. I tuoi 23 anni, I miei 26 anni.
8. duemilasette – duemilatredici
9. Scritto sul muro con l'eyeliner.
10. "It's like being at Disneyland. On acid."
11. We go where we know. (RIPUBBLICATA "Ma le fragole hanno fatto la muffa.")
12. Come le patatine fritte (è sempre un buon momento per una torta al cioccolato).
13. Prima che fossimo come le patatine fritte: insanguinati sul pavimento. (A raccontarci bugie.)
14. Then the night fell on us.
15. The Queen is dead.
Genere: Angst, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Nonsense, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le vicende Ciglia Finte e altre cose di Superficie. '
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And our saints they’re drunk and howling at the moon.
 
- io urlo senza inflessioni e tu rispondi interferenze elettrostatiche -
 
 
E anche mentre parcheggio, che è un gesto stupido quotidiano noioso vacuo, lo sguardo automaticamente si allaccia alle tue scarpe dimenticate sul muretto, una sbilenca come se te la fossi scrollata senza più fregartene un cazzo mentre saltavi nel cielo.
Scalo le marce, mi cade la cenere morta della sigaretta sui pantaloni. Scopro che cosa mi sono messo stamattina soltanto quando la spolvero via dalle ginocchia, e intanto ti auguro celesti vesciche a costellare le tue passeggiate intergalattiche a piedi scalzi sulle orbite sassose di una Venere mai sognata da nessuno – puttane di lava fredda, lampioni di fotoni liquidi ti carezzano la nuca come le foglie di alberi elettrici; motel nelle giunture dei Gemelli, e tutte le lattine di Coca Cola mai centrate con un fucile a pallini galleggiano incerte sopra il loro bassoventre.
Ma io tutto questo lo penso solo per odiarti almeno un millesimo di quello che non ti ho mai detto.
E poi ritorno alle tue scarpe e ai brillantini iridescenti che si staccano ad ogni alito di vento, ogni segno che i passanti fanno con il dito. Guarda, le scarpe di una fata.
Certo. Certo. Se batti le mani con gli indici incrociati e chiudi gli occhi, si trasformano in libellule. In mani fantasma. In un pacco di lettere divorate dall’umidità, basta che ti concentri.
Le scarpe di un angelo.
Segni di un passaggio divino a buon mercato. L’angelo guarda la tua miseria sgranchendosi le dita intorpidite, poi se ne va: un intervento costa di più di una manciata di brillantini attaccati con la colla che fa i grumi.
La radio smette di funzionare nell’esatto momento in cui si accende, fra i miei pensieri, il pigro luccicare delle tue dannate scarpe, e penso che siate tu e le tue mani fredde e la musica interstellare che fa vorticare i pianeti.
Inciampa sulla probabilità di un nuovo universo di cominciare il suo turno di esistere e precipita di nuovo qui, ti prego.
 
 
 
 
 
 
I’m aiming right at you,
right at you,
right at you
 
 
 
Si chiama Maddalena e ho appeso la sua fotografia a tutti gli alberi spogli e irrigiditi dall’inverno. Le luride vetrine dei negozi chiusi ora hanno i suoi occhi e il suo modo di tenere il labbro superiore leggermente storto. Sui mattoni delle gallerie scarsamente illuminate e degli edifici fatiscenti ho dipinto Maddalena che legge un libro, piange, si inginocchia vicino allo scaffale dei dischi con quell’espressione indecisa che le spuntava intorno al naso quando non sapeva bene che emozione volesse provare.
 
Ogni tanto ci torno per contare i graffi del tempo e della pioggia sui contorni delle tue spalle da uccellino. Le persone hanno lasciato dei fiori sul marciapiede, i gambi marci fasciati nella carta stagnola e biglietti pieni di cuori e adesivi rosa, scritti in un corsivo largo e tremulo, sparsi fra i petali – io leggo da distante tutti quei ci manchi, pregheremo per te stanotte e vorrei prendere tutto a calci e trascinare il sangue verderosso dei fiori sull’asfalto con la suola delle scarpe, strappare i messaggi e le lacrime che nascondono le sfumature dei tuoi capelli dipinti e incidere con le unghie il mio nuovo numero di telefono sull’intonaco farinoso
          (perché continua a sparire, riassorbito nei muri o colato via insieme alla pioggia o cancellato dai cappotti delle persone che passano troppo vicine, senza attenzione
E mi ritrovo a rispondere a chiamate di qualcuno che finge di essere te, e non riesco più a mangiare).
 
 
 
 
 
 
Down in the valley where we used to live parted.             19:57
 
 
Avevamo lasciato i guanti da lavoro in una pila vicino agli scatoloni malandati, dentro cui, qualche ora prima, erano arrivate le aste dei microfoni e alcuni pacchetti di viti delle quali nessuno conosceva lo scopo.
Un presagio, un rito, un cerchio magico, avrei pensato più tardi.
Ma mentre mi arrotolavo le maniche della maglia sulle spalle e vi scoprivo la pelle d’oca, in realtà, non pensavo a niente; magari alla birra, al battito sempre più sordo del dolore fra le costole, sul fianco sinistro: a niente. Invece il giallo plastica sporco dei guanti poteva suggerire i tuoi occhi, in un qualche sistema di simboli volgari di cui non ti avrei mai resa parte, e le viti sarebbero servite a forzare gli spazi fra le mie ossa,
per accoglierti
per tenere tutte le mie parti insieme
quando te ne fossi andata.
Anche se è chiaro e mortalmente inevitabile che io sarei rimasto una forma insulsa e mostruosa, e mi sarei ripiegato nei miei organi ad ogni passo, incapace di reggermi in piedi e di tenere separate le dita, la fronte dalla terra.
Giocavamo a football e ridevamo come imbecilli nella sera fredda e bagnata. Se ci fossimo ammalati il concerto sarebbe saltato, ma in quel momento non esistevano più gli amplificatori ronzanti, la centralina elettrica degli anni ’60 e i soli tre microfoni funzionanti.
Eravamo le lingue gelide dell’erba su cui scivolavano le scarpe, soltanto finché il colore delle nuvole fosse stato più scuro di quello del cielo.
Non riesco a parlarne senza farlo sembrare il momento più bello e orribile della mia vita.
 
 
 
 
Softly in the evening dusk, a woman:


 
 
Sei comparsa alle mie spalle o forse sei sempre stata lì, ma me ne sono accorto soltanto dopo, quando ho seguito con gli occhi il perimetro del campo improvvisato perché il gioco era schizzato più avanto ed ero rimasto indietro, immobile, a cercare di scaldarmi le braccia.
E c’eri tu, che fumavi e avevi freddo in mezzo alla plastica senza colore e alle nostre felpe sudate. Il labbro superiore leggermente storto, il rossetto secco e sbavato. La maglietta bianca spiegazzata lasciava intravedere il reggiseno nero e gli anni di fame che portavi sotto.
Se avessi continuato a guardarti – e non era possibile, forse per un difetto di fabbrica, per questioni di ghiaccio bollente, ma la tua vista mi scottava le pupille e resistevo per pochi secondi – avrei visto, in trasparenza, sotto la tua maglietta bianca, che siamo stati compagni di scuola senza che me ne fossi mai reso conto: scene di corridoio frammentate dalla prospettiva, le risate più acute e stridenti, i capelli decolorati che non ricordavo se avevo avuto per davvero, o soltanto in qualche sogno scaduto./ E c’era quella mattina in cui ho iniziato ad ascoltare Threads e non sono riuscito a smontare dalla bici e frequentare le lezioni, ma ho fatto un giro del cortile in uno stato di trance per poi uscire dal cancello e andarmene; tu devi avermi visto dai finestrini dell’autobus./ Minty Casperfeld ti parla di me con in mano delle forbici e i gomiti appoggiati sopra un tavolo di noce, in una cucina che non ho mai visto, credo – Minty sorride come sempre e le brillano gli occhi, lei era la mia ragazza e tu eri la sua sorellina-sarai-per-sempre-il-mio-segreto, che ascoltava in silenzio e spariva in soffitta quando venivo invitato alle cene di famiglia./ Il 27 settembre premeva forte sulla cassa toracica; è il giorno in cui Minty Casperfeld mi aveva detto che in casa non c’era nessuno, e abbiamo fatto l’amore per la prima volta su uno dei due letti nella camera al primo piano. Non mi ricordavo che lei avesse messo su un disco, ma si diffondevano nel buio sottile le note indistinte di un pianoforte./ L’aula dove provavamoe le tue mani piccole contro la porta chiusa la facevano scricchiolare, non ci siamo mai preoccupati, facevamo attenzione ai suoni e non ai rumori, anche se anni dopo avrei riconosciuto quelli che facevi come se ci fosse sopra la tua firma, e ho torturato ogni strumento per riprodurli, mentre l’idea di un concept album che ti riportasse da me mi faceva impazzire un pezzo alla volta./
Invece non ho visto nulla, nessuna trasparenza, nessun ricordo impigliato al tuo ombelico.
L’ultima volta che mi sono voltato, eri terribilmente vicina. I tuoi stivali di pelle avevano bevuto le pozzanghere e inghiottito la parte di mondo che ci separava. Il resto, era il tuo braccio nudo e bianco teso verso di me, e le tue dita sulla mia bocca.
- Sangue, - hai detto in silenzio. – Stai perdendo un sacco di sangue.
 
 
 
 
Track 9.
“I would kill to be the cold tracing your body and shaking your bones.”                            26:23


 
 
 
E uno sfrigolio attraversava i piani dimensionali a partire dalle sue unghie rosicchiate. I suoi polpastrelli – quasi sulla mia bocca, ormai – intrisi dell’odore di sigarette fumate nervosamente, una dopo l’altra guardando le auto sfrecciare in una strada sbriciolata ed evanescente nella nebbia, ment
re i suoi polsi sottili profumavano appena di mandorle, prima di sparire nelle maniche slabbrate della maglia.
Le tue dita sulla mia pelle insanguinata come passi sull’erba irrigidita dal gelo. Respiravo a malapena, scricchiolando, in punta di piedi sul baratro oscuro dei tuoi occhi.
Dio, lei mi gelava il sangue nelle vene e mi faceva salire in gola il sapore di giorni che avevo lasciato andare, come foglie uguali e rinsecchite strappate dal vento e trascinate lontano, a bloccare i tombini di strade senza nome.
Nel momento in cui mi ha toccato,
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Avevamo i cuori rotti e i polmoni rattoppati per le troppe sigarette e le sciarpe che nessuno ci regalava mai. Ci siamo più o meno amati, con la gola esposta alla scure dell’inverno.”
 
Dovevano esserci le stelle e almeno due paia di galassie ad attendere che bruciassimo lievi.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Fine.
( Ma non proprio )
 
 
 
 
 
 
 
 

 
   
 
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