Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: AlsoSprachVelociraptor    28/05/2015    1 recensioni
!!!*ATTENZIONE!* STORIA RISCRITTA E RIPUBBLICATA SU QUESTO PROFILO. NON LEGGETE QUESTA!! LEGGETE LA NUOVA VERSIONE!! (QUESTA VERSIONE è DATATA ED è QUI SOLO PER RICORDO)
Anno 2016. Shizuka Higashikata, la bambina invisibile, è cresciuta e vive una vita tranquilla con i suoi genitori Josuke e Okuyasu nella cittadina di Morioh, e nulla sembra poter andare storto nella sua monotona e quasi noiosa esistenza. Ma quattro anni dopo la sconfitta di Padre Pucci un nuovo, antico pericolo torna a disturbare la quiete della stirpe dei Joestar e dell'intero mondo, portandoli all'altro capo della Terra, nella sperduta cittadina italiana di La Bassa. Tra vecchie conoscenze e nuovi alleati, toccherà proprio a Shizuka debellare la minaccia che incombe sull'umanità. O almeno così crede.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Shizuka rimase a guardare fuori dal finestrino, silenziosa e assente. Lo sguardo della ragazza divagava da edificio in edificio, casa in casa, le abitazioni sempre più rade man mano che l’auto si allontanava dal centro della città e dalla scuola da cui suo padre era venuta a prenderla in fretta e furia.
Rimaneva immobile e in silenzio, ad osservare il paesaggio buio e quasi tetro di Morioh quel giorno. Era un febbraio buio e piovigginoso, e il 2016 era iniziato proprio con un temporale. Non si preannunciava nulla di buono per quell’anno.
Persa nei suoi pensieri, Shizuka non si accorse di nulla di ciò che le accadeva attorno, attenta a osservare le goccioline di pioggia scivolare lungo l’ampio finestrino del suv di suo padre.
-Shizuka, mi stai ascoltando? È importante!-
La voce roca e graffiante di suo padre la fece sobbalzare, dovendo tornare alla realtà della situazione. Si voltò e lo guardò di sottecchi, osservando quanto teso fosse. I lunghi capelli neri e argentati erano legati in una coda bassa e spettinata, e qualche ribelle capello nero gli ricadeva sulle spesse lenti sporche e appannate dei suoi occhiali. Indossava una leggera polo azzurro sbiadito, sgualcita e evidentemente vecchia, e Shizuka arrivò alla conclusione che aveva dovuto prepararsi al momento, quando ricevette la telefonata dalla professoressa di letteratura quella mattina. Maledetta spiona, la pagherà, pensò la ragazza mora, scostandosi la frangia dagli occhi. Se solo quella maledetta professoressa fosse rimasta al suo posto, se non l’avesse cercata dopo aver trovato il bullo della scuola svenuto ai piedi della scalinata d’ingresso, sicuramente non sarebbe in quella situazione. Di certo non era nei guai, non con suo padre Okuyasu. Era un bonaccione, lo sapeva benissimo, non era particolarmente pericoloso.
-Sì pa’…- sussurrò lei, cercando di sembrare il più dispiaciuta possibile. Era facile giocare con Okuyasu, fargli credere che fosse davvero dispiaciuta per quel compagno di classe con la lingua un po’ troppo tagliente per i suoi gusti. Se l’era meritato di cadere dalle scale, o meglio, di essere spinto giù da esso da una forza invisibile. Nessuna prova a suo favore, credeva Shizuka. Ma quella professoressa aveva, in qualche modo, capito che era stata lei a far cadere quel ragazzo giù dalle scale. Probabilmente dopo aver visto in che modo lui l’aveva aggredita, con che modi si era espresso verso la famiglia della ragazza, o forse per lo sguardo pieno di rancore, odio e voglia di vendetta Shizuka ricambiò le sue prese in giro. Ma Shizuka non poteva farci nulla, è nel suo DNA. Colpa dei caratteracci dei suoi genitori.
Gli occhi grigi della ragazza tornarono a posarsi sul padre, e il suo sguardo pieno di determinazione fisso sul parabrezza. I tergicristalli si muovevano lentamente, in un moto quasi ipnotico, aprendosi sul cielo cupo e umido di Morioh, coperta da pesanti nubi.
-Quante volte te l’abbiamo detto? Usare il tuo stand in questo modo stupido e irresponsabile è pericoloso!-
Parla quello che usa The Hand per prendere le scatole sulle mensole più alte, pensò Shizuka, annoiata dal suo discorso, mentre si appoggiava con la fronte al freddo vetro del finestrino. Già non ne poteva più del suo inutile discorsone. Quante volte aveva tentato di farla ragionare, e quante volte aveva fallito? A Okuyasu non importava davvero, infondo. Non lo faceva per ripicca o per sgridarla, non voleva far star male sua figlia. Al contrario, voleva solo il bene per lei. E se il bene era urlarle un po’ contro, che ben venga.
Ma ovviamente lei non lo ascoltava. Non lo ascoltava mai, le sue parole le entravano in un orecchio e le uscivano dall’altro, senza recepire nulla. Era una testona, chissà da chi l’aveva preso?
Okuyasu sospirò pesantemente, un po’ deluso, e abbassò le spalle contratte fino a pochi istanti prima, cercando di calmarsi. Era davvero inutile innervosirsi.
-Shizu… lo sai che se io... se noi ti diciamo queste cose, è perché ti vogliamo bene. Saranno stronzate pallose, lo ammetto, ma ti prego, ti supplico, ascoltaci…-
-Non dirlo a papà.- fu l’unica risposta che ricevette. Più che scontata. Okuyasu si lasciò scappare un mezzo sorriso e allungò una mano verso di lei, posandogliela sulla testa e accarezzandole lentamente i capelli, più sollevato di prima.
-Questa volta non dirò nulla a JoJo, promesso. Però devi promettermi che non lo farai più!-
Sua figlia annuì lentamente e tenne la testa bassa, stringendosi tra le mani la gonnellina blu dell’uniforme scolastica. Okuyasu continuò il suo discorso, sperando che, almeno ora, sua figlia lo ascoltasse.
-Non importa cosa dicano riguardo me e Jojo, va bene? Non rischiare per noi due. Siamo uomini adulti e sappiamo come difenderci, guarda che muscoli! Dai! Tocca!-
Okuyasu tolse la mano dai capelli della figlioletta e flesse il braccio, facendo gonfiare ancora di più il grosso bicipite, la pelle scura che copriva a malapena i muscoli che fremevano e le vene che pulsavano. Shizuka negò ma suo padre insistette, e lei, come ogni volta, fu costretta a tastare con le sue dita sottili e pallide il muscoli del braccio di Okuyasu, che ridacchiò soddisfatto.
La ragazza tornò a sedersi per bene sul proprio sedile e accavallò le gambe, chiudendosi un po’ su sé stessa e incrociando anche le braccia al petto, ancora un po’ scossa. Aveva ragione, non doveva affatto difenderli. Tra lui e il suo altro padre, Josuke, non sapeva davvero quale fosse il più pericoloso. Josuke era pur sempre due metri e un quintale di dottore burbero e permaloso, ma Okuyasu era molto prono alla violenza e alle strane tecniche “di strada”, come le chiamava lui. Con quelle braccia da far invidia a un culturista, poi, ricevere un pugno da lui doveva essere un’esperienza traumatica. Anche se Okuyasu era tutt’altro che spaventoso o pericoloso.
Benchè entrambi fossero grandi, grossi e spaventosi, le critiche e le prese in giro arrivavano comunque. Sibili tra la folla, sguardi indiscreti, versi disgustati. I suoi genitori non meritavano nulla di ciò, la loro vita era già difficile di suo, senza aggiungerci bigotti e omofobi. Trentatreenni sposati ormai da nove anni, con una figlia adolescente e altri mille problemi. Ragazzini problematici cresciuti alla svelta, diventati adulti forse troppo presto, e in un senso mai davvero cresciuti. E sentirsi ripetere a scuola, in autobus, per strada tutte quelle offese, quelle discriminazioni inutili, quegli sguardi carichi di compassione, Shizuka non lo sopportava. La sua invisibilità l’aiutava parecchio a sfogare quella sua vena di vendetta, che nessuno avrebbe mai detto possedesse. Una ragazzina così all’apparenza mite e tranquilla, un metro e cinquanta di bambina dalle paffute guance pallide e grandi occhi neri e tuttavia freddi e cupi, irraggiungibili e tremendamente lontani.
La station wagon di Okuyasu si arrestò nel vialetto laterale all’enorme residenza della famiglia Higashikata. Le candide pareti della gigantesca villa bianca e blu cozzavano contro il cielo nero su cui si stagliava, e Shizuka rimase ad osservare la sua abitazione oltre al parabrezza ricoperto di acqua piovana. La sua portiera si aprì e Okuyasu le porse una mano, mentre con l’altra reggeva le varie buste della spesa e un ampio ombrello. La ragazza prese la sua mano e scese dall’auto, chiudendosi la portella alle spalle e seguendo il padre, evitando le pozzanghere sul vialetto che conduceva all’entrata posteriore della casa. L’ampio giardino sul retro era quasi del tutto allagato, e i salici e i peschi che contornavano il giardino sembravano quasi piangere, gocciolando continuamente, i rami e le foglie scosse a ripetizione dalle fitte gocce d’acqua che cadevano su essi.
-Che tempo del cazzo- borbottò Okuyasu, stringendo la mano della figlia. –È quasi marzo e fa ancora freddo. Il pesco dovrebbe essere già fiorito, e invece ancora niente!-
Shizuka annuì lentamente mentre rimaneva ad osservare il giardinetto verde smeraldo ricoperto da un manto d’acqua gelida, a renderlo ancora più brillante tra la coltre buia sulla città intera.
Seguì suo padre e si tolse subito le scarpette fradice all’entrata, aggrappandosi poi all’ampia spalla di Okuyasu, spingendosi sulle punte dei piedi per osservare il salotto con discrezione oltre la spalla del padre. Sul divano non c’era nessuno. La televisione era spenta, la Playstation scollegata.
Benchè avesse quasi 18 anni, Shizuka non superava nemmeno il metro e cinquanta, a confronto dei cento e ottantuno centimetri d’altezza di Okuyasu e i quasi due metri di Josuke. Si sentiva parecchio a disagio tra quei due giganti, ma non poteva davvero farci niente: nemmeno i tacchi contavano a diminuire il vertiginoso distacco d’altezze tra lei e i suoi due giganteschi padri.
Shizuka tirò un forte sospiro e scese dalle punte, rimanendo con la fronte appoggiata contro la spalla di Okuyasu, nascosta dietro alla sua schiena, ancora parecchio guardinga e all’erta, nel caso dovesse saltare fuori Josuke. Magari era in cucina, a bersi uno dei suoi soliti caffè extraforti, magari era in garage a lucidare la sua Lamborghini, Shizuka non poteva saperlo. Ma se l’avesse vista a casa prima della fine delle lezioni scolastiche, sarebbe stato davvero un guaio.
-Shizu, oggi è venerdì.- la schernì Okuyasu, voltandosi e afferrandole una guancia tra le dita, scoppiando a ridere. –Jojo ha il turno fino alle sette di sera, il venerdì. Te lo sei scordata?-
Shizuka si tirò indietro con un gridolino e abbandonò la cartella fradicia ai piedi della scala, salendo i gradini con fastidio. L’aveva fatta franca, forse.
Passò il resto della giornata in camera sua, a chattare con le poche amiche riguardo al fatto di quella mattinata. Non sospettavano nulla, Rin e Sachiyo. Degli stand, di Achtung Baby, dell’invisibilità e soprattutto dell’orribile caratteraccio di Shizuka. Il fratello di Sachiyo Kawajiri, Hayato, era spesso in contatto con i genitori di Shizuka, e, a quanto aveva origliato grazie al potere dell’invisibilità del suo Stand, faceva parte dell’organizzazione Speedwagon. Molto strano, dato che né lui, né Sachiyo né la loro madre avevano poteri Stand. Shizuka cercava di non pensare a quei segreti che si aggiravano nella sua Morioh.
Verso le cinque del pomeriggio, stanca di scorrere la sua bacheca di Facebook piena di post dei suoi compagni di classe e dei selfie di suo padre Josuke, scese le scale e si tuffò sul divano. Afferrò il proprio joystick, modificato apposta per lei, e accese la console. Era figlia di un dottore famoso, poteva permettersi di tutto. E un joystick con fantasia militare lilla da oltre ottomila yen erano bazzecole, per la famiglia Higashikata. Il tempo le sfuggì di mano, come ogni volta che si perdeva a giocare ai suoi videogiochi di guerra sparatutto, e la porta principale si aprì sull’ampio salotto, lasciando alla fredda corrente di entrare in casa e gelarle la schiena. Shizuka si voltò irritata verso la porta d’ingresso, la pioggia talmente scrosciante da coprire i suoni dei carri armati che sparavano. Le si gelò il sangue nelle vene quando realizzò che erano ormai le sette di sera, e l’enorme figura di Josuke Higashikata passò l’uscio, quasi buttandosi dentro casa. Era stretto nel suo chiodo di pelle, i corti capelli castani tutti scompigliati e arruffati sulla fronte umida, corrugata in un’espressione infastidita. Con un forte sospiro scalciò la porta dietro di sé e si sfilò di violenza la giacca, rimanendo con una delle sue solite magliette a fantasie sgargianti, a maniche corte e aderenti. Corse su per le scale tutto infreddolito e scappò in bagno a farsi una bella doccia calda, senza salutare nessuno. Okuyasu si sporse dalla porta della cucina, e riuscì a malapena a vedere l’ombra del marito correre su per le scale, bofonchiando un mezzo saluto.
Shizuka cercò di mantenere la calma e tornò a giocare al suo videogioco preferito, montando su un Apache e iniziando a sganciare bombe a caso sull’esercito nemico, cercando così di sfogare l’ansia. L’aveva combinata grossa, quella mattinata, e se l’avesse scoperto Josuke sarebbe stato un enorme guaio. Tra i due, Josuke era sicuramente il genitore col pugno di ferro. Oltre al suo caratteraccio perennemente nervoso e ansioso, l’essere tanto introverso e ipocrita da passare la soglia dell’insopportabilità, era anche parecchio protettivo. Più che protettivo, Shizuka oserebbe definirlo possessivo. La mania del controllo era sempre stata un suo pallino, le raccontò Okuyasu.
Quasi mezz’ora dopo Josuke scese le scale, questa volta con più calma, e si appoggiò allo stipite della porta della cucina, respirando a pieni polmoni l’aria calda proveniente dal forno.
-Hey Oku- lo salutò. L’altro uomo si voltò appena verso di lui e gli accennò un sorriso felice, scuotendo appena la mano che reggeva la grossa pentola in cui stava mescolando la cena. –Ciao! Tutto bene all’ospedale?-
Josuke annuì per nulla convinto e socchiuse gli occhi, ben poco interessato, tirandosi all’indietro i selvaggi riccioli bruni che continuavano a cascargli sulla fronte. –Come al solito. Che fai stasera?-
-Pollo al curry e riso. Ti piace, no?-
-Lo adoro, lo sai- ridacchiò Josuke, allontanandosi dalla cucina. Arrivò alle spalle di Shizuka, sperando che lei non si accorgesse del suo arrivo, e spuntò urlando dal retro del divano, sbattendole le mani sulle spalle e urlando. Shizuka lanciò in aria il joystick e diventò completamente invisibile, saltando sul divano per lo spavento e cadendo a terra, sbattendo col sedere proprio sul controller. Josuke non poteva vedere la scena, ma ciò non lo trattenne dallo scoppiare a ridere e crollare sul divano, sghignazzando talmente forte da non riuscire nemmeno a respirare.
-Sei un cretino!- gridò Shizuka tornando visibile, paonazza in viso per lo spavento e l’imbarazzo, lanciandogli il joystick. Okuyasu, sentito il gran trambusto, si sporse dalla porta della cucina, rimanendo ad osservare il divano in salotto. –Tutto bene?- gridò per farsi sentire, tra le urla di sua figlia e le risate di suo marito. Nessuno lo sentì e non risposero. Voleva dire che era tutto a posto. Alzò le spalle e tornò a mescolare il riso, impaziente di vedere la sua cenetta pronta, sentendosi già lo stomaco brontolare.
Josuke fece il giro del divano e si abbandonò sopra esso, allungando una mano verso la figlia. Shizuka prese il controller rosa glitter del padre e glielo sbatté in mano, sedendosi al suo fianco con un’espressione offesa.
-Ancora coi giochi di guerra, Shizu?- sbuffò Josuke, cercando di muovere il proprio soldato sul campo di battaglia già martoriato dalla figlia. –Lo sai che mi piacciono- lo fulminò lei.
-Tutti uguali, voi Nijimura…- sussurrò Josuke, annoiato, evitando gli sguardi interrogativi di Shizuka.
Lei non rispose e si limitò a continuare a giocare, tentando in tutti i modi di ostacolare il padre, piazzandogli addirittura una mina sotto ai piedi. Josuke rimase a guardare il proprio soldato esplodere con uno sguardo strano, voltandosi subito ad osservarla. –Shizu, com’è andata oggi a scuola?-
Lei non rispose. Alzò le spalle e provò a dissimulare tranquillità, che però non convinse Josuke. Si alzò di scatto e mise in pausa la PS4, causando un gridolino da parte di Shizuka. Lui le si parò davanti e gonfiò il petto, quasi a sembrare ancora più grosso e imponente di quanto già non fosse, incrociando le braccia al petto e picchiettando le dita sul braccio sinistro, completamente tatuato. Shizuka tentò di inventarsi una bugia ma fu fulminata dai taglienti occhi azzurri di suo padre, che sembravano volerla fare a pezzettini. Shizuka si schiacciò istintivamente contro lo schienale del divano e divenne quasi trasparente, mentre Josuke si piegava su di lei, iniziando l’interrogatorio. Prima che potesse aprire bocca, però, fu interrotto dal tempestivo e probabilmente nemmeno conscio intervento di Okuyasu, che annunciò a pieni polmoni dalla cucina che la cena era finalmente pronta. Shizuka colse l’occasione al volo e sgusciò via dal divano, correndo più velocemente che poteva in cucina, arrampicandosi sulla propria sedia di fronte al posto di suo padre Okuyasu, in piedi a distribuire le porzioni di riso e pollo nei loro piatti. Shizuka afferrò le bacchette e le strinse nel pugno, decisamente irritata da tali oggetti, sbattendole un paio di volte nel riso e gracchiando poi al padre, quasi gettandole via. Era cresciuta negli Stati Uniti da inglesi, e non era molto aperta alle tradizioni giapponesi, per qualche motivo, anche se ormai abitava a Morioh da quasi dieci anni. –Non mi piacciono! Dammi la forchetta!!-
Okuyasu, in evidente difficoltà, corse verso la credenza e afferrò una forchetta, tornando più velocemente che poteva dalla figlia mentre reggeva ancora la grossa pentola con l’altro braccio, che quasi gli si rovesciò addosso. Josuke arrivò poco dopo, ciabattando stancamente fino alla tavola imbandita, lasciandosi cadere sulla sua grossa sedia a capotavola, i gomiti piantati nella tovaglia e gli occhi gelidi puntati su un punto imprecisato della cucina, in uno strano silenzio. Gli venne versata la sua razione abbondante di riso e pollo al curry e a malapena fece un cenno del capo di consenso. Okuyasu si allontanò tristemente e si sedette sulla propria sedia, fiondandosi sul suo piatto, con la sua solita foga nel mangiare.
-Oku.- lo risvegliò Josuke dal suo quasi stato di ipnosi da cibo, con una mano sul braccio che lo scuoteva piano. Okuyasu si voltò verso il marito con uno sguardo un po’ accigliato e il viso ricoperto di chicchi di riso e salsa al curry, persino sulle lenti dei suoi spessi occhiali. –Shizuka. Cos’ha combinato questa volta?-
La ragazzina mora si lasciò cadere la propria forchetta nel piatto, col panico negli occhi. Pregò in tutte le lingue che conosceva che il padre non rivelasse tutto il misfatto di quella mattinata, iniziando a sudare freddo e a temere davvero per la sua pelle. Okuyasu fece per rispondere ma venne bloccato da un pronto calcio sullo stinco da sotto il tavolo, da parte dell’infuriata Shizuka. Okuyasu le sorrise debolmente e si voltò di nuovo verso al marito, rivolgendogli un sorrisone a tutti denti, coi chicchi di riso che cadevano sulla tovaglia e le guance tutte gonfie. –Ho la bocca piena!- disse, sputacchiandogli addosso qualche chicco. –Non posso rispondere…-
Josuke non cascò di certo in quella baggianata e rimase ad osservarlo con gli occhi rivolti a due fessure turchesi cariche d’odio, mentre Okuyasu, tutto soddisfatto e fiero del proprio operato, fece un plateale occhiolino alla figlia. Shizuka, che aveva esultato forse troppo presto, vide il proprio castello di carte crollarle davanti quando Okuyasu le fece occhiolino e gesto di vittoria e, ovviamente, Josuke lo vide. Roteò gli occhi e affondò le bacchette di bambù nel riso, borbottando sottovoce, più nervoso del solito.
Per qualche minuto nessuno osò proferire parola. Tutti e tre erano zitti, intenti a mangiare la deliziosa cenetta preparata da Okuyasu. In pochi minuti spazzolò via il proprio piatto, colmo fino all’orlo, e prese il bis e anche il tris. Shizuka, con la sua forchetta tanto adorata, riuscì a mangiare metà dei pezzetti di pollo affogati nel sugo al curry.
-Non lo mangi?- disse Okuyasu, affondando le proprie bacchette nel riso accantonato da parte della figlia. Shizuka negò con convinzione e Okuyasu raccattò anche quello, mangiandolo con foga. Josuke però non mangiò nemmeno un boccone. Si limitava a fissare il riso con sguardo spento, girando una bacchetta nel riso, sovrappensiero. La pesante mano del marito sulla sua spalla lo fecero rinvenire, facendolo girare di scatto nella sua direzione. –Ehi, sei più strano del solito… qualcosa non va?- sussurrò Okuyasu, decisamente preoccupato. Josuke evitò il suo sguardo e alzò le spalle con veemenza, borbottando sottovoce. –È che oggi… a lavoro, Koichi mi ha riferito una cosa…-
Shizuka alzò lo sguardo a sua volta sul padre, stranita. –Una cosa importante?- cercò di spronarlo Okuyasu, massaggiandogli con estrema lentezza la spalla, nel vano tentativo di calmare i suoi nervi perennemente tesi. Josuke annuì. –Jotaro gli ha telefonato- bofonchiò, estremamente preoccupato. -…sarà a Morioh il venti, accompagnato anche… da tutti gli altri Joestar, sai.-
La presa di Okuyasu sulla spalla di Josuke divenne ferrea, mentre si voltava ad osservare il calendario.
-Ma è domani!- gridò quasi disperato, fissando Josuke con uno sguardo terrorizzato. Josuke annuì e abbassò la testa, tentando di scrollarsi la mano del marito dalla spalla. Okuyasu afferrò entrambe le spalle del compagno e lo scosse con insistenza, guardandolo fisso negli occhi. –Jojo, cazzo, Jotaro è tuo parente. Non di Koichi. Perché ti fai trattare così da lui!?- gli gridò Okuyasu, fuori di sé dalla rabbia. –È la tua famiglia, Josuke!-
Josuke passò i suoi occhi azzurro ghiaccio sui suoi castani, folgorandolo con un’espressione di puro odio e fastidio. –Lo sai che mi odiano. Sono solo uno sbaglio.- gli sibilò contro, con fare infastidito.
A vedere i propri genitori fare così, Shizuka si strinse nelle spalle e divenne traslucida, come ogni volta che litigavano e si gridavano contro. Purtroppo i suoi due padri erano teste calde, ed era parecchio facile che le loro testacce dure cozzassero l’una contro l’altra. Di solito, però, il più duro era Josuke. Okuyasu abbassò lo sguardo e gli diede la schiena, facendo il giro della tavola e inginocchiandosi di fianco alla sedia di Shizuka, cercando di rincuorarla a bacetti sulla fronte e carezze sulle guance. La ragazzina tornò visibile e lo abbracciò con forza, sentendosi decisamente meglio stretta tra le forti braccia del padre, mentre Josuke continuava a fissare un punto imprecisato della stanza, con sguardo vacuo e vuoto e un grande, pesante senso di impotenza nel petto.
Jotaro li stava cercando, non era un buon segno.
 
 
 
We can't fall any further if
we can't feel ordinary love
and we cannot reach any higher
if we can't deal with ordinary love.
Ordinary Love, U2 (2013)
   
 
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