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Autore: _Kurai_    31/05/2015    1 recensioni
Non riusciva a togliersi quell'immagine dalla testa. Per quanto cercasse di non pensarci, la sua mente continuava a tornare a quel momento come un loop infinito.
Fissava il soffitto della stanza assurdamente vuota, ostinato a non guardare a nessun costo il letto accanto al suo.
Yukinari non sarebbe tornato, doveva accettarlo.
Nonostante ciò, sobbalzava ad ogni rumore in corridoio, aspettandosi da un momento all'altro che il suo compagno di stanza nonchè assist spalancasse la porta, salutandolo con quel suo sorriso un po' simile a un ghigno e ravviandosi indietro i ciuffi argentati che gli ricadevano sul viso.
[Ashikiba Takuto, Kuroda Yukinari][Spoiler][Character Death]
Genere: Angst, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Rieccomi con questa oneshot nata in un paio di nottate, che si concentra su una coppia che solo quelli che sono andati oltre con il manga conosceranno, ma che sto imparando ad amare tanto tanto... Ho dato sfogo alla mia peggiore vena angst/drammatica in questa storia, quindi non vi biasimerò se ce l'avrete con me alla fine XD

Buona lettura!

 

Black Cat

dedicata a Elisa, best Taku-chan ever


Non riusciva a togliersi quell'immagine dalla testa. Per quanto cercasse di non pensarci, la sua mente continuava a tornare a quel momento come un loop infinito.

Fissava il soffitto della stanza assurdamente vuota, ostinato a non guardare a nessun costo il letto accanto al suo.

Yukinari non sarebbe tornato, doveva accettarlo.

Nonostante ciò, sobbalzava ad ogni rumore in corridoio, aspettandosi da un momento all'altro che il suo compagno di stanza nonchè assist spalancasse la porta, salutandolo con quel suo sorriso un po' simile a un ghigno e ravviandosi indietro i ciuffi argentati che gli ricadevano sul viso.

Takuto non sapeva più da quanti giorni fosse chiuso in quella stanza, nel dormitorio dell'Hakone Gakuen. Potevano essere 12 ore come una settimana, non gli importava più dello scorrere del tempo, scandito solo dal rumore delle nocche dei suoi compagni di team contro il legno della porta, che si faceva sentire sempre meno spesso, man mano che uno ad uno si arrendevano a cercare di farlo uscire da lì.

Sapeva essere ostinato.

L'unico a non essersi ancora arreso era il capitano Izumida, che probabilmente -visto che non l'aveva sentito allontanarsi- doveva essere ancora seduto lì fuori. Fuori da quella barriera in legno e metallo che separava il suo dramma da quello di Ashikiba, perso in un silenzio denso di mille parole ma comunque deciso a tirare fuori l'ace dell'Hakogaku da quella stanza.

Takuto si sentiva ancora più colpevole, sentendo il respiro pesante del capitano al di là della porta. In fondo Touichiro conosceva Yuki da molto più tempo di lui, avrebbe avuto tutto il diritto di chiudersi in camera al suo posto, di essere inconsolabile e di rifiutare il contatto con l'esterno, come stava facendo lui. Invece si preoccupava, si preoccupava per Ashikiba, che sentiva di non meritarlo.

Era tutto così complicato.

Sentiva un bisogno fortissimo di suonare il suo pianoforte, un bisogno che gli faceva quasi male. Poi pensò che ne sarebbe uscita una melodia talmente triste che avrebbe finito per rimettersi a piangere, e non voleva. I suoi occhi rossi e gonfi in ogni caso non avrebbero lasciato uscire altre lacrime, e non voleva più sentire la voce di Kuroda nella sua testa che lo prendeva in giro per la sua debolezza, perchè poi si girava di nuovo illudendosi di trovarselo accanto.

L'ultima volta che aveva pianto in sua presenza risaliva a poco tempo prima, quando avevano trovato un uccellino caduto dal nido, non lontano dalla scuola, durante uno dei loro giri di allenamento. Takuto si era inginocchiato e si era tolto il caschetto, mettendoci dentro il piccolo corpicino come una culla di fortuna, per controllare che stesse bene; Yuki l'aveva aiutato a cercare il nido e poi era salito sulle sue spalle per riportarlo dai suoi cinguettanti fratellini, ma una volta risolta positivamente la piccola avventura Ashikiba era scoppiato a piangere, senza motivo apparente. Kuroda gli aveva lanciato un fazzoletto di carta, scherzando sui suoi lacrimoni che facevano sembrare un bambino troppo cresciuto il suo compagno di team alto più di due metri.

Gli mancava, e tanto anche.

Gli mancavano le sue battute che non capiva mai, i botta e risposta che dopo un po' annoiavano tutti gli altri, le lunghe chiacchierate sfogliando insieme riviste sul ciclismo.

 

Avrebbero dovuto rimanere in palestra a pedalare sui rulli, quel giorno.

Sapevano che minacciava pioggia, ma Yukinari aveva comunque insistito per andare a pedalare insieme fuori dalla scuola, per prepararsi sul percorso reale di una corsa imminente, un piccolo evento di prefettura che li vedeva già come il team favorito. Takuto avrebbe potuto dirgli di no, ma non lo aveva fatto. Gli piaceva troppo pedalare insieme solo loro due, era una sensazione più intensa e diversa di quando pedalava insieme a Junta, anni e anni prima... che rischio poteva mai esserci per una pioggerellina di fine estate, in fondo?

Nessuno, finchè sulla via del ritorno la pioggerellina non era diventata un temporale, e per evitare un'auto che aveva sbandato invadendo la loro corsia dopo una frenata sul bagnato Kuroda aveva perso il controllo, cadendo oltre il guard rail.

Takuto aveva vissuto momenti di puro terrore, e dopo essersi catapultato dall'altra parte aveva trovato Yukinari un po' ammaccato ma cosciente; l'assist gli aveva detto di tornare al club a chiamare gli altri, perchè il suo cellulare si era rotto nella caduta e prevedibilmente quello di Ashikiba era disperso chissà dove a causa della sua solita sbadataggine... erano pochi chilometri, e lui sarebbe stato bene. L'ace aveva insistito per restare, ma alla fine chissà come si era lasciato convincere.

La sua mente era tutto un rincorrersi di “avrei potuto” e “avrei dovuto”, un susseguirsi di ondate di rimorso che quasi lo annientavano.

Non era passato un quarto d'ora quando era tornato con il capitano e Manami, che per prudenza avevano lasciato i primini al club con il compito di chiamare un'ambulanza.

Al loro arrivo, Yuki aveva gli occhi chiusi e non si muoveva.

 

Era già calata l'ennesima sera dopo quel giorno, quando sentì un sospiro dall'altra parte della porta e i passi del capitano che si allontanavano, strascicando un po' sul pavimento. Il letto di Yuki era sempre vuoto.

E il cielo del crepuscolo divenne in fretta blu scuro, punteggiato di piccole stelle fredde.

Takuto si alzò stancamente dal letto, avvicinandosi alla finestra. Due stelle erano cadute giù, sul prato del cortile sul retro della scuola. E lo fissavano.

Ci mise un po' a capire che erano occhi. Occhi gialli, luminosi come di luce propria, immobili e fissi nei suoi.

Un impulso irrefrenabile lo spinse a uscire finalmente dalla stanza, nel corridoio vuoto e semibuio verso la porta del dormitorio che dava sul cortile. Il gatto, nero come la notte, era ancora lì, come se stesse aspettando proprio lui, ancora sotto la sua finestra. Si inginocchiò accanto all'animale selvatico, che si fece accarezzare senza fuggire, strusciandosi contro la sua gamba e facendogli il solletico con la coda. Affondare le mani nel pelo morbido della creatura gli diede per un attimo l'impressione che non fosse successo nulla, che non fosse cambiato nulla nella sua vita. Rimase lì per un bel po', finchè non sentì un rumore nel cortile e decise di tornare in stanza, temendo fosse la guardia notturna che avrebbe potuto rimproverarlo per quell'uscita fuori orario; salutò il micio con un'ultima grattatina tra le orecchie, per poi sussurrare “Oyasumi, Kuro-chan.”

 

Rientrò in camera nel silenzio, ancora con la sensazione del pelo morbido sotto le dita. Avrebbe provato a dormire un po', anche se di sicuro sarebbe stato svegliato di nuovo dagli incubi di quel giorno. Non si accorse che quattro zampine felpate avevano ricalcato i suoi passi, seguendolo furtivamente e silenziosamente nel dormitorio, prima che chiudesse la porta. Mancavano pochi minuti alla mezzanotte.

 

Ashikiba Takuto non aveva mai provato la sensazione di avere i piedi coperti nel sonno. Tutti i letti erano troppo corti per lui, tutte le coperte sembravano quelle di un lettino per bambole per una persona delle sue dimensioni. La finestra era rimasta socchiusa, e una fredda brezza settembrina gli strappò un piccolo brivido, ma non aveva nessuna voglia di alzarsi per chiuderla. Sospirò.

Aveva quasi preso sonno quando sentì la finestra chiudersi e una sensazione di tepore in corrispondenza degli arti inferiori. Aprì gli occhi, individuando subito una sagoma stagliata tra il letto e la finestra, in controluce.

 

“Dovresti prenderti più cura di te stesso, Taku-chan.” un sussurro, proveniente da quella sagoma così familiare, e quel nomignolo che solo lui usava ogni tanto. Takuto stava sicuramente sognando.

La luna in quell'istante si affacciò da dietro una nuvola, illuminando il viso della persona nella stanza: i tratti di Yukinari e il suo sguardo azzurro erano inconfondibili.

Non era reale? Non gli importava. Pensò di tirarsi un pizzicotto, ma non era sicuro di volersi accertare di essere sveglio.

“Kuro-chan io... Io non volevo che--” iniziò Ashikiba, ritrovandosi già con la voce rotta e i lacrimoni che minacciavano di scendere dai grandi occhi color ametista.

“Non è niente, Taku-chan, non è niente. Sono qui adesso, anche se potrò rimanere solo con il buio” Kuroda fece per avvicinarsi un polso alle labbra, in un gesto tipicamente felino, ma cambiò idea a mezz'aria, sempre con gli occhi fissi nei pozzi viola di Takuto.

"Non è colpa tua, Taku-chan."

Niente da fare, ormai le lacrime scendevano rapide sul viso di Ashikiba, come a ingaggiare una gara una contro l'altra, fino ad esaurirsi sul cuscino. Kuroda sospirò, rassegnato, per poi avvicinarsi all'amico che nel frattempo si era messo a sedere sul letto, con la faccia nascosta tra le grandi mani dalle dita affusolate, per nascondere le sue lacrime incontrollabili.

Yukinari si sedette accanto a lui, per poi circondare le sue spalle con un braccio.

Era tangibile, era concreto.

I singhiozzi di Takuto si interruppero di colpo, per poi riprendere con il viso nascosto nell'incavo della spalla del climber, in un abbraccio disperato. Yuki sospirò di nuovo, lasciandosi scappare un mezzo sorriso malinconico. Aspettò che l'ace finisse di piangere, senza fretta nonostante le sue ore fossero contate. Quando Ashikiba sollevò lo sguardo, Kuroda gli scompigliò i capelli con una mano, con quel suo fare da senpai nonostante avessero la stessa età.

Parlarono a lungo, per ore, nel silenzio della stanza. Yukinari aveva deciso di ritornare per lui, e gli era stato concesso di ottenere quella forma a causa del rimpianto di essersene andato così, che l'aveva tenuto legato a doppio filo a quell'ultimo ricordo.

Nessun altro avrebbe potuto rivederlo in forma umana né venire a conoscenza della sua trasformazione, eccetto Takuto, e solo da mezzanotte all'alba. Questi erano i patti.

Parlarono a lungo, e finirono per addormentarsi entrambi, uno accanto all'altro. Una sola piccola lacrima riluceva ancora tra le ciglia lunghe di Ashikiba, ma gli angoli delle sue labbra erano inclinati in un piccolo sorriso.

 

All'improvviso, alle prime luci del mattino, Kuroda scomparve, così com'era apparso dal nulla. E al suo posto riapparve una piccola palla di pelo nero raggomitolata sul cuscino, con una zampina tesa come a dare una carezza.

 

 

Era passato un mese, giorno più giorno meno.

Bisognava andare avanti, nonostante tutto.

Ashikiba alla fine era uscito dalla sua stanza, aveva ripreso ad andare a lezione e da poco aveva ripreso a frequentare gli allenamenti con gli altri, anche se si limitava a pedalare sui rulli per ore con interminabili compilation di musica classica in riproduzione continua sull'Ipod. Era cambiato qualcosa in lui, qualcosa era scattato per sbloccare il suo isolamento autodistruttivo, e i suoi compagni avevano individuato la causa di quel cambiamento in una piccola e discreta creatura che lo seguiva ovunque andasse, nonostante i richiami continui del comitato disciplinare dell'Hakone Gakuen.

Durante gli allenamenti il gatto sedeva in un angolo della palestra, di fianco al supporto con la Kuota di Kuroda coperta già da uno strato impalpabile di polvere, e osservava immobile per ore, finchè tutti finivano per dimenticarsi della sua presenza.

A fine allenamento sembrava riaccendersi, e seguiva Takuto docile e attento, come un angelo custode.

Ogni notte Ashikiba aspettava lo scoccare della mezzanotte, per poterlo rivedere e per addormentarsi con il suono della sua voce e il calore del suo corpo accanto al suo.

Ancora non aveva nessuna intenzione di uscire dalla palestra per tornare a pedalare in strada, e nonostante la vicinanza silenziosa di Yukinari non riusciva a superare quel trauma.

Izumida e gli altri capivano e non volevano forzarlo, ma non avrebbe potuto mantenere a lungo il ruolo di ace in quelle condizioni, e se ne rendeva conto lui stesso.

Ci aveva provato una volta, con tutti gli altri, ma una volta raggiunto quel tratto di strada si era fermato, aveva appoggiato scompostamente al muro la sua Wilier e si era seduto sull'asfalto a piangere, inconsolabile. Ci avevano messo ore a farlo muovere da lì, e da allora nessuno aveva più tirato fuori la questione.

Se fosse stato per lui avrebbe continuato così per sempre, senza uscire mai a pedalare in strada nonostante fino a poco prima il ciclismo fosse la sua vita, traendo la forza per resistere da quelle lunghe nottate in cui prendeva sonno solo alle prime luci dell'alba. Tuttavia, con il tempo Kuroda iniziò a spronarlo sempre più spesso, chiudendosi in silenzi rassegnati ogni volta che si scontrava con la sua paura.

“Devi andare avanti, non puoi farti bloccare per sempre e rinunciare al tuo sogno e al tuo futuro, Takuto.” gli sussurrava Yuki nell'orecchio, nel buio della stanza.

“Ma quando riuscirò ad... andare avanti... tu... te ne andrai, vero?”

Yukinari non rispose.

 

Lo sapeva, Ashikiba, che niente può durare per sempre.

Lo sapeva, ma non voleva accettarlo.

Lo sapeva, Kuroda, che il suo ace non si sarebbe mai rialzato da solo.

Lo sapeva, e doveva fare qualcosa.

 

La notte successiva, poco prima di mezzanotte, Kuro-chan prese insistentemente a graffiare la porta della stanza, miagolando piano. Dopo qualche minuto di crescente insistenza Ashikiba si arrese e spalancò la porta, seguendo il gatto fino alla porta sul retro. La sagoma nera a quattro zampe cambiò istantaneamente forma, senza smettere di camminare con decisione verso un luogo che conosceva molto bene.

La porta della sede del club era chiusa a doppia mandata, ma Kuroda tirò fuori dal nulla il mazzo di chiavi con il portachiavi a forma di mela che Fukutomi-san ci aveva attaccato l'anno prima.

“Come...?” fece per chiedere Takuto.

“Shhhh” lo zittì Yukinari, mentre apriva la porta con uno scatto secco.

Entrarono nel locale buio, e Kuroda si diresse sicuro verso la sua Kuota. Probabilmente la sua nuova natura gli aveva donato la possibilità di vedere bene al buio, perchè Ashikiba non riusciva a vedere oltre il suo naso, e non si muoveva dall'ingresso temendo di scontrare qualcosa con la testa, come già gli capitava troppe volte in piena luce.

Kuroda portò fuori le loro due biciclette e guardò Ashikiba intensamente negli occhi, con una muta richiesta. Takuto aveva già capito. Un'altra volta, non avrebbe potuto dirgli di no. Un'altra volta, non gli importava delle conseguenze, come se non fosse successo nulla.

Anche Fukutomi-san gliel'aveva detto, mesi e mesi prima. “Vai avanti, fai della tua debolezza la tua forza, combatti per andare sempre avanti”... poi Ashikiba l'aveva apertamente contraddetto quando in piena crisi di panico aveva iniziato ad andare contromano durante una gara, ma quella era un'altra storia.

La luna brillava alta e luminosa nel cielo di fine ottobre, e il silenzio era denso e pesante come il piombo. Un uccello emise un verso rauco e prolungato poco lontano, strappando un brivido al pavido ace.

Takuto aveva paura del buio, ma non intendeva ammetterlo in quel momento.

Si sentiva troppo in colpa nei confronti di Yukinari per poterlo contraddire. Si fidava troppo di lui per frenarlo con le sue paure, anche se stava facendo nuovamente lo stesso errore.

 

Kuroda iniziò a pedalare, diretto fuori dalla scuola. Il viale era tutto illuminato, così come la strada al di fuori, e perfino quella famigerata curva. La luce fredda dei lampioni li osservava indifferente.

Ashikiba esitò per un istante, ma poi lo scatto delle scarpe che si incastravano nei pedali risvegliò qualcosa in lui, e strinse forte il manubrio fino a farsi male, prendendo un respiro profondo e iniziando a pedalare dietro il suo assist.

Forse non era così terribile, se lui era al suo fianco.

Forse non era davvero successo nulla.

Forse si era immaginato tutto, e tutto sembrava così irreale e inconsistente pedalando nella brezza notturna.

Kuroda pedalava con foga, come per recuperare tutti quei giorni da gatto in cui aveva potuto solo contemplare gli allenamenti dei suoi ex compagni di team. Lo trascinava nella sua scia come mai aveva fatto prima, con un'intensità e una potenza che Takuto sentiva ripercuotersi nei suoi stessi muscoli.

Faceva male, ma era anche bellissimo.

Non si accorse nemmeno del momento in cui superarono quella maledetta curva, in quel punto in cui ancora un mazzo di fiori dai petali un po' sgualciti ornava il nudo guard rail.

Non sapeva quanta strada avessero percorso, quando infine si fermarono, esausti. Yukinari prese la mano di Takuto e lo condusse per qualche centinaio di metri nel buio, e poi si sedettero entrambi in una piccola radura in cima a una collinetta non lontana dalla strada.

Si ritrovarono poi entrambi distesi sull'erba già bagnata dalla rugiada, ancora con le mani intrecciate tra loro.

“Forse avrei dovuto dirtelo fin dall'inizio, Taku-chan. Non posso restare per sempre, anche se vorrei tanto. Il motivo per cui sono tornato era aiutarti a superare il tuo rimorso per non avermi fermato quel giorno, e ora la mia missione è compiuta... non avevo alternative, e ho sofferto tanto a vederti così, lo devo ammettere” disse tutto d'un fiato “il mio ruolo è sempre stato solo quello di accompagnarti al traguardo, sei tu che devi andare avanti, tu che devi trovare la spinta finale e la forza per continuare, dentro di te. Questo non significa che ti lascerò da solo, ma che continuerò a credere in te guardandoti da un po' più lontano...” si interruppe, vedendo che le lacrime erano già nuovamente appese alle ciglia lunghe di Takuto.

Kuroda prese un sospiro e gli indicò una stella, puntando un dito verso il cielo immenso sopra le loro teste, poi riprese “La vedi, quella stella così luminosa lassù? Ecco, quella stella brilla di notte in tutto il suo splendore, ma anche durante il giorno continua a brillare, anche se tu non riesci a vederla. Tu fissa quel punto nel cielo quando sentirai la mia mancanza, e io ti starò vicino. È una promessa.”

 

Quando si decisero a tornare indietro l'alba era ormai imminente. Pedalarono velocemente in salita fino alla scuola, poi, una volta sistemate le bici come le avevano trovate, si fermarono l'uno di fronte all'altro davanti alla sede del club.

 

“Ora... devi andare, vero?” disse piano Ashikiba, con lo sguardo basso. Il sole stava già spuntando dietro il monte Fuji.

Non c'era più tempo.

Kuroda alzò gli occhi per incontrare quelli di Ashikiba, stranamente asciutti. Lo sapeva, ce l'avrebbe fatta. Si alzò sulle punte dei piedi, e posò un bacio leggero sulle labbra del suo ace, che dopo un istante di muto stupore chiuse gli occhi, per assaporare il gusto di quella sensazione.

 

Quando li riaprì era solo, nel cortile deserto.

Poco lontano, una piccola scheggia nera spariva nella nebbia del mattino.

 

   
 
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