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Autore: Dregova Tencligno    04/06/2015    0 recensioni
Ho spesso immaginato come potessi essere da padre e ancora adesso, anche se lo sono, non riesco a vedermi in quei panni seri che hanno definito la parola ‘papà’ nel mio dizionario. Lo sono diventato da più di quattro anni e ancora non mi capacito di esserlo, è una sensazione strana vedere un te in miniatura che gira per casa ricordandoti la libertà e facendo viverti incubi e sogni che ti tolgono il fiato. Prima non riuscivo a pensare alla mia vita con una creatura totalmente dipendente da me, ma adesso non riesco a farne a meno e se tornassi indietro sono certo che non riuscirei più a vivere senza di lui. E c'è una cosa che adoro, ed è il momento quando la sera è scesa, il suo pancino è pieno, i dentini sono stati lavati e il pigiamino indaco è stato indossato. È l’ora della nanna e ogni sera ripetiamo il nostro rituale.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dregova Tencligno
Il Dio senza nome
 
Ho spesso immaginato come potessi essere da padre e ancora adesso, anche se lo sono, non riesco a vedermi in quei panni seri che hanno definito la parola ‘papà’ nel mio dizionario. Lo sono diventato da più di quattro anni e ancora non mi capacito di esserlo, è una sensazione strana vedere un te in miniatura che gira per casa ricordandoti la libertà e facendo viverti incubi e sogni che ti tolgono il fiato. Ogni cosa può rappresentare un pericolo, qualsiasi cosa, anche la più insignificante. Ti preoccupi, sudi freddo e alcune volte smetti di respirare in attesa dell’angina pectoris, il preludio di in infarto imminente. Non sai come, ma ce la fai e vai avanti vedendo crescere il frutto del tuo amore e dell’amore di chi pazientemente di sopporta… mi sopporta nonostante mi comporti ancora come un bambino. E forse è proprio per questo che non riesco ad immaginarmi padre.
Lo sono ormai da più di quattro anni, quasi cinque. Prima non riuscivo a pensare alla mia vita con una creatura totalmente dipendente da me, ma adesso non riesco a farne a meno e se tornassi indietro sono certo che non riuscirei più a vivere senza di lui. Paradossalmente sono io a dipendere da lui. Dai suoi occhi nocciola grandi ed espressivi, dalle sue gote paffute e dal suo odore di vaniglia che mi fa venire la smodata voglia di assaggiarlo, di divorarlo di baci.
Il cuore mi si stringe quando piange ed è sul punto di scoppiare quando sento la sua risata increspare l’aria, è come una canzone… la mia canzone preferita.
Ci sono tante cose che adoro. L’orario del bagnetto, il pranzo e la cena che riducono la tovaglia all’abito multicolore di arlecchino, qualche volta anche il soffitto, le notti in cui sono piacevolmente costretto a dormire con i suoi piedini morbidi conficcati come un pugnale nel costato per poi risvegliarmi con le sue manine strette alla maglia del mio pigiama e la sua testolina riccioluta sotto il mio mento e mi lascio cullare dal suo respiro calmo e rassicurante.
Lo invidio per tutto quello che riesce a fare, per la sua creatività e pericolosa spensieratezza e la sua terrorizzante innocenza in un mondo che è felicemente privo di queste caratteristiche e che fa nascere in me la paura che possa crescerlo come un amorevole mostro delle ombre.
Mi dicono che sono troppo apprensivo, che mi preoccupo troppo e che per questo non ho mai un attimo di respiro ma, vorrei loro chiedere, con quale coraggio potrei mai lasciarlo andare? Anche se un giorno so che verrà il momento in cui lo vedrò andare via e anche se dirò di essere contento per lui perché avrà scelto la sua strada non potrò che impensierirmi ignaro delle scelte che farà lontano da me, dei dolori e delle difficoltà che incroceranno la sua strada sapendo che potrei essere troppo distante per aiutarlo immediatamente. Troppi pensieri che sono costretto a reprimere anche se a volte riemergono da soli senza che io li chiami… ma continuo a cacciarli indietro perché, mi dico, ancora è troppo presto per farmi tormentare da questi quesiti e allora mi lascio trascinare dalle cose che di lui mi fanno impazzire e dai momenti che non vorrei che mai sparissero. E quello che più adoro è il momento quando la sera è scesa, il suo pancino è pieno, i dentini sono stati lavati e il pigiamino indaco è stato indossato. È l’ora della nanna e lui fa sempre i capricci perché vorrebbe restare sveglio con noi grandi, ma non può, anche perché domani sarà una giornata impegnativa: picnic al parco dietro al condominio in cui abitiamo.
A nulla servono i suoi capricci, lo sa, ma qualche volta fa le bizze e pure se mia moglie si spazientisce io mantengo la calma perché lo capisco, il mio non essere entrato ancora nell’ottica dell’essere padre mi rende capace di ricordare quello che desideravo io da piccolo, e allora ho trovato un semplice stratagemma per far ottenere ad entrambi quello che vogliamo: lui un po’ di avventura e io che lui vada a dormire.
Ogni sera, quindi, ripetiamo il nostro rituale.
Lo metto nel suo letto, lo copro con il lenzuolo e spengo la luce accendendo quella più soffusa del comodino che getta mistiche ombre intorno a noi, i suoi occhietti brillano di eccitazione mentre la mia bocca e le mie corde vocali si preparano ad articolare le parole, per produrre una melodia antica come l’uomo stesso.
Ogni sera, prima che si addormenti, gli racconto una storia, non importa quale sia e di cosa tratti, basta che lo faccia vivere per quei pochi minuti che mi servono per raccontarla in una realtà che non è questa. Un verità del mondo in cui è libero di volare senza ali, di crescere al fianco di piante che parlano e di giocare con mostri di cui gli altri bambini della sua stessa età, e anche più grandi, hanno paura e di seguire quelle che sono orme degli Dei.
Mi fa posto sul letto e io siedo accanto a lui in modo da poterlo guardare  negli occhi che mi rivolgono un sguardo trepidante d’attesa.
-Sei pronto?-
Non risponde, mi guarda e si prepara accoccolandosi di più nel lettone che sembra una nave in confronto al suo corpicino.
Annuisce e io mi preparo facendo roteare le rotelle che già fumano nella mia scatola cranica.
-Questa sera ti racconto una storia che ha avuto luogo in una giorno estivo proprio come questo, una giorno di secoli e secoli fa in un tempo in cui né io e né te eravamo ancora nati, un tempo in cui non eravamo ancora nei pensieri di nessuno e nessuno dei nostri antenati più prossimi aveva calpestato quella terra ricca di misteri e magia, miti e leggende che si articolavano leggere come fili di ragnatele formando un enorme arazzo che abbracciava tutto nella sua immensità. Ti narrerò un segreto che si tramanda di generazione in generazione nella nostra famiglia e che è giunto il tempo che anche tu sappia; io lo confido a te come mio padre fece con me e suo padre con lui ancora prima, e così via, in dietro nel tempo, fino a perdersi nelle sue innumerevoli pieghe.
-Ma, prima di incominciare sarà meglio fare un paio di passi indietro e se li consideriamo anni possiamo dire che facciamo ventuno passi a ritroso per arrivare ad una notte primaverile in cui due bambini, nello stesso tempo, vedevano la luce del loro primo giorno.
-Appartenevano a due famiglie rivali, una consacrata a Poseidone, l’altra fedele alla dea Atena. Gli appartenenti di entrambe le casate si affrontavano in ogni sorta di sfida, ora di canto, ora di ballo, ora con le armi e altre volte con la poesia, ma era arduo definire un netto vincitore perché tutti quanti eccellevano. I due bambini erano nati in un mondo d’odio che tentò di segnarli ma, quella sera primaverile videro il loro primissimo cielo sotto la stella di una divinità sconosciuta al genere umano e per questo anche la più pericolosa perché nessuno conosceva cosa fosse in suo potere, ma, ormai è noto, questo Dio non era di indole malvagia, anzi, spesso si camuffava per poter trascorrere del tempo con i mortali e aiutarli senza mai chiedere nulla in cambio. Certo è che a volte li metteva alla prova per vedere se erano meritevoli del suo aiuto e anche se il male, l’egoismo e la rabbia serpeggiavano tra i cuori degli umani, lui aveva sempre trovato un motivo per non smettere il suo operato. Soprattutto ora che dopo secoli il suo marchio aveva posato gli occhi su quei due neonati.
-I giorni passarono, così come gli anni e i due bambini divennero dei bei giovani forti e dall’animo sensibile che non comprendevano la rivalità tra le loro famiglie ma che, per non essere emarginati dai propri familiari, fingevano di essere concordi con i motivi che facevano ardere intensamente il furore. Fingevano, era l’unico modo che avevano per continuare a vivere in pace, e questo fingere agitava in loro una guerra spropositata per i puri cuori che possedevano, un conflitto che nessuno mai dovrebbe vivere.
-Ma la guerra non era solo in loro, travolse anche il villaggio in cui abitavano. Una guerra mossa da un popolo barbaro che voleva accrescere il proprio dominio; gli eserciti si unirono per cercare di fronteggiarli e alla fine, anche se con immense perdite, riuscirono a vincere e a tornare alla vita di tutti giorni e ai litigi.
Dopo anni di vita tranquilla il giovane discendente della famiglia del sangue di Atena venne coinvolto in una rissa, non fu per causa sua, voleva solo proteggere l’onore di una giovane ragazza dalle molestie di alcuni uomini con cattive intenzioni. Era da solo e ben presto i tre malfattori, che non avevano voluto lasciar andare la fanciulla senza combattere, ebbero la meglio. Sarebbe morto, o quantomeno ridotto molto male, se di lì non fosse passato proprio in quel momento un ragazzo grosso, una montagna ambulante di muscoli. Era l’ultimo discendete del sangue di Poseidone che, non conoscendo l’identità del malcapitato, lo aiutò contro i suoi avversari e la sua venuta fu provvidenziale e bastarono pochi colpi per rovesciare la situazione. I tre uomini malvagi scapparono a gambe levate con gli occhi viola e i nasi sanguinanti.
-I due ragazzi non si scambiarono molte parole, tranne qualche grazie, nemmeno si dissero i loro nomi, ma questo fu sufficiente a far scattare qualcosa nei loro petti, un sentimento che avevano da sempre ricercato ma che mai erano riusciti a trovare tra i loro consanguinei, gli unici, a detta dei proprio genitori, che avrebbero potuto dare loro l’amicizia di cui andavano in cerca.
-Si incontrarono spesso, casualmente. Al mercato, dal fornaio e dal macellaio e ogni volta si salutavano con un cenno del capo e mai con una parola, solo un rincorrersi di sguardi. Lentamente aveva cominciato ad agitarsi in loro il dubbio che la vocina interiore che li assillava avesse ragione, i ricordi avevano cominciato ad emergere e nelle rispettive menti il viso dell’altro cominciò a unirsi pericolosamente al ricordo della famiglia rivale. Sapevano che dovevano tenersi lontano l’uno dall’altro, ma il destino trovava infiniti e improbabili modi di unirli con i suoi tentacoli e, alla fine, invece di ignorare la reciproca presenza i loro sguardi cominciarono a perdersi sui visi delle persone alla rispettiva ricerca.
-La divinità che guardava dall’alto il loro balletto alla fine decise di lasciare sul terreno una scia di  briciole che i due giovani seguirono senza nemmeno rendersene conto, fu così che Candidus e Vir si incontrarono veramente per la prima volta.
-Era una torrida giornata estiva, il sole sputava con i suoi pigri raggi un caldo che essiccava la terra e il sudore sulla pelle lasciando su di essa solo un sottile strato di sale, la foresta era immersa nel silenzio anche se era ormai giorno inoltrato e il sole era al suo zenit picchiando sulle loro teste con veemenza. Volevano essere fantasmi ma i loro piedi facevano scricchiolare l’erbetta secca per la troppa afa, i peli sulla loro nuca erano ritita e le loro orecchie tese, pronte a percepire qualsiasi altro rumore o suono che non fosse quello dei loro passi, del loro respiro e del battito del loro cuore che tamburellava nelle orecchie con talmente tanta intensità che pareva avesse cambiato la propria sede anatomica.
Vir apparteneva alla famiglia che si vantava di avere nelle proprie vene il sangue del potente e vendicativo dio Poseidone, il custode degli oceani e colui che deteneva il comando sui mostri marini, il padre di esseri giganti con un occhio solo in mezzo alla fronte e con la forza di mille buoi messi insieme. Il giovane uomo era un ragazzo non molto alto, ma in compenso aveva una forza non comune tra gli esseri umani, si diceva fosse in grado di spezzare a mani nude il tronco di una quercia e di poter domare senza alcuna difficoltà un toro infuriato. Aveva i capelli neri che portava corti in un taglio militare che rendeva il suo fisico palestrato ancor più minaccioso e possedeva due occhi azzurri e cristallini come l’acqua, un segno di cui la sua stirpe andava fiera in quanto asseriva che era il marchio della loro discendenza divina.
-Come un buon erede del potere di Poseidone era stato allenato nell’arte del combattimento sin da piccolo, ma venne educato anche ad avere un cuore puro e privo di ogni ombra di dubbio e vergogna. Doveva essere come il mare, chiaro e sereno, potente e protettore, custode di dolcezza e furia, figlio di sentimenti che non dovevano mai essere arginati ma lasciati scorrere perché da essi traeva la sua forza. Da loro, e non dal fisico, come molti pensavano, perché il corpo con l’avanzare dell’età si sarebbe infiacchito mente il potere del cuore sarebbe sempre rimasto, immutabile nel tempo e dagli eventi.
-Qualunque fosse la verità nelle parole dei suoi insegnati, Vir era stranamente sicuro che la divinità di cui si vantavano di avere la protezione fosse solo una diceria, una storia nata solo per incutere timore negli avversari e per reclamare diritti che agli altri erano esclusi. Per questo storceva il naso quando vedeva che con troppa facilità gli erano permesse cose per le quali gli altri dovevano realmente combattere con i denti e con le unghie facendo conto solo sulle proprie forze e questo era il motivo che lo aveva spinto a destreggiarsi tra quegli alberi alla ricerca di una bestia temuta sia dal duo popolo che da quello dei figli di Atena. Voleva dimostrare di essere degno del rispetto che tutti gli davano.
-La sua preda era un enorme cervo bianco che era stato avvistato qualche giorno prima aggirarsi nella foresta nei pressi del villaggio in cui abitava, sarebbe stato quello il trofeo che avrebbe esposto nel tempio della divinità marina, il simbolo che lui sì che si meritava di essere consacrato a quel Dio di cui temeva, anche se non lo ammetteva, la forza.
-Le tracce che stava seguendo erano fresche e orma si doveva essere avvicinato molto all’animale. Lo sentiva, mancava poco, nel naso entrava la traccia odorosa della bestia che zampettava tra gli enormi alberi carichi di foglie e fiori bianchi che sprigionavano nell’aria il loro dolce e fresco profumo che gli rincuorava l’animo e rendeva più lucida la mente.
-Quello che Vir ignorava era che un altro baldo giovane era alla rincorsa del suo stesso obiettivo. Si trattava di Candidus.
-Candidus era il perfetto discendente della casata di Atena, la dea della sapienza. Intelligente, leale e lungimirante, non faceva mai nulla senza aver prima considerato i pro e i contro e l’unica cosa in cui peccava era riuscire a seguire il proprio cuore. Gli era particolarmente difficile fare ciò in quanto per lui e la sua famiglia era più semplice seguire quello che suggeriva la mente.
-Era un ragazzo magro, alto e di bell’aspetto, ricercato per la sua acutezza e per quella strana sensazione di calore che era in grado di instillare nelle persone che aveva attorno, una sensazione che non aveva mai provato. Eccetto per una volta. Quando era stato salvato da tre bruti grazie all’intervento di un ragazzo che sembrava un toro, non solo per la furia che lo aveva animato nel combattimento, ma anche perché fisicamente assomigliava al leggendario Minotauro e forse proprio ciò, unito ai giorni in cui lo aveva visto in compagnia del popolo di Poseidone, gli fece capire che il suo salvatore altri non era che il suo più acerrimo nemico. Quando si suole dire che l’aiuto arriva da chi meno te lo aspetti.
-Inoltre, Candidus, possedeva quel sorriso smagliante che stava diventando sempre più raro vedere sui visi delle persone, un sorriso che era letteralmente magico.
-Caratterialmente era estroverso e cercava di rendere partecipi alle varie attività che svolgeva quante più persone possibili.
-La sua mente era geniale, ma a volte si tormentava chiedendosi se tutte le persone che dicevano di volergli bene provavano poi veramente quel sentimento. Si creava da solo problemi inesistenti. Lo svantaggio di avere un cervello troppo attivo. Lo stesso cervello, che proprio come a suo padre, gli dava la straordinaria capacità di trovare una soluzione anche ai peggiori grattacapi in modo brillante. Scrutava tutto ciò che lo circondava con i suoi occhi scuri con fare serio e misterioso.
-Il trofeo a cui ambiva era rappresentato dalle corna del cervo bianco, gli servivano per costruire l’arco più bello sul quale nessuno mai aveva mai posato lo sguardo per poi offrirlo alla dea Atena. Era opinione comune nella sua famiglia credere che se la divinità della sapienza avesse accettato il dono, avrebbe offerto in cambio all’autore la possibilità di vedere esaudito un suo desidero. E lui sapeva già cosa chiedere, le parole erano sulla punta della lingua pronte ad essere pronunciate a gran voce.
-Candidus non era bravo quanto Vir a seguire le tracce ma a modo suo ce la stava facendo comunque e, alla fine, anche lui riuscì a mettersi sulla pista giusta e raggiunse la preda che li stava pazientemente aspettando in una radura dove l’aria non era più calda e insaporita dall’odore dei fiori che aveva finito col diventare pesante e nauseante. Era fresca e carica di una strana energia che li rendeva inquieti. Come se a renderli inquieti non bastasse il solo trovarsi davanti
un animale del genere.
-I giovani ragazzi erano grondanti di sudore e la stanchezza mordeva i loro muscoli facendoli tremare, ma non si sarebbero arresi facilmente. Il cervo li guardava e dentro di sé rideva soddisfatto per averli messi così arduamente alla prova, non avevano desistito e anche se li aveva fatti girare a lungo e in largo erano riusciti ad arrivare da lui con le armi in mano pronti a sfidarlo.
-Quello che i due rampolli si trovarono di fronte andava contro ogni più fervida immaginazione che li aveva animati e cominciò a farsi avanti con passo celere il timore che davanti a loro non si trovasse un comune animale ma un mostro nato dall’amore maledetto di qualche divinità.
-Il cervo era alto quanto un ulivo, sotto la pelle coperta da un fitto e sottile candido manto si vedevano le fasce dei forti muscoli che erano in tensione pronti a scattare anche se l’animale era stazionato in una innaturale quiete, sembrava quasi che fosse del tutto indifferente alla loro presenza, che non li considerasse dei guerrieri capaci di dargli preoccupazioni e di incutergli paura.
-Li guardava con i suoi occhi lucidi e rossi aspettando pazientemente una loro mossa; li scrutava e studiava, immobile, cercando di carpire quello che nascondevano nei corpi, scrigni protetti da un’antica maledizione.
-Il ragazzo più grosso fissava accigliato l’animale; era a torso nudo e il sudore gli aveva reso la pelle lucida come se l’avesse detersa con dell’olio, il collo turino era un fascio di nervi e i pettorali e i bicipiti sussultavano per la straziante attesa e lo sforzo di mantenere una posizione minacciosa.
-L’enorme cervo bianco sbatté le palpebre e pensò a quanto quell’umano assomigliasse ad un leone acquattato ad aspettare il momento giusto per scagliarsi sulla preda e affondare i canini nel suo collo per assaporare il caldo e pastoso sangue che altro non era che l’antipasto di un sostanzioso banchetto. L’animale sentiva che quel ragazzo aveva qualcosa in più, un odore diverso rispetto agli altri che si erano cimentati nella sua ricerca; possedeva un antico profumo che non sentiva più da secoli, d quando aveva abbandonato il Mondo degli Dei per vivere fra i mortali sotto varie spoglie. Si trattava dell’odore intenso e rinfrescante del Dio dei mari e degli oceani, Poseidone.
-Vecchia canaglia, era riuscito a resistere all’attacco congiunto dei due fratelli per la corsa al potere. Chissà chi era salito sul trono come Padre degli Dei…? Lui, o il passionale Zeus, o l’insofferente Ade? Ne era passata di acqua sotto ai ponti, di tanto in tanto vedeva nuove divinità passargli davanti senza accorgersi della sua reale natura, e lui li lasciava andare via, in silenzio, senza fermarli per chiedere come se la stessero passando i tre fratelli. Sicuramente litigavano ancora, sembrava essere l’unica cosa in cui eccellessero.
-Il cervo lesse la determinazione nell’animo del discendente di Poseidone e, forse per la prima volta dopo secoli, non si ricordava bene se fosse capitato qualche volta in precedenza con altri, mostrò vero interesse per quell’umano che lo voleva offrire come sacrificio al dio a cui era stato consacrato poco sapendo che in realtà era nato sotto la sua stella e che, quindi, se proprio ci doveva essere qualcuno a cui era consacrato, quel qualcuno era lui. Lo stesso dicasi per l’altro ragazzo che lo osservava con rispettosa paura. Aveva capito che non era un semplice animale, uno di quegli a cui era abituato a dare la caccia, o uno dei mostri di cui aveva sentito parlare, e già il cervo poteva vedere gli ingranaggi del suo cervello mortale ruotare senza sosta per trovare un efficace piano per abbattere la bestia. Una bestia che lo aveva inquadrato in pochi secondi come la discendenza della dea Atena, leggeva lo stesso ingegno di lei negli occhi del ragazzo che era sul punto di scattare come una antilope.
-Il portare del sangue della saggezza indossava una semplice camicia bianca di cotone leggero senza maniche per non impedirgli i movimenti delle braccia, un paio di pantaloni di pelle e ai piedi degli stivali. Questi ultimi indossati anche dal figlio di Poseidone.
-Li guardò questa volta entrambi per analizzare le loro differenze. Il ragazzo muscoloso stringeva in mano uno spadone dall’aria pesante, era robusto e di acciaio, una lega inusuale da vedere in mano a un semplice guerriero. L’elsa era in avorio bianco e su tutta la lunghezza della lucente lama erano state incise delle parole in un vecchio dialetto che oramai stava cadendo in disuso e che pochi ancora ricordavano, e uno di quei pochi era proprio quel vecchio cervo dalle corna robuste e forti come il diamante, e nel medesimo modo della pietra preziosa esse brillavano al contatto con i raggi del sole. La scritta sulla spada diceva. ‘Mai e poi mai sarò capace, con mio sommo piacere, di dimenticare la prima volta in cui i miei occhi si posarono sulla tua figura. In quel momento mi fu chiaro, come il sole al mattino, che nella mia vita non avrei mai voluto nessun altro all’infuori di te.” Era un pensiero dolce per essere stato pensato per un’arma.
-Il seguace di Atena, invece, portava a tracolla una faretra piena di frecce, una delle quali era già pronta ad essere scoccata. Purtroppo le loro armi non sarebbero servite a molto contro di lui; anche se quella che li muoveva era una forza potente, i due ragazzi erano pur sempre umani e lui una divinità.
-Quando l’iniziale sgomento lasciò posto alla lucidità della mente, Vir e Candidus si accorsero della rispettiva presenza. Si osservarono, erano rivali, adesso ne erano sicuri. Avrebbero dovuto seguire le regole del loro gruppo sociale di appartenenza o accantonare la loro rivalità per raggiungere uno scopo comune? Sapevano che l’astio tra le loro famiglie era infondato, lo avevano scoperto quando avevano iniziato a pensare l’uno all’altro chiedendosi come sarebbe stato essere amici. Anche se con qualche riserva, si chiedevano se non fosse sufficiente questo passo per far smettere una rivalità immotivata che andava avanti da secoli.
-Il primo a partire fu Vir, la spada alzata pronta a colpire. Dal cervo partì un’onda a forma di bolla che lo investì, il ragazzo si fermò con il fiato sospeso e l’immagine di un passato che aveva cercato di dimenticare davanti agli occhi. Quello che la sua mente stava rivivendo era un giorno di tanti anni prima, il giorno in cui i barbari assalirono il loro tempio e depredarono i loro tesori. Le guardie cercarono di fermarli ma non ci riuscirono e la morte dilagò senza freni mietendo vittime e feriti, tra di loro c’era anche suo fratello. Un barbaro lo prese immobilizzandolo e passando il filo della sua spada sul collo del giovane fanciullo sporcandola di sangue. Non lo uccise, guarì, ma il suo fratellino non fu più lo stesso. La sua voce se ne era andata per sempre, Vir non avrebbe più avuto la possibilità di sentirlo intonare il canto dei campi o della primavera, delle prime nevi e delle piogge semieterne.
-Dapprima ci fu l’angoscia, le lacrime gli riempirono gli occhi, lui non le represse le lasciò scorrere e da loro trasse energia, un’energia che si trasformò in rabbia e con questa partì all’attacco. La lama della spada disegnò un arco perfetto che andò a segno, ma l’arma attraversò il corpo dell’animale che rispose all’attacco emanando un’onda d’energia che spinse via Vir il quale rotolò per terra ferendosi la schiena, le braccia e il torace. Qualcosa fermò il suo moto e quando aprì gli occhi vide che a sorreggerlo c’era il figlio di Atena che lo fissava serio, i loro sguardi s’incontrarono per pochi secondi, ma bastarono per far comprendere la reciproca natura.
-Candidus incoccò la freccia e lasciò che colpisse il bersaglio, questa volta l’arma non lo attraversò ma si spezzò contro una barriera invisibile. Il cervo scosse la testa e il movimento delle sue corna sprigionò una corrente d’aria che li investì spingendoli quasi al limitare della foresta.
-Non ebbero bisogno di dirsi nulla, Vir partì all’attacco con Candidus che gli guardava le spalle, le frecce coprirono il cielo come una nube di vespe che si infranse contro la barriera che traballò e scoppiò come una bolla di sapone; Vir scivolò sul terreno come un serpente mentre lo spadone strideva contro il terreno mandando scintille rosse in aria. Il colpo sarebbe andato a segno se non fosse che il cervo si mosse talmente velocemente da alzare una nube di polvere che coprì la visuale allo spadaccino e da materializzarsi alle spalle di Candidus, l’onda d’urto che produsse spinse a terra il ragazzo che non riuscì a ribattere in alcun modo perché bloccato dalla sorpesa.
-Pochi secondi dopo Vir fu al suo fianco che cacciava indietro la bestia menando fendenti a destra e a manca, non colpiva mai il bersaglio ma diede il tempo a Candidus di alzarsi e di scoccare varie frecce. L’animale era velocissimo, sembrava persino che non toccasse il terreno.
-Questo scontro impari andò avanti per ore e ore, il sole si nascose dietro la foresta e il cielo si scurì e comparvero le stelle. La stanchezza rendeva i movimenti dei due ragazzi lenti e imprecisi, spesso si ritrovavano in ginocchio privi del respiro, ma non si arrendevano e continuavano a combattere. Ormai non era più una questione di trofeo, dovevano dimostrare a quell’animale di essere i migliori.
-Il sudore cadeva sul terreno come pioggia d’inverno e i ruggiti riempivano l’aria come tuoni.
-Alla fine un mare di frecce giacevano spezzate sul terreno e una spada era conficcata in una zolla di terra. Sdraiati, con i corpi coperti di sudore e polvere c’erano i due ragazzi che continuavano a fissare l’animale che era immobile, in piedi, fresco come una rosa, che li osservava. Non riuscivano a muoversi, il fiato era spezzato mentre cercavano di catturare ad ogni respiro quanto più ossigeno possibile, il cuore pompava forte tanto da stordirli.
-La pelle del cervo si illuminò e le sue forme mutarono. Al posto dell’animale comparve un ragazzo, poteva avere la loro stessa età ma gli occhi erano quelli di un anziano, occhi che avevano visto tutto e che erano il riflesso di una saggezza interiore sconfinata. Si avvicinò a loro con movimenti calmi e fluidi, indossava una veste bianca e sopra la testa, posata su una cascata di capelli neri, una corona d’argento che brillava come la luna. Si inginocchiò e posò una mano sulla fronte di Vir e l’altra su quella di Candidus che rimasero a bocca aperta, non avevano mai visto un essere così bello.
-Il ragazzo non parlò, quando chiusero e riaprirono gli occhi, un battito di ciglia, di lui non c’era più traccia e l’unico segno del suo passaggio furono dei piccoli fiorellini dai petali trasparenti che brillavano come se fossero stati di cristallo. Nessuno sa cosa fecero poi quei due ragazzi e mille voci circolano su di loro, ma una cosa è certa, quei fiori conservavano un incantesimo molto speciale, si dice che abbiano il potere di indicare la strada per il proprio futuro, per le proprie amicizie e amori. Il problema è che sono fiori rari da trovare e Candidus e Vir furono gli unici a poter inspirare il loro dolce profumo.-
Le ombre si ritirarono e il mio bambino mi guardò storcendo il naso.
-Non è giusto?-
-Cosa?-
-Non mi piace com’è finita.-
Gli sorrido. -E come dovrebbe finire?-
Lui fa spallucce. -Candidus e Vir?-
-Non si sa cosa accadde loro dopo questa vicenda.-
-Non è giusto. Non mi piace.-
-E secondo te, allora, come dovrebbe finire?-
-Non lo so.-
-Facciamo così. Candidus e Vir divennero amici inseparabili e dopo secoli di rivalità le loro famiglie cominciarono a sopportarsi, anche se non erano rari i litigi. Divennero uomini saggi e la loro stirpe dura ancora oggi custodendo il segreto di quei fiori magici. Così va meglio?-
-Sì.-
-Bene, ora fai la nanna.-
Gli do un bacio sulla fronte ed esco dalla camera; nell’ombra, dietro la porta del salotto mi osserva Felix, il nostro cane, un bellissimo animale dalla pelliccia bianca e dalle iridi rosse. Gli sorrido.
Ho sempre immaginato come potessi essere da padre e ancora adesso, anche se lo sono, non riesco a vedermi in quei panni seri che hanno definito la parola ‘papà’ nel mio dizionario. Spero solo di cavarmela bene e di riuscire a incarnare gli ideali dei miei antenati.
C’è un finale della storia che non ho raccontato a mio figlio, al mio piccolo Arcangelo.
Candidus e Vir ebbero rispettivamente un figlio ed una figlia, Diamante e Aurora, i capostipiti di una stirpe di cui io sono il penultimo rappresentante. Una stirpe protetta dal Dio senza nome.
Il cane bianco mi dà un colpetto sulla gamba col muso e mi perdo nei suoi occhi color rubino.
-Sì, andiamo a letto anche noi.-
 
   
 
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