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Autore: Briseide    08/01/2009    5 recensioni
Post-Hogwarts. Pansy Parkinson e un matrimonio che non vuole da organizzare.
Blaise Zabini intorno a lei a renderle difficile il compito.
Millicent Bullstrode a rendere difficile il compito di Blaise Zabini.
E Draco Malfoy, che di sparire nel cassetto dei ricordi non vuole proprio saperne.
STORIA COMPLETA [revisione in corso]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Blaise Zabini, Millicent Bullstrode | Coppie: Draco/Pansy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Disclaimer: Come sempre niente del mondo e personaggi della Rowling mi appartiene; non scrivo a scopo di lucro ma solo perché faccio di tutto pur di non studiare al momento.

Note: Non so perché ho avuto questa malsana idea di iniziare una cosa simile. Comunque, dato che la Rowling mi ha fatto l’ennesimo dispetto e sono avversa alla famiglia Greengrass (Daphne e la sua innocenza escluse) e amo Draco e Pansy, ecco il tutto.

Se la coppia non vi piace ma volete leggere lo stesso, siete pregati di non farmi sapere quanto la coppia vi disgusti, perché avrebbe poco senso. Grazie. Per il resto, ci sarà qualcosa di OOC forse, su quello potete legittimamente inveire, se vi parrà opportuno =) Metto le mani avanti in merito a qualcosa: Blaise Zabini e l'amicizia con Pansy e Draco, che la Rowling non ha specificato. Blaise Zabini e il suo essere un seguace di Petronio. Credo ci sia dell'altro sparso un pò qui e là, sono licenze autorali che forse non avrei dovuto permettermi ma è il vantaggio di non essere romanzieri di professione ^^ Merci.

 

 

 

The way we were

 

 

I

Lisce, leggere, calde.

 

 

Memories light the corners of my mind
Misty water-colored memories of the way we were
Scattered pictures of the smiles we left behind
Smiles we gave to one another for the way we were

[The way we were – Barbra Streisand]

 

 

Avevo un ricordo ben preciso dell’ultima volta che sul mio viso era comparsa quell’espressione che la gente comune – quella che non vanta un padre latitante e un futuro appeso ad un filo mosso da un Lord Oscuro con manie di assolutismo – avrebbe potuto definire spensierata.

Erano le vacanze di Pasqua del quinto anno, quei quattordici giorni di respiro rubati alla soffocante coltre di ostinato buonismo e cieco pregiudizio che ammantava la bella Hogwarts, patria di giovani maghi in formazione, volti verso un brillante futuro che, ottusi com’erano, neanche avrebbero distinto.

Nel mio ricordo compaiono Draco e Blaise, e mi sembra superfluo aggiungerlo ora che in piedi sull’orlo, posso osservare tutto dall’alto, fredda e distaccata: qualsiasi cosa mi sia capitata nella vita, in un modo o nell’altro loro erano intorno a me, e se non c’erano, quel qualcosa era strettamente legato ad uno dei due. Quando coinvolgeva entrambi, di solito era un guaio.

Quel giorno di Aprile camminavamo per le strade di Provenza, tra accenti e colori francesi. Io e Blaise procedevamo affiancati ballando scioccamente al ritmo di una vecchia canzone di vent’anni prima; indossavo degli improbabili occhiali da sole, e la cravatta da studente di Blaise era appesa alla sua spalla in precario equilibrio ai suoi passi cadenzati. Alle nostre spalle, alle mie spalle, c’era Draco, in tutta la sua composta eleganza. Avanzava per la strada, dietro di noi, mani in tasca e un ghigno appena accennato a piegargli le labbra in nostra direzione, e nascosto in quel ghigno, un sorriso velato, per cui sarebbe morto se avesse corso il rischio che noi lo notassimo. Io e Blaise lo avevamo notato, e non abbiamo detto niente. Con Draco funziona così. Ti dà modo di amarlo per queste piccole cose (e di odiarlo per tutto il resto, che appare sempre come di contorno in confronto) ma di nascosto.

Scosse la testa quando mi sentì accennare il motivetto della canzone, così sciocca se consideravo le interminabili sonate per pianoforte che deliziavano tanto mio padre. Era troppo compiaciuto per avermi imposto di fare qualcosa che lo soddisfacesse per poter far caso all’espressione sul mio viso, o alla più totale freddezza con cui spingevo un tasto dietro l’altro sperando di arrivare presto alla fine. E mentre Draco scuoteva la testa e Blaise mi afferrava gentilmente il polso facendomi volteggiare verso di lui, pensai che era in quel modo che dovessero andare le cose: lisce, come una canzone anni sessanta; leggere, come il cotone della divisa libera del mantello ornato dallo stemma di una casata, accuratamente dimenticato sul pomello del letto, in Dormitorio; e calde, come la luce del sole che mi batteva sulla pelle.

Così ho imparato che i desideri non sono cosa da tutti, e che se non volevo ferirmi più di quanto mi spettasse, non avrei dovuto farlo più. Desiderare qualcosa per me.

 

Quelle erano le vacanze di Pasqua del 1997, Pansy Draco e Blaise, strada di Provenza.

L’ultimo ricordo che ad essere rievocato non mi avrebbe tolto il respiro. Avrei fatto bene a tenermelo stretto. Ed è quello che ho fatto. Per tutto questo tempo.

 

●●●

 

Il tempo dal canto suo aveva fatto la propria strada, e rincorso se stesso senza sosta, fedele al suo imperdonabile cinismo, ignorando impietoso le necessità e i desideri di chi travolge lungo la sua corsa inarrestabile, esente dal giusto o dall’ingiusto come le leggi sottese che governano la vita.

Pansy Parkinson, abile trasformista, aveva imparato ad accettare l’idea che le cose stessero così e che niente fosse in suo potere se non aggirarle e plasmarle a proprio favore, ma mai, in nessun modo, modificarle.

Quindi con il passare degli anni e il succedersi delle vicende umane – tragiche o comiche che fossero – aveva anche imparato a riporre in un luogo nascosto tra la sua mente e il suo cuore ogni piccolo desiderio a cui era stata costretta a rinunciare momentaneamente.

Ne aveva un cassetto pieno e lo custodiva gelosamente. L’ultimo ripiano di quel cassetto conteneva quello più bello e doloroso, quello da cui era fuggita con una ostinazione proporzionale solo all’intensità con cui lo aveva voluto per sé.

Lì aveva riposto Draco Malfoy, con una stretta sul cuore e un nodo alla gola; con la ferma decisione di una bambina che accetta di diventare grande; con la consapevolezza che quello sarebbe rimasto il suo posto per sempre e che mai vi avrebbe fatto visita con il ricordo, o avrebbe corso il rischio di rovinare tutto e chiudere se stessa in quel cassetto con lui.

●●●

 

La Sala si apriva agli occhi del visitatore in tutta la sua magnificenza, sobriamente addobbata con decorazioni eleganti, in un’armonia di colori e forme da fare invidia alla più classica delle costruzioni di età greca. Ogni particolare aveva trovato la propria soddisfazione, ogni cosa al suo posto, ogni colore accostato al giusto compagno corrispondente. La luce del giorno filtrava con parsimonia dalle tende di broccato appena tirate, quel tanto che basta da lasciar intravedere la vista sul giardino, curato da mani esperte e care agli alberi dalle sementi rigogliose fatti piantare anni addietro, con l’intenzione di rendere in futuro l’effetto splendente che quel giorno colorava l’intero palazzo.

Secondo il detto per cui gli elfi domestici assomigliano al padrone, non c’era niente che sfuggisse alle regole di ordine e misura, un trionfo di apollinea perfezione come la signora aveva deciso che dovesse essere, lottando contro il volgare gusto dell’ostentazione di quelli che di lì a poco sarebbero divenuti suoi parenti per tutta la vita. Una vita che per quanto la riguardava, si augurava dovesse durare il minimo indispensabile per ottenere qualche piccola rivincita e momento di piacere, e non si protraesse oltre, costringendola a fare i conti con una vecchiaia non voluta e una voragine al centro del petto, dove per chi ci crede risiede un’anima.

Nell’immacolata staticità di quella sala da ricevimento, sette teste amorfe scattarono d’improvviso nel percepire il netto rimbombo di tacchi sottili risuonare dietro la porta di ingresso. Il più anziano degli elfi domestici, a servizio quasi da un secolo presso la facoltosa famiglia dei Nott, radunò con un solo cenno della testa tutti gli altri inservienti, disponendoli in linea retta dinanzi alla porta, pronti a chinare il capo in riverenza e a mostrare gli esiti del loro lavoro.

Tuttavia, risultò ovvio a tutti che non fosse necessario allarmarsi più di tanto, nel momento in cui la porta del salone venne maldestramente aperta. La padrona non faceva mai niente con malagrazia, più per una dote di natura che per reale intenzione.

Semplicemente, pur volendo, non era in grado di risultare goffa in qualcosa.

Millicent Bullstrode ne sapeva qualcosa, destinata a rimanere nell’ombra dei propri sogni irrealizzabili; schiacciata dal peso di un cognome che mal si accosta a qualsiasi altro –  produce un suono cacofonico in ogni caso, farebbe notare Blaise Zabini in uno dei suoi letali e magnifici sorrisi abbaglianti – e che da sempre aveva confinato se stessa nel ruolo di damigella d’onore.

L’onore per altro le era dovuto dalla totale assenza di altre pretendenti al ruolo, più che per qualche sua dote, o prestanza fisica o particolare affezione da parte della sposa nei suoi riguardi.

Per inciso la sposa era la quintessenza dell’insofferenza e del netto rifiuto a qualsiasi forma di legame sociale, senza contare la niente affatto momentanea indisposizione con cui si apprestava a vedere celebrare le proprie nozze.

Con queste consapevolezze ben impresse nella testa e una scatola per la sposa saldamente impugnata tra le mani, Millicent varcava la soglia del salone in quel pomeriggio di novembre, ammirando la punta delle scarpe nuove riflessa sul marmo lucido sotto i suoi piedi e preparandosi psicologicamente ad affrontare uno degli incontri più pericolosi della sua vita.

 

Molte persone nell’arco della loro esistenza hanno finito con il desiderare di essere Blaise Zabini almeno per una volta, che vogliano accettarlo o meno, ammetterlo o negarlo, è certo che è successo. Chi perché Blaise Zabini aveva una classe innata e intrinseca; chi per il patrimonio che gli permetteva di acquistare capi che sottolineassero sfacciatamente quella eleganza; chi perché era una mente tanto brillante da non essere minimamente portato per la aritmanzia ma avere inspiegabilmente i voti più alti della classe. C’era anche chi lo invidiava perché volendo avrebbe potuto avere chiunque nel suo letto ogni sera, potendo scegliere persino l’orientamento sessuale del giorno, non avrebbe fatto differenza, uomini o donne, chiunque almeno una volta ha desiderato finire sotto le sue coperte con lui accanto.

C’era poi chi voleva essere Blaise Zabini per il semplice motivo che era il migliore amico di Pansy Parkinson, e non avrebbe avuto mai alcun genere di problema nel doversi rapportare con lei.

Tra queste persone spiccava il nome di Millicent Bullstrode, dilaniata da un non indifferente conflitto di interessi: se da una parte desiderava avere la benevolenza che Pansy riservava solo a lui, ed essere quindi Blaise Zabini, dall’altra parte voleva anche finire nel suo letto, ed essere quindi con Blaise Zabini. Questo indicibile tormento interiore andava avanti dai suoi undici anni, tuttavia forse era giunto il momento di attribuirgli l’importanza dovuta una volta tanto, considerando che con molte probabilità la sua vita finiva quel giorno, a ventidue anni, nella camera da letto di Pansy Parkinson, Nott Manor, Novembre 2004.

 

●●●

 

«Dove corre, Madmoiselle

Le intenzioni di Millicent vennero fermate dalla voce di qualcuno poco distante da lei. Volgendosi indietro, ebbe modo di notare Blaise Zabini, posatamente seduto in un angolo del divano nel salone, intento a sorseggiare del brandy che aveva tranquillamente ordinato come se fosse a casa sua. Fingendo di non aver trascorso sette lunghi anni a morire dietro la scia del suo profumo e l’orma dei suoi passi, Millicent si schiarì la voce approntando un sorriso.

«Devo portare queste a Pansy» rispose cercando di non guardarlo troppo a lungo e mostrando il plico delle partecipazioni che aveva in mano. Blaise la squadrò senza battere ciglio, prendendo un sorso di brandy e gustandone il sapore sulle labbra. Di nuovo, Millicent finse di non voler essere il contenuto di quel bicchiere.

«Capito» fu la risposta, accompagnata da un sopracciglio aristocraticamente inarcato in posizione di divertito scetticismo, e un sorriso sornione sulle labbra chiare. Se solo fosse stato un po’ più eloquente, Millicent avrebbe potuto trarre conclusioni certe, senza doversi domandare se quell’aria minacciosa di avvertimento che aveva assunto fosse o meno una sua impressione.

«Pansy è di sopra?» domandò con fare pratico, fremendo appena. Blaise annuì senza perdere quel sorriso indefinito.

«Nel suo loculo. Pardon, intendevo dire camera nuziale» si corresse mentre il sorriso mellifluo di poco prima lasciava il posto ad un bieco sarcasmo, per quanto filtrato dal tono carezzevole della sua voce.

Millicent mise da parte tutto l’amore che aveva per lui e lo fulminò con lo sguardo, riprendendo la propria strada.

«Non le sei di grande aiuto, Blaise, lo sai?» non poté fare a meno di soggiungere a pochi passi dalla rampa di marmo bianco che portava al piano superiore. Blaise le sorrise più indulgente, restando in silenzio per un po’. Lo sguardo adagiato sul piano in cristallo del tavolo che aveva davanti, sembrava stesse scrutando una verità più profonda nascosta nella goccia di liquore scivolata dal bicchiere.

«Non è nei miei piani esserlo».

Ancora più infastidita Millicent gli voltò definitivamente le spalle. Del resto quel legame tra Blaise e Pansy lei non era mai riuscita a comprenderlo. Aveva sempre pensato che forse c’era troppa affinità tra quei due perché un terzo potesse avere voce in capitolo, ma se così fosse stato, era costretta a chiedersi quale fosse il ruolo di Draco Malfoy lì in mezzo. Decisamente strano, continuava a ripetersi tutte le volte che finiva con il pensarci. Ogni tanto aveva provato a chiedere a Pansy di spiegarle come fosse successo che lei, Blaise e Draco fossero diventati tanto amici, ma non otteneva mai risposte. Un po’ perché Pansy non era a proprio agio con le domande, un po’ perché infondo una vera risposta non l’aveva neanche lei probabilmente, non esprimibile a parole quantomeno. Di certo però tutti e tre nascondevano accuratamente agli altri la chiave di volta di quel loro legame, e nessuno era mai riuscito a trovare quel nascondiglio. Erano stati dei custodi astuti, schivi, silenziosi ed irridenti.

Tipicamente Slytherin.

 

●●●

 

Can it be that it was all so simple then
Or has time rewritten every line
If we had the chance to do it all again,
Tell me, would we, could we?

[The way we were – Barbra Streisand]

 

Tuttavia parlare di Draco Malfoy adesso non era certamente una buona idea, e onestamente Millicent non riusciva a capire neanche come potesse Pansy trovare del conforto nel frequentare ancora Blaise Zabini, quando non faceva altro che sbatterle in faccia il fatto che il trio d’argento si era diviso da tempo, ormai.

Ben inteso che a lei non potesse che fare piacere, aveva molte più occasioni di girare intorno a lui in quel modo, ma le sembrava inequivocabile l’assenza che permeava ogni loro silenzio da quando gli anni di Hogwarts erano finiti e Draco Malfoy e Pansy Parkinson avevano smesso di rivolgersi la parola, di guardarsi, di incontrarsi, in qualsivoglia occasione.

«Pansy?» domandò bussando leggermente alla porta. Dall’interno non giunse alcuna risposta se non un fruscio di vestiti e un sospiro. Pensando che con molta probabilità stava provando il vestito per il ricevimento di quella sera, Millicent sospinse la porta ed entrò nella stanza immersa nella penombra, offrendo un sorriso conciliante all’amica.

«Volevo chiedere un parere a Blaise, visto che ha un indubbio buongusto, ma mi ha infastidito come al solito e ho lasciato perdere» comunicò sfogliando le diverse tipologie di partecipazione fino a trovare il prototipo che le sembrava più appropriato. «Secondo- ».

In piedi su quello che comunemente verrebbe chiamato sgabello da sartoria, Pansy sembrava poggiata su un piedistallo, avvolta nel bianco del suo vestito da sposa, lasciava che il tessuto di seta fine le fasciasse il corpo mentre ruotava di mezzo giro sulle punte, per potersi guardare meglio nello specchio. Aveva lasciato le tende semichiuse, così tutto quello che svettava nella penombra della stanza era il candore luminescente del vestito e la luce dei suoi occhi scuri, fissi nello specchio, eppure incredibilmente lontani.

Millicent non mosse un passo, restando a guardarla. I capelli neri erano raccolti in uno chignon approntato alla svelta poco dopo il risveglio, alcune ciocche le erano scivolate sul viso, adombrando la sua pelle chiara. Non le era mai parsa tanto bella e fragile come in quel momento, pensò distogliendo lo sguardo come abbagliata.

«Sei bellissima».

Quella frase era risuonata nella stanza come fosse colpevole, mormorata flebilmente come fosse un’accusa o una verità scomoda e sconveniente da dover tenere nascosta. Millicent sapeva che Pansy non voleva sentirselo dire, ma era così palese, quanto fosse diventata bella nel tempo, che non aveva potuto fare a meno di rendere giustizia alla verità e lasciarselo sfuggire a mezza voce, in un respiro mozzato.

Alle sue parole tutto quello finì.

Pansy scese dalle punte, tornando ferma sulle piante dei piedi, gli occhi abbandonarono il riflesso di se stessi dallo specchio, e recuperando la bacchetta Pansy ordinò alle tende di aprirsi alla giornata. La luce della mattina inondò la stanza, travolgendo la figura esile di Pansy e macchiando di colore il bianco perfetto del vestito. Lo chignon si disfece del tutto mentre la regina di ghiaccio scendeva dal suo piedistallo e si toglieva il vestito da cigno. Con una morsa allo stomaco ancora più colpevole, Millicent non poté fare a meno di pensare che era comunque troppo tardi per rinnegare, e che se fosse stato lì in quel momento, Draco Malfoy l’avrebbe trovata ugualmente bella. Con i capelli sparsi disordinatamente sulle spalle, un vestito troppo lungo e, soprattutto, con il cuore spezzato dal susseguirsi di eventi della sua vita.

«Fa vedere» replicò ignorando il commento di prima.

Non avrebbe permesso a nessuno di trovarla bella. Qualunque osservazione, qualunque complimento che le venisse rivolto aveva il potere di farla innervosire, di mandare in pezzi il suo autocontrollo, di violentare la sua intimità. Nessun altro avrebbe dovuto posare gli occhi su di lei, a stento permetteva a suo marito di toccarla; quando facevano l’amore lei teneva gli occhi chiusi e approfittava della distrazione nell’estasi di Theodore per poter cercare una via di fuga in cui annidare i propri pensieri fino a quando tutto quello non fosse finito.

Millicent le porse i cartoncini, sbottonando per lei la chiusura del vestito. La seta scivolava tra le dita con la stessa fuggevolezza con cui Pansy evitava lo sguardo di chi la conoscesse troppo bene.

«Blaise è ancora qui?» domandò continuando a scorrere i modelli di partecipazione, con una velocità che rasentava quasi la frenesia. 

«Beve brandy nella Sala da Ricevimento» rispose Millicent lasciando trapelare in tutta onestà un certo astio nella voce. Le labbra di Pansy si adagiarono nella morbidezza di un sorriso lontano.

«Con quel suo impeccabile manierismo, riesce ad offuscare del tutto la maleducazione del gesto in sé» proseguì mentre Pansy lasciava cadere il vestito ai propri piedi, dimenticandolo in terra mentre trovava qualcos’altro da mettere addosso.

«Sembra che non si ponga mai alcun problema lui, come ad esempio cosa penserà Theodore del fatto che qualcuno beve tutto il suo brandy».

Pansy scrollò le spalle con indifferenza, portando un pettine tra i capelli, davanti allo specchio.

Millicent si domandò se avesse sentito anche mezza parola di quanto le aveva detto, e notò che aveva lo stesso sguardo lontano e sornione di Blaise poco prima, tutto preso a guardare quella goccia di liquore.

«Theodore non sopporta il brandy. Lo trova stucchevole».

Millicent le lanciò un’occhiata sbalordita, ma non riuscì a perforare la coltre di pensieri segreti che Pansy condivideva con la propria immagine nello specchio.

Così a Nott Manor c’era una riserva speciale di Brandy per il signor Zabini.

«Pans. Certe volte mi chiedo come faccia Theodore a sopportare tutto questo».

Ammise lasciandosi cadere sul letto con un sospiro.

Pansy le offrì un sorriso un po’ triste.

«Non poteva avermi ad altre condizioni».

 

 

What’s next

 

“Forse tra tutti e due, poteva credere di amare più lui Pansy Parkinson di Draco Malfoy.

Si era dovuto ricredere, quando aveva assistito di nascosto all’ultimo sguardo che lui le lanciò.”

 

“Cosa mi avresti detto, Blaise? Se non ti avessi detto che mi sposo.”

Chiese infine, con la dolcezza di un perdono.

Lui non aspettava altro che il permesso di poter cedere.

“L’ho visto”.

 

 

 

 

  
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