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Autore: Moka96    08/06/2015    1 recensioni
"Io, Gerard Way, professore di fisica quantistica della pìù rinomata Università Californiana, stavo per mostrare a me stesso e al mondo intero, l'esistenza di un mondo parallelo.
L'esistenza di una vita extraterrestre, di un pianeta simile al nostro in tutto e per tutto.
Insomma, non sarebbe confortante sapere di non essere le uniche formiche di quest'universo?"
[FRERARD]
Genere: Avventura, Drammatico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri, Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Ray Toro | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
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"Dearly beloved are you listening?
I can't remember a word that you were saying.
Are we demented or am I disturbed?
The space that's in between insane and insecure."

 

 






_22 Marzo 2090, L.A. Private University.

“Mi chiamo Gerard Way, e sarò il vostro insegnante di fisica quantistica per il resto del successivo pentamestre.”
Così mi presentai alla nuova e come al solito nullafacente classe che mi era stata assegnata a inizio anno. Più di cento studenti tutti in una sola aula e nessuno di essi era riuscito ad attirare la mia attenzione.
In un attimo mi ritrovai già impegnato a sistemare i libri nella mia cartella personale: difronte a me il paesaggio di un aula completamente deserta, animata soltanto dall'assordante ticchettio dell'orologio posto sulla parete alle mie spalle, che con la presenza degli studenti pareva sparire.
Ultimamente il tempo passava così velocemente che sembrava non avessi neanche un momento per respirare, e probabilmente non ero l'unico a pensarlo.

“Ehi cervellone, ti hanno fatto dannare anche oggi?”

Avrei riconosciuto quella voce fra mille.

“Dovresti essere a lezione, biondino.”
“Ma domani ho l'ultimo esame, poi potrò romperti le palle per il resto della tua carriera, non sei contento?”
Sentii la sua mano posarsi sulla mia spalla con un tonfo piuttosto pesante: tipico comportamento poco affettuoso di mio fratello.
Quel che gli mostrai fu soltanto una smorfia con cui tentavo di nascondere un sorriso; ero fiero del mio fratellino, presto si sarebbe finalmente laureato in Ingegneria dopo tutte le lamentele che si è dovuto subire da nostra madre.
Il suo sogno era diventare un musicista, ma di questi tempi cosa se ne fanno le persone della musica? Eppure, nonostante la sua allegria, non vedevo felicità, soddisfazione, nei suoi occhi.

Soddisfazione come quella che provai io nel riuscire a realizzare ciò che avrebbe cambiato il mondo, quello che avrebbe aperto gli occhi di miliardi e miliardi di persone sul pianeta terra.
Già: io, Gerard Way, professore di fisica quantistica della pìù rinomata Università Californiana, stavo per mostrare a me stesso e al mondo intero, l'esistenza di un mondo parallelo.
L'esistenza di una vita extraterrestre, di un pianeta simile al nostro in tutto e per tutto.
Insomma, non sarebbe confortante sapere di non essere le uniche formiche di quest'universo?
Sapere di non essere gli unici in grado di pensare, comunicare, e..

“Gee, mi stai ascoltando?”
“Sì, certo.. scusami.”
“Stavi ancora pensando a quella stupida macchina?” Sospirò lui nel guardarmi con sguardo annoiato.
“Non è una stupida macchina!” Esclamai alzando la voce e gettando tutti i proiettori olografici che tenevo fra le mani, a terra con noncuranza.
Non alzavo mai la voce con mio fratello, ma nessuno, neanche una delle persone piu' importanti della mia vita, poteva permettersi di insinuare che il mio lavoro di anni e anni, fosse una cosa inutile, una perdita di tempo.
Non lo era.
No.

Sospirai nel notare l'espressione spaventata di Mikey nell'osservare la mia reazione alle sue parole e lasciando a terra quello che era finito in frantumi sulle mattonelle color panna del pavimento per colpa mia, lo sorpassai senza proferire parola, dirigendomi solo a grandi passi fuori dall'aula; sapevo già dove mi stavano portando le mie gambe.
Arrivai nel mio laboratorio dopo qualche minuto perché, sapete, non credo proprio di avere un fisico atletico, e di certo le scale non possono essermi d'aiuto.
Non appena varcai la soglia potei respirare la mia aria familiare che solo in quel posto dove trascorrevo la maggior parte del mio tempo potevo trovare.
A differenza di mio fratello, avevo realizzato il mio sogno e possedevo tutto ciò che avevo sempre sognato, nonostante mia madre mi urlasse spesso contro di pensare a me per una volta e farmi una famiglia.
Io avevo già una famiglia; questo posto era la mia famiglia, la mia casa.
Tutto questo era la perfetta rappresentazione del mio io interiore, dei miei pensieri, delle mie teorie.

Il giorno in cui passerò a miglior vita, questo laboratorio morirà insieme a me, lo giuro.

Chiusi la porta con il lucchetto a infrarossi come al solito per evitare visite indesiderate, anche se nessuno sarebbe mai entrato semplicemente perché nessuno ne aveva il permesso, e tutti lo sapevano.
La prima cosa che feci quindi, fu avvicinarmi alla macchinetta del caffè istantaneo, e prenderne una tazza: questo infuso caldo e piacevole non riuscirà a sostituirlo mai nessuno, neanche l'invenzione più moderna di questo fottuto pianeta.
Con ancora la tazza mezza piena di quel liquido scuro fra le dita, mi avvicinai al telo bianco e pulito, segno che ero sempre e costantemente a lavoro, che ricopriva la mia creazione e ne afferrai un lembo, per poi con uno strattone toglierlo via e mostrare di nuovo a me stesso ciò che il mio genio era riuscito a mettere in piedi.
Avevo davanti a me un enorme schermo nero, ancora ricoperto dalla plastica che mi ero assicurato di non togliere per evitare di fargli prendere polvere: ero molto preciso su queste cose.
Poco più in là un semplice tavolino in legno, il mio solito piccolo schermo olografico e due...pulsanti.
Sì, due pulsanti.
Ma non due pulsanti qualsiasi: quei due pezzi di plastica, all'apparenza inutili e insignificanti erano il fulcro di tutto il mio lavoro.
Al loro interno vi era la chiave d'accesso a quel mondo forse reale, forse inesistente.
Nessuno durante gli ultimi dieci anni aveva mai creduto in me.
Nessuno credeva che delle semplici microparticelle potessero alterare lo spazio-tempo per poterci permettere di osservare ciò che non era mai stato visibile all'occhio umano.

Ero nervoso, agitato, incontrollabilmente irrequieto, perché oggi era il fatidico giorno.
Oggi avrei finalmente saputo se tutte le mie teorie erano vere oppure solo una vana speranza dell'uomo nel ricercare continuamente una forma di vita con cui confrontarsi, come durante il corso degli anni è sempre successo, ma senza alcun risultato.
Oggi avrei finalmente saputo se ero io l'idiota che ha sprecato dieci anni dietro ad un'inutile invenzione sulla quale ha investito la sua carriera, o gli altri, che non hanno fatto altro che smentire le mie teorie e ridere di me.
Mi sedetti difronte a quell'enorme piattaforma che ora in confronto a me sembrava essere colossale e rimasi per qualche secondo a fissarla, prima di accendere il mio fidato schermo olografico, che conteneva i dati di una vita, e maneggiare con alcune opzioni che mi sarebbero servite in caso avessi avuto ragione.
Ora era giunto il momento di conoscere la verità.
Le mie mani sudate per la tensione quasi non accennavano a muoversi, ma raccolsi tutta la forza che era in me per alzarne una dalla scrivania e portarla proprio sopra il curvo bottone verde d'accensione dell'intero sistema.
Fallo, Gerard.
Fallo.


Suggeriva il mio Io interiore, e dovetti dargli ascolto.

Strinsi gli occhi, non volevo neanche vedere quel che stavo facendo e quello che avrebbe comportato, e premetti il pulsante.
Il nulla.
Non sentii nulla pochi secondi dopo aver compiuto l'azione tanto attesa.
Gli occhi chiusi e ancora stretti, quasi come se non volessi farvici passare neanche un filo di luce.
Occhi che però dovetti aprire poco dopo, occhi che rimasero delusi alla vista dello schermo ancora nero, vuoto.
Allora era vero.

Dieci anni.
Dieci anni rinchiuso dentro questo fottuto laboratorio che considero come una casa, dieci anni passati a elaborare ogni minimo pensiero che mi passava per la testa per perfezionarlo e dargli un senso per renderlo parte della mia teoria grazie alla quale l'uomo avrebbe fatto un passo avanti nella storia della scienza.
Dieci anni di speranze vane.
Non sapevo neanche io quale strana emozione stavo provando in quel momento.
Probabilmente era un misto tra rabbia, odio, delusione, e chi più ne ha più ne metta.
Ero intento a fare di me e della mia “stupida macchina” un'inutile verme, quando fui attirato dall'apparizione di due strane parole sullo schermo.

Keep Runnin
g.

Al di sotto di esse le solite due scelte “Yes” e “No”.
Credetti davvero che in quel momento il mio cuore avrebbe cessato di battere.
No, no, non era possibile.
Doveva per forza essere frutto della mia immaginazione che in qualche modo mi stava facendo credere di aver ragione, forse non voleva deludermi, forse...

“Al diavolo!”
Esclamai e cessai di pensare, per iniziare a fare ciò che il mio istinto mi suggeriva: continuare a correre.
Ed è proprio quello che feci.
Premetti su “Yes e quel che ne seguì furono ancora altri minuti di buio completo.

Nero.
Stavo iniziando ad odiare quello che tutti chiamano “colore”, quando invece è solamente il risultato di tutto l'insieme di pigmenti di colore che ci circondano e che assorbiti, formano ciò che comunemente viene chiamato proprio così: “Nero”.
E' stupido, sì.
Ma in questo momento avevo ben altre cose a cui pensare.

Improvvisamente davanti ai miei occhi, il famoso “Nero” si tramutò in un colore sempre più chiaro, prima tendente al grigio, poi al color panna e poi... colori che credevo neanche esistessero, non potevo descriverli, non ne ero in grado.
Un fascio di luce bianca invase lo schermo, e anche me, che istintivamente dovetti coprirmi il volto con un braccio quasi come se quel chiarore avesse potuto bruciare la mia pelle, altrettanto pallida.
Scostai il braccio solo quando vidi la luce attraverso la stoffa della camicia a quadri attenuarsi, e quel che trovai difronte a me mi mise i brividi.
Una vasta distesa di quella che sembrava essere sabbia...o forse semplicemente era solo roccia, non capivo neanche se fosse un materiale che ero in grado di definire, un materiale esistente al mondo.
Ma quel che appariva alla mia vista, era come se fosse immobile, come se avessi davanti a me una stupida foto di un qualsiasi paesaggio in una qualsiasi parte del mondo.
Una cosa però attirò la mia attenzione tanto da farmi indossare gli occhiali da vista che odiavo portare, e a farmi avvicinare di più allo schermo.
Una “cosa”, non sapevo come definirla, in fondo a quell'apparente immagine, che a differenza del resto, si ingrandiva man mano con il passare del tempo, lentamente.
Una sagoma!
Ecco quel che riuscii ad definire quando la cosiddetta “cosa” si avvicinò allo schermo. Potevo ancora solo distinguerne i contorni ma ero sbalordito.
Non era la sagoma di una creatura mistica, ne quella di un alieno dalla testa ovale e la faccia torpida e dannatamente brutta: era un essere umano.
E finalmente capii.

Erano loro gli idioti.

   
 
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