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Autore: Aphasia_    08/06/2015    1 recensioni
Con "Ricordi" la protagonista della fiction definisce se stessa e le altre persone come lei: i fantasmi. A differenza però dei suoi simili, possiede una capacità incredibile: ha la capacità di viaggiare, cosa che generalmente è vietata ai fantasmi (specialmente ai condannati, ovvero a quelli che hanno ancora delle faccende in sospeso con la propria vita umana). Tuttavia a tutti è concessa la capacità di sognare, anche se si tratta più che altro di immagini, memorie della propria vita, qualunque cosa possa confortarli o al contrario ricordar loro dei propri peccati, delle proprie azioni commesse quando erano in vita. Ma al "ricordo" protagonista accade qualcosa di inaspettato, sogna un ragazzo misterioso che le dichiara il suo amore. Decisa così a seguire quel sogno, e per abbattere quella solitudine fatta delle solite conversazioni tra "ricordi" (ovvero fantasmi), e convinta che sarà proprio l'amore il suo riscatto, la sua salvezza, partirà per un viaggio difficile. Scopo: trovare il ragazzo del sogno.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non è facile trovare se stessi. Nella vita almeno quanto nella morte. Era una cosa che avevo cercato di capire da viva e che stavo per capire da morta, persino ora,quindi, che non ero nessuno. E come poteva qualcuno che non è nessuno, cercare se stesso? Amavo, seppur in un sogno, e questo doveva pur significare qualcosa. Che esistevo, per esempio. E questo me lo ha insegnato la ragazza che non sapeva di potermi vedere. La muta. Mi vide, e anche se ero abituata ad essere vista da persone uniche e speciali, persone con un "dono", capii che esistevo, che esistevo per davvero, e non come una semplice visione, ma che esistevo come essere che può fare la differenza, che può cambiare una vita, che può cambiare le cose.

La prima volta che la vidi, ascoltava della musica, ad occhi chiusi. Il parco quella mattina era meno affollato del solito, essendo ancora troppo presto per poter ospitare quella consueta moltitudine di umanità. La testa della ragazza ondeggiava almeno quanto le foglie mosse dal vento mattutino. Quanto doveva essere bello- pensai- esistere in quel modo, esistere insieme alle cose e non semplicemente separatamente. Quanto doveva essere bello- pensai- essere. Era come una danza, una bellissima, travolgente danza con la vita, e chissà che musica ci sarebbe stata a fare da sfondo, forse una bella canzone francese, lenta, dolce, anche un po' nostalgica, una canzone d'amore che parla di amanti che non possono amarsi, una canzone malincolica, eppure carica di speranza, una di quelle che ascolti e che desideri ballare con la persona che ami, fosse anche il vostro ultimo ballo.
Ma tutte le musiche terminano, ogni danza finisce, e dopo l'ultimo passo senti come una mancanza, come se, finita quella musica, fossero finiti anche i suoi, la vita. Silenzio, di quelli atroci, di quelli che senti che sei sola, e allora provi a cantare, riproduci quella bella canzone francese, ti arrampichi a quel bel ricordo. Ma non c'è comunque musica, e c'è comunque solitudine. Fu lo stesso che successe alla ragazza, la sua canzone finì. Aprì gli occhi, mi vide. Di nuovo silenzio, di nuovo nessuna musica. Vide che la fissavo, e, spontaneamente, innocentemente, mi fece la domanda più difficile del mondo:
«E tu chi sei?»

Avrei voluto dirle così tante cose, avrei voluto spiegarle del sogno, della mia missione, avrei voluto spiegarle cosa fossi e perché fosse in grado di vedermi. Ma lei non sapeva, perché dirglielo Allora parla!- pensai. Inchiodata da quella domanda, non riuscii a rispondere. Sono un fantasma che cerca l'amore, come le sarebbe suonato? Non altrettanto bene, non melodioso come quella bella canzone. 
«Sono un essere innamorato» risposi. Banale. C'erano almeno due errori in quella frase. "Sono", ed "essere", dopotutto la stessa cosa, ovvero esistere. Esistevo.
La ragazza mi guardò per un lungo istante, poi mi sorrise, di quei sorrisi che possono cambiare anche la situazione più complessa che si possa immaginare, di quei sorrisi che potrebbero persino riportare in vita un sentimento morto per sempre. E tornò la musica. Mi sorrise, e allora forse...forse esistevo.
Mi sedetti, timidamente, a fianco a lei. E, finalmente, parlai, tralasciando di rivelarle cosa realmente fossi.
E fu proprio per questo che parlammo così naturalmente, perché non c'era traccia di paura nel suo volto, nessun fantasma ad infestare la sua felice esistenza. Nessun incubo, eccetto quello con il quale stava parlando, senza saperlo.
Mi disse che era innamorata e che non aveva il coraggio di dirlo, mi disse che aveva paura.
Allora, solo allora, le confessai tutto.
«Se un fantasma può innamorarsi, puoi farlo anche tu» le dissi «Non avere mai più paura». Era come se volessi pronunciare una qualche sorta di incantesimo, volevo che non avesse paura, volevo che amasse. 
La muta, proprio come quando aveva aperto gli occhi dopo la sua bella canzone, mi fissò per un lungo momento, ma non sorrise. Non disse più nulla. Aveva capito tutto, senza bisogno delle parole. Ma come era possibile, dopo aver visto una come me? E come potevo pretendere che scappasse se le avevo appena chiesto di non avere paura? Paura, ma non di me. Della vita, non doveva avere paura della vita, e nemmeno della morte. 
Forse avrei dovuto spiegarmi meglio, e la muta non mi aiutava a capire se fosse spaventata o solo confusa.
«Non avere mai più paura della paura» riprovai.
Finalmente, una reazione. Un altro sorriso, poi una profonda serietà. Terribile, ma selvaggiamente bella. Era la verità. Una rivelazione sulle sue labbra. Non aveva il "dono" di vedermi, non ne aveva bisogno. Era come me.
«Chi sei?» mi richiese.
E allora seppi rispondere: 
«Sono una ragazza innamorata. E non ho paura.» risposi. Esistevo.
«Sono una ragazza innamorata. E non ho paura», mi fece eco lei.
Era un fantasma, ed era innamorata anche lei, e anche lei non aveva più paura. Perché esistevo, perché esisteva.
 
  
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