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Autore: Ghevurah    09/06/2015    6 recensioni
Nel suo ricordo non v’è rimpianto: è naufragato al largo di sponde straziate, tra i marosi del mare. È stato arso dalle fiamme, dal buio che radica in animi asserragliati dall’odio. Per questo il suo sguardo non conosce biasimo, solo condivisione. E sotto la neve che quieta la ferocia del mondo, Curufinwë è semplicemente suo fratello.
Oltre ogni crimine, oltre ogni giuramento: Celegorm e Curufin.
Genere: Angst, Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Celegorm, Curufin
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Mí sercë, mí fëa - Nel sangue, nell'anima'
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Questa storia è stata scritta senza scopo di lucro. Personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne abbia acquisito o ne eserciti i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.

La “poesia” iniziale è parte integrante della storia, e a tal riguardo vorrei ringraziare Aliseia per avermi rassicurata su di essa.

Infine vorrei citare l'autrice LiveOakWithMoss, a cui vanno i "diritti" per alcuni headcanon qui citati.

Elenco dei nomi Quenya impiegati nel testo con corrispondenze in lingua Sindarin:
Tyelkormo - Celegorm
Findárato - Finrod (Nóm)
Curufinwë (Curvo) - Curufin
Ambarussa - Amras
Ambarto - Amrod
Carnistir - Caranthir
Makalaurë - Maglor
Russandol - Maedhros
Fëanáro - Fëanor
Tylperinquar - Celebrimbor



















 
Otornassë - Fratellanza  




 
Ho ascoltato il tuo respiro, questa notte
Nel buio che attraversa la pelle
e si allunga fra noi come un oceano incolmabile
Ne ho scorto l’impronta sulla tua anima
senza bisogno di sapere,
di indovinare alcuna confessione
Non siamo fatti per questo,
io e te.
Ti vedo sospeso fra il sonno e la veglia
dove gli incubi s’addensano
Vorrei tendere la mano per trarti in salvo
qui, da qualche parte
Ma il buio allaga anche i miei orizzonti
Mi sommerge
Non c’è alcuna salvezza nella presa che ti offro
Eppure possiamo annegare, così
Assieme
Cullati dal suono dei nostri respiri.
 






 
I. Nargothrond


La pioggia è l’eco d’un lamento abissale che sdrucciola e scivola e preme sulla cupola di terra sotto cui sono sepolti. Fuori la foresta starà annegando? Può immaginarla: alti rami che allungavano dita nodose verso il cielo ora tramutati in relitti agonizzanti, tratti dall’acqua verso il suolo buio, opprimente. Come loro in quella gabbia di roccia e oro, ove l’aria sembra mancare e i legami si sgretolano al pari dei ricordi.
Suo fratello trasuda ombra, occhi di tempesta incastonati in una maschera d’avorio e livore. Tyelkormo sa a cosa sta guardando: all’eredità di Findárato che aleggia in quelle aule come lo strascico delle sue stesse vesti, soave quanto impietosa. Poiché mentre loro credevano d’esser la serpe astuta, intenta a iniettare il proprio veleno, egli, aurea farfalla d’etere, aveva già irretito colui che entrambi amano. Mielosi sussurri inneggianti una bontà fallace, una tela di rugiada e vane speranze, tali erano le armi di Nóm.
Ma non è questo a lasciarlo così esulcerato. Asfissiato dai profumi degli incensi bruciati per celare il tanfo di umidità, accecato dallo sfavillio irritante dell’oro che intarsia le pareti, là dove altrimenti si scorgerebbero solamente pietra e fango. Non è questo a fargli mancare il fiato, no. E non lo sono neppure il tradimento del compagno di sempre, il rifiuto d’una principessa sfuggente o il bando da quella città tumulata.
È la desolazione che abita lo sguardo di suo fratello, oltre le tempesta, oltre i venti e le nubi. Perché quando la furia si spegnerà resteranno pugni di cenere.
Così lui tace, mentre le parole d’odio di Curufinwë si sostituiscono agli inganni germinati in quelle sale. Divorano lo spazio, pronunciate in una lingua bandita che risuona piena, corposa, e s’abbevera di sentimenti brutali.
Lo specchio di contegno che divideva suo fratello dal resto del mondo è andato in frantumi: schegge di vetro a incidere la carne. Lì, in piedi, con le labbra serrate in una piega livida e il volto scavato da una commistione interiore, c’è una creatura nuda.
Non oserà più portare il mio nome; dice, anzi sibila. E il suo tono è spezzato, affaticato dal lunga salmodia di invettive. Si passa una mano, così sottile e bianca sul viso, poi indietreggia puntellandola sul tavolo da lavoro. I suoi capelli sono seta liquida che scivola fra le scapole, lungo la schiena improvvisamente meno solida, simile al lume tremante d’una candela.
Per un istante Tyelkormo pensa di alzarsi e cingergli le spalle e carezzargli i capelli delicatamente, come non s’azzarda a fare da secoli, da quella gelida notte sugli Orohaldar1. Ma è solo un istante. Suo fratello odia il contatto, suo fratello odia credere di essere compatito e considererebbe il suo gesto una dimostrazione di compatimento.
Dunque rimane lì, seduto, ad ascoltare il respiro di Curufinwë tremare, mentre il silenzio si gonfia attorno a loro, stride e graffia sino a divenire insopportabile.
Solo allora Tyelkormo si arrende alla parola, ostentando una semplicità che non gli appartiene: Potremmo costringerlo, propone. Potremmo potarlo via con noi usando la forza.
Curufinwë si volta con un movimento fluido, disciolto nella luce calda delle candele. Ma lui può vedere lo spettro d’un dolore arcano attraversare la superficie del suo sguardo e rimenare intrappolato lì, nel ghiaccio argenteo delle sue iridi.
Tyelkormo, chiama con il sibilo di un serpente che si prepara ad attaccare la proprio preda. Cosa ti fa credere che io desideri un tuo consiglio?
Ora i suoi tratti sono taglienti, aspri, mentre gli occhi si fanno sempre più vacui. Specchi oltre cui s’addensano lingue di nebbia, come quando sedeva al concilio del Re e la voce di questi indugiava, carezzevole, sul nome di suo figlio.
Lui piega le labbra in un sorriso amaro. In un’altra circostanza ribatterebbe qualcosa di altrettanto piccato e suo fratello farebbe lo stesso, e andrebbero avanti così sino a lasciarsi divorare da quel fuoco che li accomuna e li allontana allo stesso tempo. Ma ora sceglie di abbracciare nuovamente il silenzio, perché le pareti di roccia sembrano contrarsi, sanguinando oro fuso e l’aria è viziata da nauseanti profumi agrodolci.
Si alza in piedi, portando una mano sullo schienale della sedia. Ne lascia strusciare le gambe posteriori contro il pavimento, producendo uno stridore acuto, deliberatamente prolungato. E assapora l’espressione sul volto di Curufinwë: la mandibola contratta, le labbra livide tese in una piega di puro fastidio che lo fa apparire ancora più pallido, più furente. Allora Tyelkormo allarga il proprio sorriso, solleva la sedia per sistemarla dietro il tavolo da lavoro e lascia la stanza.
 
 
 
Il ricordo è una cortina di bruma sottile, effimera, che scivola e danza nell’aria al suono d’una melodia perduta. E la sua mente viene rischiarata da un bagliore in grado di sanare le ferite dell’animo.
C’è una freccia incoccata, la perfetta stasi del corpo teso, vigile, avvolto da quel calore che scivola sulla pelle in una carezza  ambrata. Poi un alito di vento smuove le fronde, le sue dita lasciano la presa e la freccia fende l’aria con un sibilo. Huan ne segue subito la traiettoria, un fulmine pallido nel manto ombroso del sottobosco.
Tyelkormo si sistema l’arco in spalla e sta per incamminarsi a propria volta, quando una voce lo ferma.
Seldonya2.
È un mormorio lieve, simile al frusciare delle foglie, ma roco quanto il verso gutturale d’un animale e profondo, anche, come il richiamo della foresta notturna che palpita di mistero.
Lui non si volta, non lo fa mai nei ricordi. Ma sa che se lo facesse i suoi occhi, pur scaltri, verrebbero inizialmente ingannati: gli sembrerebbe di scorgere solo la sacrale immobilità degli alberi, il riverbero prezioso di Laurelin tra le volte di fronde. L’unica peculiarità che noterebbe sarebbe un’inquietudine sottile a permeare l’aria. Allora il suo sguardo si farebbe più accorto, e nella staticità della boscaglia scorgerebbe una figura maestosa. In piedi, fra gli alberi, alta quanto i più piccoli di essi e ammantata di foglie e ossa e pelli. Occhi esiziali in grado di abbracciare la foresta intera in un vaglio onnisciente. Un’aurea selvaggia impressa sul corpo, sul volto, sulle labbra tese in una piega ferale.
Seldonya, dice ancora e l’alito di vento che smuove le foglie sembra echeggiare le sue parole. Non abbandonare la tua posizione sino a che Huan non sarà tornato a te con la tua preda.
 
 
C’è un sentiero celato nell’erba alta, un sentiero tracciato dall’abitudine. Lui lo percorre con l’arco in spalla e i pugnali alla cintola, mentre la luce di Laurelin scivola alle sue spalle come un velo, tingendosi lentamente di sfumature argentee. Huan è al suo fianco, una presenza tanto silenziosa quanto costante.
Ma nel ricordo s’insinua una malinconia arcana, sembra abitare la foresta, impregnare le luci cangianti che rischiarano quello spicchio di mondo e guizzare nell’erba per poi proiettarsi all’orizzonte, verso la casa in cui lui si sta dirigendo.
Tyelkormo allunga una mano sul dorso di Huan, carezzandolo lievemente. Gli occhi selvatici della creatura lo scrutano svelandogli una muta domanda, una preoccupazione tenera a cui risponde con un sorriso rassicurante.
Va tutto bene, mormora.
Poi viene accolto da profumi e suoni ancor più famigliari di quelli provenienti dalla foresta. Il suo sorriso si allarga, e quel sentore di malinconia si perde nelle voci cristalline dei suoi fratelli minori.
I rumori della forgia lo raggiungono per ultimi, più ovattanti e lontani, assieme con il punteggiare degli scalpelli. Ma sono i gemelli ad attirare tutta la sua attenzione, correndogli incontro. Lo chiamano, ridono, così simili e così diversi. Lui lascia cadere le armi che reca con sé e tende le braccia verso di loro.
Ambarto è il primo a cingergli le spalle per farsi prendere in braccio. Soffoca un’altra, piccola, risata fra i suoi capelli e lui gli bacia il capo, mentre con la mano sinistra carezza Ambarussa. Si china al fianco di quest’ultimo, poi, e quando suo fratello si aggrappa a propria volta alle sue spalle, cerca di sollevarlo usando il braccio libero.
Perde l’equilibrio quasi subito, cadendo nell’erba assieme ai gemelli, stretti a lui con tale caparbietà da scaldargli il cuore. Allora la sua risata si mischia alle loro, e la sua visuale viene invasa da nuvole ramate stagliate su un cielo sempre più argenteo.
Credi davvero di poterli ancora prendere in braccio assieme? Chiede, scettica, una voce alle loro spalle.
Lui e i gemelli inarcano il capo all’indietro per vedere la figura di Carnistir, braccia conserte e sguardo torvo, svettare sopra di loro.
Vorresti che prendessi in braccio anche te, hanno3?
Carnistir sbuffa e nuove risate si alzano nell’aria.
 
 
Potrebbe sembrare tutto come sempre: i gemelli a giocare sotto lo sguardo attento di Carnistir, suo padre e Curufinwë nella forgia, sua madre nell’atelier, Russandol e Makalaurë in Tirion.
Ma bastano le parole mute che aleggiano negli occhi di suo fratello ad accogliere quella malinconia senza nome affacciata alla sua anima. Così, quando la luce di Telperion impreziosisce il profilo di Túna, lui scopre una piccola grande novità.
Curvo ha annunciato ad Amil4 e Atar5 di volersi fidanzare, gli dice Carnistir. Credevo saresti stato il primo a saperlo, ma a quanto pare mi sbagliavo.
E l’unica pensiero che affiora alla sua mente ha il suono d’una verità banale: Curvo non ha ancora raggiunto la maturità.
Suo fratello inarca un sopracciglio per poi fare un gesto d’assenso.
Esattamente come Atar quando sposò Amil,  mormora o forse pensa Tyelkormo, mentre gli pare di rivedere un bambino dallo sguardo troppo serio sfuggire alle sue attenzioni.
 
 
Poi vi sono momenti d’attesa, momenti in cui la malinconia trascolora in apprensione. E lui, ombra fra le ombre della forgia, tenta di ignorare l’odore acre dei fumi.
Per quanto possa apparire ironico ha sempre odiato quel luogo. Il luogo di suo padre, di suo fratello. Un antro opprimente che risuona di tramesti metallici, innaturali, strappando il respiro un po’ alla volta.
Eppure ora attende dietro la porta socchiusa, silenzioso come sa essere quando lo desidera. Ed è facile, così, discernere i colpi di martello di loro padre da quelli di Curufinwë. I primi, pur costanti, vengono ogni qual volta interrotti da brevi intervalli in cui un rumore di passi si leva assieme con i secondi.
Lui può immaginare che Fëanáro sfrutti quelle pause per affiancare suo fratello e controllarne il lavoro, mentre questi continua, instancabile. I muscoli già tesi permeati di un’ulteriore rigidità, sottile quanto il velo di sudore che guizza sulla sua pelle, eppure sempre presente quando lo sguardo di loro padre lo coglie.
Ad un tratto anche il secondo martellio cessa, sostituito dallo sfrigolio d’un corpo bollente raffreddato nell’acqua. Le voci di suo fratello e Fëanáro giungono alle sue orecchie subito dopo, basse e indistinte, quasi si siano armonizzate in un unico brusio, un sottofondo allo sfrigolio, al cozzare di strumenti metallici, all’andirivieni di passi.
Lui attende, fintanto che la porta della forgia non si apre con un cigolo. Suo padre compare sulla soglia portandosi appresso un po’ di quell’oscurità da cui è emerso. I capelli sono parte di essa, intrecciati dalle sue dita tenebrose, mentre il viso sembra risplendere di luce propria, pallida e austera, in un contrasto inconciliabile con la densità del buio. 
Atar; lo saluta lui, vedendo il suo sguardo animarsi dagli stessi rifratti argentei che ora tinteggiano il cielo.
Fëanáro gli rivolge un cenno del capo.
Se cerchi tuo fratello, dice, è ancora nella forgia.
E lui ha la certezza che conosca l’esatto motivo per cui è venuto a parlargli.
 
 
                                                                          
 
 
II. Brethil

 
La foresta lacrima gelida agonia: stalattiti inquiete che pendono come moniti dai rami neri. La neve si sfalda sotto gli stivali, sotto gli zoccoli della loro cavalcatura. Una per due. Poi c’è il vento, ultimo schiaffo all'orgoglio.
Tyelkormo è abituato all’asprezza della natura, ma suo fratello l’ha conosciuta solamente  imbrigliata da argini di fabbrica. E mentre in guerra il nemico è l’altro, qui abita il tuo corpo, e non esiste spada abbastanza affilata o scudo abbastanza solido per salvartene.
Si volta a cercare la figura di Curufinwë alle proprie spalle: un fuso d’ombra nel biancore accecante.
Quand’ancora la neve non si era posata del tutto e permetteva loro di cavalcare assieme, suo fratello gli aveva artigliato un fianco. Una presa gelata che sembrava corrodere gli strati di abiti e affondare nella carne.
Questo è il filo della tua ipocrisia, aveva soffiato con voce di nuvole crepate. Questo è il prezzo per aver tenuto con te una creatura dei Valar, dal cui giogo avevi giurato di sottrarti.
Lui, senza voltarsi, gli aveva afferrato la mano, stringendola in una presa ferrea, quasi avesse l’intento di spezzargli le dita. E forse l'aveva davvero.
Non parlare di Huan, háno6. Ed io non ti rammenterò di come quel mortale ti abbia disarcionato e piegato.
Allora Curufinwë aveva masticato un’invettiva, sfilandosi dalla sua presa.
Ora tiene l’arco in spalla, mentre avanza sotto il mugghio sprezzante della bora. Il volto di nevischio svela un nuovo colore della sua rabbia. Una rabbia algida, simile alla morsa del ghiaccio che divora la vita un po’ alla volta.
Lui lo guarda, pensando a quella freccia scoccata e ne ripercorre il tracciato, ultima goccia della loro dannazione. Nel suo ricordo non v’è rimpianto: è naufragato al largo di sponde straziate, tra i marosi del mare. È stato arso dalle fiamme, dal buio che radica in animi asserragliati dall’odio. Per questo il suo sguardo non conosce biasimo, solo condivisione. E sotto la neve che quieta la ferocia del mondo, Curufinwë è semplicemente suo fratello.
Così mentre i confini fra passato e presente si stemperano nel candore, il suo viso sembra modellarsi in quello del ragazzo che un tempo è stato. La morsa del gelo e i giorni di cammino gravano sul suo corpo, abituato all’impronta della forgia, del fuoco, ma nuovo a quella selvaggia d’una natura assiderata. Spogliato delle proprie armi, reca con sé solamente l’arco che ha sottratto a lui per scoccare quelle frecce di vendetta. Un arco intagliato nel Valinor, più adatto alle mani di un Vala che a quelle di un Elda.
E Tyelkormo si accorge di come il peso dell’arma rallenti Curufinwë, i cui movimenti appaiono già intorpiditi dalla fatica di giorni, allora ferma il cavallo che conduce per le briglie, arrestando il passo a propria volta.
Permettimi di riprendere il mio arco, dice alzando la voce per sovrastare il carme funebre intonato dalla bufera, e le sue parole echeggiano un invito di pacificazione.
La risposta di Curufinwë è gelida quanto il vento sulla pelle: Perché dovrei? Porti già tutte le armi che ci sono rimaste.
Lui rimane qualche istante a studiarlo, poi infila una mano tra le pieghe del proprio mantello estraendo con movimenti veloci il pugnale che tiene stretto alla cintola.
Ecco, facciamo uno scambio.
Curufinwë si ferma, alcune ciocche di capelli gli frustano il viso: stille d’inchiostro su di un fondale cereo. Un lampo iroso scheggia le sue iridi, ma subito dopo l’ombra della consapevolezza sembra chetarlo. Si inumidisce le labbra e abbassa lo sguardo. In silenzio gli porge l’arco.
 
 
 
La penombra ha i riflessi sanguigni delle fiamme e suo fratello è diviso tra l’oscurità e la luce timida di un fuoco domato dal ferro. Uno spicchio di volto acceso d’oro, l’altro velato di ombre. Se ne sta lì, di tre quarti, le mani impegnate con utensili tintinnanti, lo sguardo basso e nebbioso.
Lui rimane accanto all’ingresso, appoggiato allo stipite con le braccia incrociate sul petto.
Stai già lavorando agli anelli? Chiede, e la sua voce risuona più ovattata, quasi che la forgia stessa ne stia assorbendo la potenza.
Curufinwë interrompe i propri movimenti per un istante, la spalle irrigidite sotto il grembiule di pelle, poi prosegue il lavoro. Gli risponde senza distogliere lo sguardo dai ferri, lo fa con parole crepitanti, parte dello scoppiettio del fuoco.
La cosa dovrebbe riguardarti?
Tyelkormo tende le labbra in una piega amara, scoprendo appena i denti come certe bestie che sondano il proprio territorio di caccia.
Credevo di sì. Se non vado errato sei mio fratello.
Curufinwë  scuote il capo, mentre alcune ciocche di capelli scivolano in avanti, sul suo petto, abbeverandosi dei rifratti del fuoco.
Dunque sei qui per lamentarti del tuo orgoglio fraterno ferito, dice freddo come un Inverno che ancora non hanno conosciuto. E la sua non è una domanda.
Lui muove qualche passo nella stanza, lasciandosi abbracciare dall’oscurità che asserraglia l’eremo di luce attorno al quale suo fratello sta lavorando.
Con una certa soddisfazione vede le sue spalle irrigidirsi ancora, impercettibilmente, ma abbastanza per essere notate da chi passa le proprie giornate a vagliare i movimenti fugaci della Foresta.
Io ti conosco, Curvo. So che vi è una precisa ragione se hai scelto di parlare ad Amil e Atar quando né io né Russandol o Kano eravamo presenti. Sapevi che noi, che io non avrei taciuto il mio disappunto. E soprattutto sapevi perché.
Curufinwë alza il capo, fermando il proprio lavorio. Le sue labbra si increspano in un sorriso bieco, i suoi occhi riverberano un divertimento grigio e crudele.
Peccato che la vostra opinione in merito abbia ben poco valore.
E per la prima volta da che ha vita, Tyelkormo pensa di aggredirlo. Di afferrarlo per il bavero del grembiule e spingerlo contro la parete, di prenderlo a schiaffi, a pugni, e cancellare a morsi il suo sorriso.
Ma subito allontana quei pensieri. Serra le palpebre e cerca di distendere la mente, lasciandosi raggiungere dal mormorio lontano della Foresta.
Quando torna a rivolgere la propria attenzione a Curufinwë lo vede più pallido, il viso del tutto illuminato dalle f iamme: una patina dorata che ne intarsia la pelle. I suoi tratti sono induriti, le labbra serrate e così, modellato dal fuoco e dall’oscurità che scivola alle sue spalle, gli ricorda  terribilmente loro padre. Nei suoi occhi, ora sottili come lame ghiacciate, si riflette nitida l’immagine di lui.
Ma poi qualcosa cambia.
Il suo riflesso sembra penetrare nel ghiaccio, facendolo incrinare. Un tremore liquido si dipana sulla superficie dello sguardo, altrimenti impenetrabile. E allora Tyelkormo gli volge le spalle.
Tu non sei Atar, dice forse più a sé stesso che a Curufinwë.
 
 
Il giorno del fidanzamento la sua disapprovazione s’infrange come acqua sulla superficie argentea degli anelli scambiati. Hanno mani simili, i promessi sposi, abituate alla forgia, e per lui e i suoi fratelli non è una sorpresa.
Lei ha il viso fumoso di una fra i tanti discepoli di Mathan, negli occhi il sorriso laconico di Curvo, gemello di quello che tende le labbra di loro padre.
Poi passano i mesi e Tyelkormo si lascia inghiottire dalla Foresta, il suono del Valaróma a scacciare le ombre del suo cuore: un vernacolo che scinde le ore, i giorni.
Torna raramente nella casa paterna e lo fa tenendosi stretta l’impronta selvaggia dei boschi, delle fiere a cui da la caccia.
Alla vigilia del matrimonio è Russandol a parlargli.
Gli rivolge quello suo sguardo che tutto discerne, e le sue parole sono comprensive e severe allo stesso tempo: Curvo non lo confesserà mai, ma è prostrato dalla tua indifferenza. Ha bisogno del nostro appoggio e in particolar modo del tuo… Anche se a volte sembra non meritarlo.
Lui sospira, incapace di ribattere.
Vorrebbe dirgli di quanto Curufinwë appaia giovane ai suoi occhi, giovane e schiacciato dall’asserto d’una eterna emulazione. Ma sembra che Russandol sappia già tutto mentre posa una mano così grande, così rassicurante sul suo capo: un gesto colmo d’una tenerezza nostalgica.
Dunque il giorno delle nozze Tyelkormo è lì, a vegliare su suo fratello come sempre ha fatto.
Scorge Curufinwë accanto a loro padre, entrambi vestiti di rosso e argento, dolorosamente simili nelle parti che calcano.
Il viso di suo fratello è bianco come la neve che tinge i Pelóri, bianco e immobile, e i suoi capelli sono una pioggia d’ali corvine, un contrasto che si ripete identico in Fëanáro.
Eppure lui si è sempre sforzato di trovare fra loro quante più differenze possibili. Gli occhi di Curufinwë sono schermati da uno strato vitreo, due schegge al di là delle quali si scorge l’iride argenteo: a volte fumoso, a volte assiderato, come un gioiello fossilizzato nel ghiaccio.
Anche negli occhi di loro padre abita il gelo, ma è di natura diversa: ustionante, corrosivo, acceso di fiamme siderali nella perenne tempesta che li anima.
Tyelkormo li osserva, chiedendosi quanto possano essere difformi i loro pensieri in quel momento. Chi dei due pensa al progetto lasciato sul tavolo di lavoro, chi alle superfici auree degli anelli forgiati, chi, invece, al matrimonio?
Sorride, e proprio quando sta per indietreggiare, per confondersi tra parenti e fratelli, Curufinwë volge il viso verso di lui, incatenandolo a sé con il proprio sguardo.
Rimangono così, occhi negli occhi per qualche istante, mentre nulla trapela oltre il ghiaccio. Poi suo fratello piega il capo in un cenno, un gesto lento e misurato: la formula muta d’una gratitudine a cui non saprebbe dar voce.
 
 
La bagliore di Laurelin è un abbraccio tepido che inizia a velarsi d’argento, mentre Tyelkormo s’aggira per la casa di suo padre: una creatura dei boschi spintasi oltre i propri confini. Scivola sotto le arcate, sorpreso solo dalle ombre che si tendono a sfiorarlo.
Tutto è avvolto in un’ immobilità lieve quanto il pulviscolo dorato che galleggia nell’aria, lieve e fragile. Una stasi rappresa d’inquietudine, dopo che la tempesta s’è abbattuta in quei luoghi. Le pareti echeggiano ancora propositi sobillatori, il timore d’un tradimento striscia fra le colonne, intrecciandosi alle ombre e insinuandosi nei cuori. Ma lui non vi bada, non ora. Silenzioso come quelle ombre, percorre i corridoi e si ritrova dinnanzi alle camere di suo fratello.
Lo trova seduto di spalle, lo sguardo rivolto alle vetrate, al profilo di Túna che fende l’orizzonte. E sta quasi per annunciarsi, muovendo altri passi nella sua direzione, quando si accorge che Curufinwë non è solo.
Seduto sulle sue ginocchia, il piccolo Tyelperinquar segue lo sguardo del padre. Le sue guance sono carezzate da lingue di luce dorata che si trovano e si perdono, sfumando in rifratti opalescenti.
Sorride, radioso, mentre Curufinwë districa i suoi capelli con delicatezza, passando fra essi un pettine d’argento. È di fattura pregiata, arabescato di rami e foglie lanceolate, e lui non esita a riconoscervi la mano di suo fratello.
Poi il suo sguardo si posa ancora su Tyelperinquar, lo vede socchiudere le palpebre, rilassato, mentre suo padre continua a pettinarlo.
Curufinwë tiene il capo lievemente piegato su un lato, quasi volesse avere la più completa visione del bambino.
Il bagliore che penetra dalle vetrate s’infrange sul suo viso, sublimandone i tratti in un appannaggio di luce, ma Tyelkormo riesce comunque a scorgere il sorriso che gli tende le labbra. Un sorriso sincero e dolce, come il suo sguardo. Ghiaccio fuso, ora, in un margine acquoreo, perché nulla è apparso più prezioso riflesso nei suoi occhi, abituati allo splendore di gemme e metalli.
E lui pensa che mai si è sbagliato tanto; nonostante la giovane età suo fratello era pronto per tutto quello, lo era sempre stato.
 
 
 


III. Himring


Ricorda quel giorno nella casa di loro padre, quando l’aria rarefatta delle montagne sembra irrespirabile. Rocce levigate dai ghiacci, scintillano di bagliori cianotici sotto un sole troppo pallido e instabile. Ma l’alterità di quelle terre è condensata nello sguardo di Russandol. Fuoco e sangue a incorniciargli il capo, una furia lucida dipinta sul viso. La sua voce è il memento d'un vento assiderato, e non un’oncia di quell’antica comprensione, di quell’affetto incondizionato, ingentilisce le sue parole.
L’umiliazione s’insinua sotto pelle e Tyelkormo passa i giorni successivi in solitudine, aggirandosi per le montagne. Speroni costellati da arbusti, nulla che ricordi le Foreste del Valinor ma neppure quelle rade  dello Himlad. E come già è accaduto, la sua umiliazione sfocia in una rabbia selvaggia per cui il nemico è semplicemente l’altro, chiunque altro.
Incontra lo sguardo d’un lupo albino, corroso dalla fame, e le frecce non sono abbastanza: troppo gentili nel loro colpire da lontano. Sguaina i pugnali, dunque, affogando nel sangue d’una creatura che condivide la sua disperazione.
La lucidità scivola via, surclassata da un istinto ferale: un inno alla violenza pura, caustica, della natura. Così nulla ha più importanza dello squarcio che apre nel collo del lupo, delle ferite slabbrate in cui scorge il pulsare dei muscoli. Il mondo possiede la torbida semplicità della carne, del sangue, mentre il ringhio della bestia diviene il suo.
Ma nel momento in cui tutto finisce e a lui rimane la memoria di quel rituale atavico impressa sul corpo, c’è solamente il vuoto.
Ha il volto dipinto di venature sanguigne, fra le mani brandelli di carne che un istante prima erano vita, quando l’immagine di Curufinwë balena nella sua mente.
Lo vede solo, nella fredda oscurità della fortezza, ad annegare in quegli stessi sentimenti che hanno divorato lui. Quegli stessi sentimenti e un dolore silenzioso, inconfessabile: il dolore d’un padre che ha perduto il proprio figlio. Qualcosa che né lui né i suoi fratelli potrebbero mai comprendere.
Dunque è il pensiero di Curufinwë a spingerlo a tornare, ad esporsi ancora allo sguardo sprezzante di Russandol, a quello pietoso di Makalaurë. A spingerlo ad attraversare i corridoi, come lo spettro di quel lupo bianco di cui ha bevuto il sangue. Sa che chiunque lo vedesse ora penserebbe ad una creatura di Moringotto, ma non gli importa.
Le stanze di suo fratello sono più gelide dell’Inverno perenne che alberga sulle montagne attorno a loro.
Una lingua di fumo sguscia dalle braci ormai consunte del camino. L’oscurità è mitigata solo dal bagliore cereo che filtra attraverso le vetrate, mentre le ombre convergono nella figura di Curufinwë: di spalle, rivolto all’orizzonte spietato di vette e ghiacciai.
Tyelkormo gli si avvicina in silenzio e lascia che sia il soffio del proprio respiro ad annunciarlo. Vede suo fratello sussultare; la linea rigida della spalle, in parte celata dai capelli nerissimi, viene smossa da un brivido.
Perché sei qui? Chiede Curufinwë, e la freddezza della sua voce appare incrinata.
Lui non risponde. Rimane lì, immobile: una fiera che alita sul collo della propria preda. Poi abbassa lo sguardo e nota un baluginio argenteo nella presa di suo fratello, fra le sue dita strette a pugno.
Ti ho fatto una domanda, lo incalza Curufinwë senza voltarsi.
Emani un odore nauseante, aggiunge subito dopo e il fremito nella sua voce, ora, potrebbe essere giustificato da quelle parole.
Ma a lui, da sempre abituato a districarsi tra le astuzie di Curufinwë, astuzie solitamente ben più elaborate, quella appare come una mera ingenuità.
Allunga un braccio e con un gesto repentino afferra la mano di suo fratello, esercitando una presa dura, imperiosa, sulle sue dita serrate.
Lo sente irrigidirsi e trattenere il fiato, una protesta gli lascia le labbra, ma nulla lo induce a voltarsi. Per Tyelkormo, allora, è facile imporsi: chiude la propria presa sul suo polso, stringendo tanto da fargli soffocare un gemito di dolore.
Quando suo fratello smette di resistergli, tende la mano libera e con tocchi lievi sfiora la sua, ancora chiusa attorno all’oggetto argentato. La gentilezza con cui ne districa la morsa è una novità a cui Curufinwë reagisce rabbrividendo, mentre dita per dita Tyelkormo si insinua nella sua presa.
Ciò che essa rivela è la reliquia d’un tempo perduto. Il fermaglio con cui secoli, eternità, addietro suo fratello pettinava Tyelperinquar.
E gli sembra di scorgere la luce di Laurelin riflettersi sulle intarsiature dell’oggetto, di udire la risata infantile di suo nipote echeggiare nella desolazione della fortezza.
Alza il capo per cercare gli occhi Curufinwë, ma lo trova ancora voltato verso le vetrate. Lascia scorre lo sguardo lungo l’incavo del suo collo, dove i capelli calano in un’onda di seta, e nota quel tremore scuoterlo ancora, ora in modo più evidente, mentre la sua mano dischiusa mostra il pettine.
Pensa che vorrebbe allentare la propria presa, liberargli le dita, eppure rimane immobile, incapace di osare qualsiasi movimento. 
Solo allora si accorge del silenzio.
Di quella barriera afasica calata fra loro. Un isolamento che li vede ognuno trincerato nella propria rabbia, geloso dal proprio dolore. Ed è una simile consapevolezza ad indurlo a distogliersi, almeno per un istante, dal pressante desiderio di vendetta.
Lo fa affinché le brutture scivolino via e il sangue e l’umiliazione e tutto il resto venga accantonato. Così la sua mente libera può sfiorare quella di Curufinwë: un tocco impalpabile che fa sussultare entrambi.
La mente di suo fratello si contrae, inizialmente ostile a quell’intrusione. Ma quando lo avverte resistere al suo respingimento, dimostrando una tenacia al contempo tenera e ostinata, quando lo avverte lambirlo ancora in una carezza che possiede i colori malinconici della loro infanzia, si apre al suo tocco.
Allora lui può immergersi nell’oscurità che radica fra i pensieri di Curufinwë. Può rivedere il viso di Tyelperinquar, così diverso da quello del bambino di un tempo, indurirsi in un’espressione di biasimo. Sente le sue parole risuonare in un eco metallico, simile al rumorio nella forgia: Io non sono come voi, come te. Ed è come se nel suo sguardo d’argento albergasse la luce di Telperion, del Valinor immortale, di tutto ciò a cui hanno rinunciato per sempre. Frammenti di ricordi scorrono nel fiume dell’anima, sino a quando la voce di loro padre non si leva imperiosa: Tu non mi deluderai, yonya7. Tu non puoi farlo. E il rimpianto è culla d'un dolore straziante.
Tyelkormo sa di non poter dissipare simili sentimenti, ma cerca comunque di mitigarne l’impronta. Spezza il giogo di quelle ombre con il tocco lenitivo del pensiero. Un tocco che riverbera il suo affetto, forse l'unico sentimento preservato dall'oscurità che vive anche in lui.
Avvolge la mente di Curufinwë, spendendosi in parole dell’anima: Sono qui, per te. E lo sarò per sempre. Tutto il resto non ha importanza.
Quando i suoi sensi tornano a restituirgli la percezione della realtà, s’accorge di aver posato una mano sulla spalla di suo fratello. Curufinwë vacilla sotto la sua presa, il viso ancora rivolto all’orizzonte.
Lui cerca di trarlo in un abbraccio lieve, dimostrando una delicatezza che mai gli è appartenuta, ma lo sente irrigidirsi di nuovo.
Non farmi voltare, mormora Curufinwë, mentre la sua voce solitamente fredda e controllata, la voce di chi ordisce complotti e impartisce ordini, risuona in sussurro spezzato, troppo simile a una supplica.
Tyelkormo allenta la propria presa, eppure non si allontana.
Curvo, sussurra fra i suoi capelli e sente distintamente il singhiozzo che sguscia dalle sue labbra. Così può immaginarlo senza bisogno di vederlo, quel suo sguardo algido disciolto in mercurio instabile, liquido di lacrime.
Curvo, lo chiama ancora, e avverte il corpo di suo fratello abbandonarsi contro di lui.


Non lasciarmi, Tyelko, hánonya. Almeno tu, non lasciarmi.









 
Note finali:
1 - Mia traduzione in lingua Quenya del Sindarin Ered Wethrin, costituito da oror “montagne/alture” e haldar “in ombra/ombreggiate”.
2 - (Q) Lett. “ragazzo/bambino mio”
3 - (Q) Forma colloquiale del termine háno, usata anche nei giochi dei bambini.
4 - (Q) “Madre”
5 - (Q) “Padre”
6 - (Q) “Fratello”,  implica un legame di sangue.
7 - (Q) “Figlio mio”

L'epiteto “Nóm”, riferito a Finrod, significa “sapienza” nel dialetto umano originariamente parlato dalle genti di Bëor (in alcune versioni il Taliska, in altre una lingua della Casa di Hador, simile all'antico Adûnaic), e da queste genti gli fu dato. Nella storia, scritta dal punto di vista di Celegorm, il nome ha una valenza ironica e dispregiativa.

Il fatto che Curufin si sia sposato prima della maturità (cento anni), è una mia personale speculazione, così come il fatto che la sua sposa sia stata allieva di Mathan.
Se può interessare ho sempre creduto che Curufin fosse stato il secondo Fëanorion a sposarsi, secondo dopo Maglor. E questo è il motivo per cui, quando Curufin comunica la propria volontà di fidanzarsi, Maglor si trova in Tirion (dove, nella mia mente, abita assieme con la consorte). Maedhros, invece, è lì perché mi diverte pensare che fosse con Fingon lui ad occuparsi di politica quando Fëanor non era troppo propenso ai contatti con la sua famiglia allargata.

Sempre se dovesse interessare, il nome della “mia” sposa di Curufin è “Indilaien”, da indo “cuore/attitudine” e faila “gentile/giusto”, combinati con  il suffisso femminile ien, e vorrei scusarmi con lei per averla decisamente tagliata fuori da questa storia.

Nella parte finale faccio riferimento al Sanwe-latya (apertura del pensiero),  un legame mentale che ogni abitante di Arda (Uomini compresi) dovrebbe essere in grado di esercitare (“l’apertura” di cui si parla è una condizione fisiologica di tutte le menti), ma che solo gli Eldar sembrano padroneggiare pienamente.


   
 
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