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Autore: maybeitsadream    09/06/2015    1 recensioni
Non sento dolore, c’è Ebe con me. Mi tiene la mano e mi dice Ti amo.
La mia vita esce in un soffio dalla mia bocca.
Ebe, dico.
Sorrido. E sono di nuovo con il mio angelo.
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Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Liam Payne
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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‘CAUSE OURS IS A NEVER ENDING LOVE.
 
E’ soltanto un profumo, continuo a ripetermi a denti stretti mentre impongo alle mie gambe di abbandonare immediatamente il punto in cui si sono parcheggiate.
Ma è il suo stesso profumo!
Chiudo gli occhi di scatto. Devo andarmene da questa profumeria, adesso.
Stare qui dentro non può farmi del bene. Stare in tutti i posti in cui andavo con lei fino a un mese fa non può farmi del bene.
Un mese.
È passato un mese da quando se n’è andata. E mi manca come l’aria.
Ha lasciato un segno indelebile nel mio cuore, una ferita talmente profonda che non si chiuderà nemmeno tra centinaia e centinaia di anni, a meno che non la abbia di nuovo con me.
Era così bella…
 
Ricordo ancora perfettamente il giorno in cui la vidi per la prima volta.
Era una fresca serata di fine Luglio. Louis aveva organizzato una festa dopo il diploma.
Stavo andando a prendere qualcosa di non alcolico da bere quando, voltandomi per salutare un vecchio compagno di corso, mi accorsi di lei.
Rideva insieme a un gruppo di ragazze che avevo visto nei corridoi della scuola un paio di volte nell’ultimo anno.
Non indossava un vestito. Aveva un paio di jeans verde acqua che andavano perfettamente d’accordo con la leggera camicetta bianca e le Converse alte dello stesso colore.
La luce della luna le colpiva il volto e mi parve bellissima.
Poco trucco, capelli scuri e legati in una coda di cavallo, nessun gioiello e nessun bicchiere in mano.
La sua vista mi aveva stregato. E desideravo ardentemente conoscerla.
Mi ero avvicinato cauto al gruppetto di diciottenni e, senza nemmeno guardare le altre, mi ero rivolto solo a lei con una domanda che, se ci penso, mi fa abbastanza ridere.
-Mi concede questo ballo?
Non c’era nessuna canzone lenta, soltanto un’assordante musica da discoteca che obbligava chiunque a urlare. Non mi sarei affatto sorpreso se si fosse messa a ridere. Eppure non lo aveva fatto. Aveva afferrato la mano che le tendevo e, sorridendo ampiamente, era venuta con me.
Concordi sul fatto che alla festa ci fosse troppo casino, ce n’eravamo andati a spasso per una Londra che, quella notte, aveva qualcosa di magico.
 
-Ha bisogno di aiuto?- mi chiede una delle ragazze nuove che lavora alla profumeria.
Non è Christal. Lei mi avrebbe dato del tu e mi avrebbe trascinato fuori di lì a calci perché non potevo farmi del male in quel modo.
Mi accorgo di avere il volto bagnato.
Ormai capita spesso di piangere. Più di spesso: i miei occhi sono una continua cascata di lacrime.
Non mi asciugo nemmeno la faccia, non m’importa più, e freddo la ragazza con un Arrivederci che ghiaccerebbe anche la lava del Vesuvio.
Devo smettere di farmi del male da solo.
Devo smettere di entrare in tutti i negozi che si sono beati della vista della mia ragazza.
Ebe è morta, e mai più nessuno potrà vederla, sentire il suo profumo o accarezzare la sua pelle morbida.
Mai più nessuno potrà rimanere estasiato dalla melodia che le sue dita e il pianoforte sapevano creare.
Mai più nessuno  le chiederà di suonare, di andare a cena fuori o di guardare un film insieme.
Nessuno, nemmeno io. E questa cosa mi uccide.
Quando, al mattino, mi sveglio, mi sembra ancora di sentirla canticchiare le canzoni dei Maroon 5 mentre mi prepara la colazione. E allora sorrido, perché penso che quella fottutissima operazione al cuore è andata bene e che la mia Ebe è ancora viva e mi ama.
Ma, quando arrivo in cucina e tutto quello che mi si presenta è il vuoto silenzio della casa che condividevamo da più o meno sette mesi, crollo. Le mie gambe cedono e il corpo si lascia cadere su un pavimento freddo che non sente calore da quel maledettissimo 8 Maggio.
Il volto si fa scuro. Sento il cuore spezzarsi ogni giorno di più. Vorrebbe urlare, uscire dal petto e spaccare qualunque cosa si trovi davanti. Sanguina e non trova pace. L’urlo di strazio che abbandona la mia bocca quando mi lascio completamente andare alla disperazione è soltanto una piccola dimostrazione di ciò che sarebbe capace di fare.
Ogni mattina è così. Da quando Ebe non c’è più, sono sprofondato in una routine deprimente e apatica.
Esco di casa senza nemmeno aver fatto colazione, vado a lavoro, in una palestra che è poco distante da casa, e per pranzo mangio un sandwich. Torno a casa dopo le quattro, faccio una doccia velocissima ed esco in giro per una Londra che piange la perdita di un angelo dai capelli neri.
Ho chiuso a chiave una stanza della casa, quella in cui dormivamo. Non ho il coraggio di entrarci; rischierei di essere sopraffatto dai ricordi e manderei a puttane il precario equilibrio che segue la mia – se così posso ancora chiamarla – vita.
Quella stanza contiene noi, i momenti intimi che abbiamo passato. Entrarci significherebbe rivivere tutte le volte in cui abbiamo fatto l’amore, sentire ancora il mio nome sussurrato da lei mentre cerca, ad occhi chiusi, le mia labbra, riscoprire la bellissima sensazione di pelle d’oca provocata dal delicato tocco delle sue mani su tutto il mio corpo. E io sono troppo debole per questo.
Cerco di limitare anche l’utilizzo dell’auto. Il sedile del passeggero sa ancora di lei, e, se mi volto a guardare, la vedo lì seduta che cambia stazione alla radio in cerca di una qualsiasi canzone del suo tanto amato Adam Levine.
Ho smesso di ascoltare musica. Ho chiuso la stanza in cui c’è il suo pianoforte. Non leggo più nemmeno i libri.
Quando vado a casa dei miei, non mi avvicino alla mia vecchia camera da letto. È stato il posto in cui entrambi abbiamo vissuto la nostra prima volta, all’età di diciotto anni, quando avevamo finito il liceo e non sapevamo che la crudeltà del mondo ci avrebbe diviso dopo quattro anni.
 
Mia madre viene spesso a trovarmi ultimamente. Dice che mi sto trascurando, che ho perso troppo peso e che sono irriconoscibile.
Sto bene, le dico, per non farla preoccupare, per non far preoccupare me.
Ogni notte ho paura di addormentarmi, perché so che il mattino dopo rivivrò tutto da capo: dal grido di dolore alle raccomandazioni di mia madre.
La mia vita ora mi fa paura. Non è più vita, ha smesso di esserlo il 9 Maggio 2015, l’orribile data che si trova nel mio cuore, nella mia testa e alla tomba della mia ragazza.
È la sua assenza a farmi paura.
Mi manca e vorrei davvero che quell’operazione fosse andata bene.
Se chiudo gli occhi, riesco a rivedere il medico che usciva dalla sala operatoria e veniva verso di me e verso i genitori di Ebe con la faccia di uno che ha già dato un casino di terribili notizie, ma che non ha ancora imparato il modo meno doloroso per farlo.
Quelle parole, quel Mi dispiace che mi ha fatto cadere a terra come una pera cotta, le lacrime che uscivano senza sosta dal volto di Meredith, la mamma di Ebe, invecchiata in un colpo solo di vent’anni. E suo padre… Mi ha guardato con un’espressione che diceva tutto e niente allo stesso tempo e si è lasciato andare a un pianto disperato, quasi sperando che questo avrebbe potuto in qualche modo cancellare il dolore.
Ho chiesto al medico di vederla un’ultima volta e, quando me lo ha negato, sono scappato dall’ospedale. Mi sono messo a correre come se ci fosse un branco di lupi a inseguirmi e sono andato dal mio migliore amico. Mi ha aperto la porta e gli è bastato guardarmi in faccia per capire cosa era successo. Mi ha fatto entrare senza dire niente e mi ha permesso di sfogarmi e imprecare contro qualunque cosa mi venisse in mente.
Il giorno del suo funerale mi sono seduto accanto ai suoi genitori, in una cappella che ospitava poca gente.
Il momento peggiore è stato al cimitero.
Mentre la calavano giù, vedevo il mio cuore andare sotto terra insieme a lei.
Mi è sembrato di soffocare, non avevo forze per reggermi in piedi. Mi sono seduto a terra, incurante della leggera pioggia che veniva giù, e ho guardato la bara che avevo davanti. Conservava il corpo della ragazza che amavo e che amo ancora, il corpo della ragazza migliore del mondo.
Sono rimasto fermo in quella posizione anche quando tutti se n’erano andati. Non volevo abbandonare Ebe, non volevo lasciarla andare.
È stato mio padre a levarmi da lì un paio d’ore dopo. E piangevo, piangevo come se mi avessero tagliato una gamba. Piangevo perché mi avevano tolto un pezzo di me, il più prezioso, Ebe.
 
Mi sento terribilmente stanco. Ma non ho voglia di andare a casa e mettermi a dormire.
Sono ancora fuori dalla profumeria. Punto lo sguardo alla macchina e so già dove andrò. Vado a trovarla, vado a parlare un po’ con lei, perché mi manca e ho una voglia assurda di baciarla.
Ci metto una quindicina di minuti ad arrivare al cimitero. Mi accorgo soltanto quando sono quasi vicino alla tomba di non avere nemmeno una margherita con me.
Mi abbasso.
 
EBE DAVIES
5 GIUGNO 1993  –  9 MAGGIO 2015
                                                                                      ‘I can wait forever…’
 
Guardo la fotografia che sua madre ha scelto; sono stato io a scattargliela, durante una gita in campagna.
Passo le dita sul suo volto e, senza prestare molta attenzione alla presenza di gente o alla pioggia che il cielo promette, mi metto a parlare.
-Ciao piccola. Mi manchi tanto, sai? È triste svegliarmi senza il tuo buongiorno, è triste uscire di casa senza i tuoi baci, è triste vivere senza di te.
Mi siedo e respiro profondamente.
-E’ già passato un mese. Un mese, cazzo. E lo so che non ti piace quando divento volgare e dico le parolacce, ma qui è davvero indispensabile, credimi. Ci sono giorni in cui vorrei morire, solo per poter stare di nuovo con te. Sai, a detta di mia madre, sono diventato uno scheletro. Scommetto che rideresti se mi vedessi così debole. Dio, la tua risata… Mi manca un casino, Ebe.
Qualche giorno fa sarebbe stato il tuo ventiduesimo compleanno. Avrei voluto portarti a Wolverhampton, dove sono nato, e farti vedere i posti in cui giocavo quando avevo sette anni. Ma il tuo cuore non me lo ha permesso.
Ho sempre pensato che il tuo fosse un cuore troppo grande, troppo diverso da quello di noi altri. Era enorme e batteva solo per me. Lo sentivo quando ti tenevo stretta a me e giuravo di non mollarti mai. Correva come un pazzo, come se avesse dovuto correre la maratona di New York… Ed era tutto mio. Tu eri tutta mia, e ora non ci sei più e io sto così male. Non faccio altro che piangere, tutti i giorni, anche a lavoro. Capita che devo fermarmi e riprendermi, altrimenti non riesco a continuare.
Londra è così strana senza di te, non sembra più la stessa. Manchi anche a lei forse.
Manchi a tutti quanti: a tua madre, a tuo padre, alla tua sorellina, ai miei genitori e… a me. La tua assenza mi sta uccidendo e ho paura di non farcela.
Sei stata la cosa migliore della mia vita e dimenticarti vorrebbe dire darmi il colpo di grazia. Eri e sei ancora parte di me. Lo sarai per sempre. E ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo tantissimo, piccola.
Sento le gocce di pioggia che mi bagnano e che si confondono con le mie lacrime. Ma non m’importa.
Resto fermo a parlare con la mia ragazza ancora per un po’.
Alla fine mi alzo ed esco da quel posto.
Entro in macchina e accendo il motore. Guidare è difficile: le lacrime mi impediscono di vedere la strada perfettamente e la pioggia viene giù troppo forte e veloce.
Credo di aver percorso soltanto un paio di centinaia di metri quando avviene lo schianto.
Non sento dolore, c’è Ebe con me. Mi tiene la mano e mi dice Ti amo.
La mia vita esce in un soffio dalla mia bocca.
Ebe, dico.
Sorrido. E sono di nuovo con il mio angelo.

 
 
 
 
 
 
My Space.
Per Efp ero morta da Dicembre. Ma ora sono tornata con questa… ehm… cosa che onestamente non so come mi è venuta.
È stata scritta di getto e spero che apprezzerete.
Mi farebbe molto piacere leggere un commento, anche piccolissimo.
Accetto tranquillamente anche un “Abbandona la scrittura, che è meglio”, eh!
Ora scappo.
A prestissimo, spero.
Un bacio enorme,
Erica xx
   
 
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