Disclaimer: I personaggi descritti non mi
appartengono, questa è una
storia di fantasia, l’autrice scrive senza alcuno scopo di
lucro e non intende
violare alcun copyright.
Solo
andata
per l’Inferno
Le ha sempre odiate, invece, e passarle addirittura più a sud è il suo incubo peggiore.
Non si rassegna di fronte all’inevitabilità del clima con un’alzata di spalle, no, è fuori discussione. Che si fotta il clima! Perché non può incollarsi ad un condizionatore ed abbracciarlo fino alla caduta della prima foglia?
Ha visto più o meno tutto il Paese e, potesse scegliere, metterebbe radici in una capanna nel Montana, purché ben rifornita di birra e riviste.
Sono passati tre mesi dal patto. Quasi un anno dalla morte di John. Lui e Sam stanno dietro a un mannaro da quasi otto settimane, senza essere ancora riusciti a fermarlo. Hanno attraversato tre stati, prima di finire in Texas per seguirne le tracce. È alla frutta, ha esaurito forze e pazienza, comincia a diventare paranoico e per più di un motivo, a dire il vero. Uno più valido dell’altro.
Pensa spesso (e ci crede sul serio) che lui e suo fratello siano vittime di una qualche perversa maledizione: perché non è possibile, nemmeno per chi fa una vita assurda come la loro, essere incappati nell’unico lupo mannaro genio della fuga su strada, che esista sul maledetto pianeta.
Lo vuole morto e, lo giura su Dio, lo ammazzerà qui a Houston, perché non ha intenzione di trascinarsi, sudato e stanco, ancora più in fondo al culo dell’America, soltanto perché il cane rognoso super istruito cerca un posticino mite per svernare al calduccio.
*
Il motel in cui si fermano, appena fuori città, è potenzialmente il peggiore mai visto: non c’è una pianta a pagarla, l’odore è nauseante quanto una fogna a cielo aperto, l’asfalto talmente bollente e usurato da sembrare gomma liscia e due dozzine di alloggi fatiscenti, che sarebbe più corretto definire prefabbricati post-terremotati, ancora in piedi per non si capisce quale legge della fisica, non ancora scoperta.
Il gracchiare delle cicale è assordante, fastidioso, ha quella capacità soprannaturale di rendere l’afa ancora più insopportabile.
Potrebbe anche non essere così male, però... potrebbe essere il crescente fastidio per il caldo ad alterare la sua percezione delle cose, Dean deve ammettere di essere parecchio più nervoso del solito.
Sono le due del pomeriggio, i borsoni pesano, la sua t-shirt è bagnata e praticamente appiccicata alla schiena, e la dannata chiave non si gira nella dannata serratura. Dean bestemmia e scardina la porta con un calcio ben assestato.
“Poi i danni li paghi tu, giusto?
Domanda Sam, passandogli davanti ed entrando col fiato corto; è affaticato e si cura di non nasconderlo.
“Sei più bravo con la stecca e hai la faccia da schiaffi adatta. Ti prego, non farmi fare la recita del povero ragazzino idiota che si perde in un bar. Non ne ho la forza.”
Mentre appoggia il suo bagaglio sul letto (ovviamente ancora da rifare), il minore si asciuga la fronte con un braccio. È forse più stanco di Dean, ha i capelli troppo lunghi che si appiccicano alla fronte e alla nuca, la pelle che gocciola sudore nello scollo largo della magliettina grigia, stropicciata e umidiccia.
Stanno uno schifo, ma dopo dodici ore di macchina senza soste, potrebbero anche essere ridotti peggio. E la stanza ha le pale per l’aerazione. Non girano, ma sono dettagli. Se in sorte gli capita il bicchiere mezzo vuoto, un Winchester si beve la poca acqua rimasta, non perde tempo decidendo da che angolazione conviene osservarlo.
“Vada per il bigliardo. Si fa sempre un gran bel gruzzolo, quando uno ci sa fare.”
Dean ammicca, molla a terra i borsoni davanti alla porta ancora aperta e si fionda in bagno a rinfrescarsi, scansando Sam con una spallata, che stava entrando prima di lui.
“Bastardo!”
Ringhia il minore.
“Tu sistema l’impianto di
ventilazione! Ci sarà qualcosa in macchina per aggiustare
quelle cavolo di
pale.” Sam lo scimmiotta da fuori la
porta e poi si mette a lavoro. Sistema le pale in un attimo (è
sempre stato bravo con gli aggeggi elettronici), quindi riparano l’ingresso alla buona e, dopo una doccia pidocchiosa con
tanto di getto d’acqua
ridicolmente moscio, dormono entrambi, sfiniti, finché il
sole tramonta e dalla
finestra spalancata sventaglia un alito di vento non proprio fresco, ma
piacevole. La notte successiva ci sarà luna
piena e avranno parecchio da fare. Catturare quella bestiaccia non
sarà
semplice, hanno un piano solido ma già troppi fallimenti
alle spalle, e la scia
di cadaveri che si sono lasciati dietro, inizia ad essere troppo lunga.
Meglio
ricaricare per bene le batterie, finché
c’è calma. Dean più che altro sonnecchia, di
tanto in tanto apre gli occhi, dà una controllatina in giro e torna a
dormire. È notte fonda quando si sveglia
definitivamente, di soprassalto, sudato e ansimante, con ancora negli
occhi lo
spettro dell’incubo che è diventata la sua vita. Non si è mai immaginato da
vecchio, non ci è mai riuscito, come se una vocina da dentro
lo avesse sempre
avvertito che chi fa il suo mestiere alla vecchiaia difficilmente ci
arriva.
Onestamente è contento così, perché se
una persona comune convive coi normali
tormenti del proprio passato, figurarsi con cosa dovrebbe fare i conti
lui, che
prima dei trent’anni ha visto quanto di più
disgustoso il mondo abbia vomitato. Ad ogni modo, come quasi ogni
notte, che faccia freddo o caldo, che si trovi in un motel o nella sua
auto, in
mezzo a un campo, sul ciglio di una strada semi-abbandonata o in un
parcheggio
affollato e ancora illuminato, Dean si raddrizza lentamente a sedere e
si tiene
una mano sul cuore, stringe forte la stoffa zuppa della sua maglietta e
inspira
una, due, tre volte. Non ricorda se suo padre
soffrisse di insonnia, ma da un po’ di tempo se lo chiede
spesso. Quello che sa è che non ha mai
visto John addormentato; quando lui e Sam erano svegli, lo era anche
lui. Quello
che sa è che non ha più dormito bene da quando
suo padre è morto. Ora è lui a vegliare su Sam. In gioco c’è troppo, a Dean
resta
poco tempo da vivere e inizia a non incassare bene i colpi. Cedere
sotto il peso
delle responsabilità che negli anni si sono accumulate sulle
sue spalle, è
inevitabile. Se non fosse sufficiente questo a
provocargli incubi e attacchi di panico improvvisi, gli basterebbe
ricordarsi
che al buio si acquattano molte delle cose che caccia e
chissà quante ancora da
affrontare. Appena il respiro si regolarizza,
Dean districa le dita dalla maglietta e fa scivolare la mano sotto al
cuscino,
dove nasconde la pistola. La tiene solo pochi secondi,
finché anche il battito
cardiaco si convince di essere al sicuro e può abbassare la
guardia. Di solito, a questo punto si
volta a guardare Sam che dorme nel letto accanto. Sa già cosa sta per succedere,
sente quel bisogno scorrergli nel sangue, ribollirgli dentro, sente il
sudore
ormai freddo appiccicarsi ovunque, il tremolio dei nervi e i muscoli
che non
son più capaci di stare fermi. Si alza in silenzio (è la sua
routine d’insonnia, ormai, gesti automatici che compie ogni
volta), si avvicina
alla finestra e scosta appena la tendina striminzita, lasciando che la
tenue
luce proveniente dall’esterno illumini abbastanza da non
inciampare nei propri
piedi. Come da copione, Sam si sveglia
in quell’istante e lo guarda. Dean distingue chiaramente il
luccichio dei suoi
occhi su di sé, li vedrebbe anche nella più
oscura delle tenebre, nella più
buia delle notti. Rabbrividisce sempre quando Sam lo scansiona a quel
modo,
perché non c’è persona al mondo che lo
faccia sentire così. Solo Sam. C’è qualcosa di inquietante e
insieme
bellissimo nel suo sguardo. Sembra vedere, sapere, sembra capire ogni
suo più
intimo pensiero e desiderio, prima ancora che Dean stesso lo formuli. Si sente in trappola e gli monta
dentro una rabbia profonda, folle. Perché sì,
cazzo, ormai scopano da un paio
di mesi e non capisce, non ha mai capito di chi sia la colpa, chi sia a
cominciare ogni volta, chi a chiederlo, chi il responsabile di tutto. E le paranoie su fantomatiche
maledizioni non reggono, ci ha provato. Capisce solo che vorrebbe essere
l’unico imputato alla sbarra, vorrebbe una condanna certa e
definitiva,
vorrebbe convincersi di essere lui e solo lui il mostro che violenta
suo fratello
minore, spinto da un demone sconosciuto, al quale ha promesso
l’anima. Che ha
da perdere? Lui è già morto. Ma non è così. E si incazza come una furia.
Perché Sam non lo ferma. Mai. Non lo fa neanche quella notte. * Non scambiano una parola. Nessuno
dei due dice niente di niente. Dean sta in piedi alla finestra e
Sam rimane a guardarlo dal suo letto, girato sul fianco, le lenzuola
leggere
che gli abbracciano le anche, la maglietta larghissima un po’
alzata, il fianco
magro appena visibile, bianco e liscio come latte. Voltati. Girati
dall’altra parte. Tagliami fuori! Ogni volta implora che Sam lo
respinga e insieme smania di andare da lui. Non può nascondersi dietro
menzogne ipocrite e false attenuanti. Non è stata la morte
di John, non è stato
l’essere soli al mondo, vivere e respirare l’uno
per l’altro, non è stato il
demone degli incroci a corrompergli l’anima,
perché l’anima di Dean non è mai
stata davvero sua, è sempre appartenuta a Sam. L’ha divisa a metà con lui la
notte in cui l’ha portato fuori dalla loro casa in fiamme,
gliel’ha regalata quando
ha giurato di proteggerlo per sempre, con gli occhi lucidi di un
bambino
diventato uomo troppo presto, fissi e risoluti in quelli di suo padre. Quello che fanno lo fanno perché
lo vogliono e Dean sa perfettamente di averlo sempre voluto. Si ricorda benissimo la prima
volta che, guardando Sam, ha immaginato cose.
E tanto è bastato a farglielo venire duro nei pantaloni;
è stata la prima volta
in cui si è sentito sporco per davvero, marcio dentro. Suo fratello avrà avuto sì e
non
quindici anni e la corporatura androgina tipica di un adolescente in
ritardo
con lo sviluppo. Sedeva sui sedili posteriori dell’Impala,
mentre Dean, davanti
con John, lo spiava dallo specchietto retrovisore: il mento poggiato
sulla
mano, il braccio accomodato sul finestrino, lo sguardo assorto fuori,
tra la
boscaglia che stavano attraversando sfrecciando veloci, appena qualche
chilometro ai confini di Atlanta. La t-shirt bianca troppo grande che
svolazzava ovunque, gonfiata dall’aria soffocante che entrava
dai finestrini
abbassati. Dean lo guardava e… lì, in
quel
momento esatto, capiva che l’Inferno, quello vero, lui lo
avrebbe visto ogni
giorno, finché fosse stato vivo. Da lì al baciarsi sotto a un
salice, nascosti tra l’abbraccio dei suoi rami verdissimi,
sporchi e con acqua
di palude fino alle ginocchia, pistola e pugnale alla mano,
è stata questione
di giorni. Due, per l’esattezza. Aspettavano acquattati nel
fango che la
trappola di John scattasse e catturasse lo Sheti* che stavano cacciando. Dopo, più niente. La repulsione
verso quella parte di se stesso e dei suoi impulsi, la vergogna per i
suoi
sentimenti, il terrore che suo padre potesse mai scoprirli e gli occhi
di Sam, Dio gli occhi di Sam, che
invece vedevano
ogni cosa e sembravano dirgli sì,
sì e
ancora sì, in tutti i modi in cui uno sguardo
può farlo; tutto questo
assieme, in un groviglio fragile quanto intricato, ha mandato avanti la
baracca
per anni. Da allora la vita di Dean è un
complesso e faticoso equilibrio tra autocontrollo e negazione. Una
bugia dentro
una bugia
più grande, alla quale tutt’ora cerca
disperatamente di credere. È tuo
fratello, non puoi. Non. Puoi. Ma la paura, per un uomo che sta
per morire e sa esattamente quando, diventa qualcosa di molto diverso.
Se stai
per morire, temi tutt’altre cose. Se stai per morire, non ti
interessa più delle
conseguenze. Ma delle occasioni mancate. Per cui no: la colpa non è di
eventi traumatici recenti. Ha smesso di raccontarsi le favole da un
pezzo,
l’unica con la quale ancora cerca di cullarsi, racconta di
come Sammy gli piaccia
nel modo sbagliato, ma arriverà il giorno in cui tette e
curve, gli piaceranno
di più. * Non c’è nessun cenno o gesto
che
faccia partire la cosa, tra loro. A un certo punto, Dean si stanca
di aspettare un rifiuto che non è mai arrivato, cammina
piano verso Sam senza
guardarlo e lui si scosta quel tanto che basta a fargli spazio,
permettendo che
gli si sieda accanto, sul bordo del materasso. * Di solito Dean non è gentile e
gli fa male. Deve farlo, deve essere così. Non
sopporterebbe altrimenti. Si infila con lui tra le lenzuola
e lo volta a pancia sotto. Di solito Sam non protesta. E Dean si arrabbia così tanto che
la voglia di fargli ancora più male è
così tanta e così forte, che deve pregare
di finire in fretta, o non sa davvero cosa arriverebbe a fargli. Di' qualcosa. Fa' qualcosa. Niente. Quando le danze sono quasi al
culmine, Sam si fa scivolare una mano tra le gambe, nasconde il viso
nel
cuscino e soffoca ogni suono. Dean sente solo quel suo gemere
trattenuto, lo
sente contrarsi attorno a lui ed è la sua fine. Tutto esplode, dentro e fuori,
brucia dappertutto, rimbomba tra lombi e cervello, fa un fracasso del
diavolo e
si chiede come cazzo possa succedere un tale casino, se tutto quello
che in
realtà di sente in quella stanza, sono i lamenti indecenti
della carne. Di solito Dean si fa schifo. Sguscia via da sotto le coperte,
si veste di corsa e sbatte la porta per andarsene, per fuggire via,
sgommando
con l’Impala il più lontano possibile. Torna poche
ore dopo, odora di puttane e
di sesso a un miglio di distanza ed è certo che Sam lo senta. Spera che Sam lo senta. Spera che gli sputi in faccia e
se ne vada per sempre, che lo insulti e lo riempia di botte, invece di
lasciarsi
scopare senza reagire, tutte le dannate volte in cui a Dean viene
voglia di
farselo fino a svenirgli addosso. Spera di avergli fatto abbastanza
male, di averlo umiliato a sufficienza, di fargli così
orrore da spingerlo a
scappare una volta per tutte, via da lui, via da questa cosa mostruosa
che li
lega, dalla ferocia con cui lo vuole, dalla morbosità con
cui lo sente suo, dal
bisogno di averlo solo e solamente per sé. Perché ad aggravare le cose, se
mai già non fossero state considerevolmente gravi,
c’è la consapevolezza di non
fare con nessun altro quello che fa con Sam. Prega sia lo stesso per
lui. O di
non venire mai a sapere il contrario. Dio aiuti il tale (se mai
esistesse e Dean se lo trovasse per le mani) che si scopa suo fratello.
Scuoiare
la cacciagione non gli è mai particolarmente piaciuto, ma lo
sa fare. E con una
persona, beh… la tecnica non dovrebbe essere poi molto
diversa. Di solito, Sam non fa una piega
quando Dean torna da lui. Lo guarda con un misto di sollievo e
rimprovero che gli
fa contorcere le budella. Poi l’alba arriva, Dean non chiude
più occhio e
quando la luce squarcia il buio, i segni di tutto quello che hanno
fatto, sono
sulla pelle di Sam. Rossi. Profondi. Dean si fa schifo ancora per un
po’. Ma ogni notte si sveglia sudato e
spaventato, si volta verso Sam e si ricorda la vera ragione per cui
merita di
bruciare all’Inferno. * Quella notte succede tutto in
modo diverso. Ed è spaventoso, atroce. Quella notte Sam non è disposto ad
assecondare il teatrino che Dean si è costruito nel tempo. Quando fa per voltarlo, Sam se lo
tira addosso e si stende meglio sulla schiena, lo afferra tra le cosce,
gliele
avvolge in vita e stringe. I suoi occhi sono lì e non lo
mollano. Dean è paralizzato e per un lungo
attimo non si muove; ha paura, una paura fottuta di quello che
significa quel
gesto, di quello che succederebbe se lasciasse che accadesse. Perché una cosa è
convincersi di
scoparselo con la forza, mentre Sam sta a pancia sotto e non lo guarda,
non fa
niente, piagnucola e basta. La colpa è sua. Punto. Ma
un’altra... un’altra è
fare l’amore guardandosi e polverizzare anche
l’ultima barriera rimasta tra
loro; quella che li salva, che ancora divide uno dall’altro
mantenendoli al
sicuro da una verità troppo pesante. Un’altra è accettare che
quello
che li lega è amore,
senza filtri ad
attutirne il significato. Senza una vita intera davanti per accettarlo. Dean semplicemente non è pronto.
Forse non lo sarà mai e forse è persino
l’unica cosa giusta che si è imposto di
rispettare, fino ad ora. Gli afferra una coscia e si libera
di scatto da quella morsa languida ed esigente in cui lo aveva
costretto, corre
di nuovo fino alla finestra e inizia ad agitarsi sul posto. Cammina
avanti e
indietro, sfregandosi gli occhi, la bocca, respira a fatica, sembra
impazzire. Sam si mette a sedere lentamente,
le gambe nude, lunghissime, che escono dal lenzuolo, i piedi che
poggiano piano
a terra; ha brividi sulle braccia e Dean riesce a vederli. La bugia si è infranta,
l’equilibrio è rotto. “Sta calmo...” Gli dice. La risposta del maggiore è un fanculo masticato tra i denti, ma molto
ben scandito. “Vuoi che continui a fingere, Dean?
È così?” “Sta zitto.” “Ti fa sentire meglio? Essere il
fratellone cattivo che fa del male al povero fratellino
indifeso…” La voce di Sam cambia, ora è
distorta e si alza man mano che i nervi di Dean cedono alla
disperazione. “È così che te la
racconti?” Gli urla contro il maggiore. “Ho pensato che a questo punto
fosse ridicolo…” “Smetti di parlare, cazzo! Non
hai idea di cosa potrei...” “Invece lo so. E non è quello
che
succede tra noi. Per quale motivo credi che non mi sia mai
ribellato?” Sam si alza e gli si avvicina con
lentezza terrificante. E allora va bene. Se è giunto il
momento di farla finita, così sia. “Perché non te ne
vai?” Gli chiede Dean. Freddo, calmo,
dritto davanti a lui a solo un passo di distanza. Sam sembra arrendersi per un
attimo. “Hai sempre voluto starmi
lontano, sempre! Perché adesso... perché proprio
adesso non tagli la corda?” Sam gli ripunta gli occhi addosso
e sembra furioso, come non si capacitasse che Dean lo abbia detto sul
serio. “Pensi di farmi un favore, visto
che mi resta meno di un anno da vivere? È questo?” Dean è aggressivo, gli animali in
trappola lo sono sempre. Si
aspetta un
bel destro sotto la mascella che non arriva, ma lo avrebbe voluto,
perché
guardare Sam negli occhi in quel momento, fa molto più male. “Sei un idiota… uno
stupidissimo
idiota!” Gli risponde
il minore restando al suo posto, distante eppure già
troppo vicino. Un sussurro tremolante il suo, una sottile scia di
parole
fragili come vetro, pericolose come schegge. Solo riuscire a sentirle
è
un’impresa, ma Dean capisce benissimo, capisce che suo
fratello sta per rompere
la diga. “Caso
mai te ne fossi scordato, Sam: io sto per crepare.” Così,
Dean decide di iniziare a sgretolare gli argini. Gli
si avvicina di un passo e lo vede indietreggiare d’istinto,
guardarlo
spaventato per quello che sa bene sta per dirgli, che non vuole
sentire, che
non ha mai voluto accettare. La
verità. “Strapperanno
la mia stupidissima anima di stupidissimo idiota
dal mio stupidissimo corpo. E sai perché non mi frega un
cazzo di niente, Sam?” “Smettila!” No che non la
smette. Sam non arretra più, ma abbassa lo
sguardo e stringe i pugni. Se si vuole
che il colpo sia letale, il pugnale va infilato
nei punti giusti. Sono le basi dell’addestramento di un
cacciatore, il maggiore
lo sa bene. “Perché
non esiste al mondo Inferno peggiore di questo...” Dean ingoia a
vuoto e continua, osservando suo fratello
mentre pian piano lo distrugge; ogni colpo, ogni parola che infligge a
Sam, gli
provoca dolore come fosse lui a subirlo. Crede di essere pronto alle
conseguenze, ma sa perfettamente che non è così,
che è un’altra delle sue
bugie, che gli si ritorcerà contro come tutto il resto. “Questo
è il mio Inferno, Sam. Sei tu.” Sam non
crolla. Ricaccia
indietro le lacrime per puro e semplice orgoglio,
alza gli occhi e d’un tratto Dean se li ritrova addosso che
lo trafiggono
inclementi; dentro di essi vede ogni cosa ed è spaventoso
scoprire quanto di sé
riesce a percepire nello sguardo Sam. “Mostralo
anche a me.” Gli dice. * Dean non si
aspetta niente di quello che accade dopo. Ma, come
detto, quella notte succede tutto in modo diverso. Sam dà un
calcio al suo risentimento e la sua rabbia per
un passato che non ha voluto e ha sempre combattuto. Dà un calcio
alla elaborata bugia creatasi tra loro. Un calcio a
un destino che lo vede da solo, senza quel
fratello che morirebbe (che morirà)
per lui, e niente al mondo riuscirà ad impedirglielo. Non colpisce
Dean, non urla, non piange. Sam gli si
accosta e allunga una mano per accarezzargli una
guancia. Ha gli occhi lucidi, ma risoluti, sicuri. Dean chiude i suoi e
trattiene il respiro. Dentro, urla come un disperato. No...
no, no, Sammy... Il minore non
ha più bisogno di alzarsi sulle punte per
essere faccia a faccia con lui; avvicina il volto finché le
loro labbra si
sfiorano, gli circonda il collo con entrambe le mani. “Mostrami il tuo
Inferno...” Gli sussurra
piano. E lo bacia. Non si
baciano da quell’unica volta sotto il salice. Mai,
nemmeno quando scopano. Dean
è stordito, perso. Sconfitto su tutti i fronti, si
lascia andare a un bacio struggente e umido di pianto. Il suo. Avvolge Sam
tra le braccia e lo stringe così forte da
sentirgli un lamento direttamente nella bocca. Schiude le labbra,
è
l’inesorabile vittoria del bisogno di un piacere sbagliato e
bellissimo che
conosce bene, eppure non è mai stato come adesso. Il letto
è vicino, ci arrivano scoordinati e goffi, ci
cadono sopra e riprendono da dove Dean aveva interrotto. Una
infinità di notti insonni e parole, parole, parole,
gettate via assieme ai vestiti. Sam
è sdraiato sulla schiena, languido, abbandonato, gli si
offre, si apre sotto di lui, gli concede ogni cosa. Lo ha sempre fatto.
Ma Dean
non ha voluto guardarlo, prima. “Non
mi hai mai fatto male, Dean. Mai...” Sam glielo
soffia in un orecchio, mentre col bacino si muove
contro il suo. Dean non
capisce più niente. Fa
l’amore con lui e lo fa come avrebbe sempre voluto farlo,
senza essersi mai permesso di ammetterlo nemmeno a sé stesso. Lo accarezza
e lo tocca dove più sente reagire il suo corpo;
con la bocca, con le dita o con i palmi, finché i gemiti di
Sam non diventano
lamenti, finché i lamenti non sembrano preghiere e le
preghiere un piagnucolio confuso
di piacere e dolore mescolati. Lo prende
guardandolo negli occhi e non gli sembra possibile
sentire tutto in modo così diverso. Non gli sembra possibile
essere ancora
vivo, poterlo avere così, senza che quel mostro che gli
ruggisce dentro da
anni, lo trascini nella più oscura delle disperazioni, per
aver ceduto ai suoi
sentimenti. Non gli
sembra possibile averne avuto paura fino a pochi
minuti prima. Ed
è così bello e così sbagliato che non gliene frega più niente di niente. Sam lo
abbraccia prima di venire. Lo stringe gambe e
braccia, gli dice cose struggenti che mai dovrebbero dirsi. Gliele dice
perché non
hanno più tempo per negarsele. “Ti
amo” Gli dice una,
due, mille volte. “Ti
amo. Non lasciarmi.” L’orgasmo
di Dean arriva un attimo dopo. Gli crolla sopra,
lo abbraccia e aspetta che entrambi smettano di tremare uno addosso
all’altro. Sam si
addormenta appoggiato al suo fianco, gli stringe
l’amuleto con la mano poggiata al petto. La mattina
è già insopportabilmente
afosa, sono sudaticci e sporchi, ma a nessuno dei due sembra
interessare. Hanno
distrutto ogni cosa che era possibile distruggere. Ma sono
ancora gli stessi, sono sempre loro. O
è cambiato tutto? Non lo sa,
non ha nessuna importanza ormai. Dean guarda
Sam dormire tutto il tempo e non pensa a niente. Al tramonto,
inizia la caccia e non c’è più tempo
per
preoccuparsene. * Stanano il
mannaro col vecchio trucco dell’esca: Dean. È sempre stato un cacciatore pratico
più che cerebrale:
visto che morirà comunque, tanto vale offrirsi volontari e
buttarsi nelle
missioni suicide. Attirano
l’uomo in una zona semi-deserta del porto: il piano
è farlo secco prima che si trasformi e diventi troppo forte,
troppo veloce. Ma
è un osso duro anche con sembianze umane, lo inseguono per
più di due ore e, quando
si trasforma, le cose si complicano ulteriormente. Un paio di
volte credono di averlo perso, finché non è la
bestia a piombare loro addosso, nella rimessa abbandonata e fatiscente
che si
erano scelti per fermarsi e riprendere fiato. Si avventa su
Dean. Sam
è veloce e letale, non lo ha mai visto così
concentrato,
freddo. Prima che
affondi le zanne nel collo di suo fratello, gli
arriva alle spalle e gli punta la canna della pistola alla
nuca. “Non
muoverti.” Gli intima. Il mannaro
molla la presa, riprende velocemente forma
umana ma non si volta. “Verrete
all’Inferno con me!” Ringhia, gli
occhi sbarrati e fissi in quelli di Dean, che gli infila i gomiti sotto
al collo e lo immobilizza. “L’Inferno
è questo, amico.” Gli risponde
Sam, il timbro di voce privo di qualsiasi emozione.
Un attimo
dopo, gli spara. La pallottola
d’argento si conficca nel cranio e il foro è
netto, pulito; solo due gocce di sangue sporcano la guancia sinistra di
Dean
mentre il mannaro piomba a terra sulla destra, morto. Il maggiore
per un momento è frastornato. C’è stato
un
istante in cui il suo Sam gli è scivolato via da qualche
parte; lo ha guardato
e non lo ha riconosciuto. L’istante è passato e
ora ce lo ha di nuovo davanti. Gli sorride, poi gli dà le spalle e
si incammina per tornare alla
macchina
(parcheggiata a quasi 2 miglia di distanza dalla rimessa). Dean scavalca
il corpo e lo raggiunge in due falcate; Sam
non è neanche sudato, mentre lui è ansimante e
sfiancato dalle
ore di corsa
forsennata. L’adrenalina è forse l’unica
cosa che lo tiene in piedi. Per fortuna
almeno la notte sembra aver concesso un po’ di tregua
dall’afa soffocante di
quelle ultime settimane, altrimenti sospetta che a quest’ora
sarebbe morto. “Cos’era
quello?” Gli chiede
quando è al suo fianco. Sam gli sorride ancora, si
ferma (finalmente), si volta verso di lui e lo guarda in un modo che
Dean non
ha mai visto; c’è una luce diversa nei suoi occhi,
che non sa se temere o amare
ancora di più. “Non
lascerò che ti prendano.” Gli comunica
come fosse la cosa più ovvia e naturale del
mondo. Sono uno di
fronte all’altro, Sam gli si avvicina e posa la
mano sul petto di Dean, dita allargate, calde e sporche, mosse da un
leggero
tremolio, lascito tipico del rinculo di uno sparo. “Resteremo
qui insieme.” Gli dice, con
gli occhi che brillano. “All’Inferno.” Fine. * Cliccami e scoprirai cosa
sono: Sheti Nda: c’era una volta una
povera mentecatta (IO), che
prima di addormentarsi si immaginava cose strane e poi pensava di
scriverci una
storia. Ma nella sua vita succedevano cataclismi e ci metteva qualcosa
come
ottomila settimane a scriverla (tra l’altro a singhiozzi).
Lei detestava
scrivere così, continuava a riprendere in mano ogni riga,
parola e non era mai
soddisfatta del risultato. Alla fine la mentecatta pubblicava,
più per
disperazione che perché veramente convinta a farlo. La sua
tastiera volava
dalla finestra il secondo dopo, infatti. The end... XD E
niente, in realtà volevo tipo proseguire con una serie di OS
da appiccicare a Fantasma,
visto che il contesto di quest'ultima è consecutivo alla
precedente, ma siccome
sono impedita e faccio molta fatica a destreggiarmi con edit vari,
l'ideONA è
morta sul nascere. Ecco. Ciao Ele106 (@orsettobiondo)
Ogni volta, ogni singola, pietosa volta, si ripete che è
l’ultima.
“Zitto ho detto!”
La verità la sanno entrambi, ma dirsela ad alta voce
è tutto un altro paio di
maniche.
Comunque, non lo so mica
cosa è venuto fuori. Se
siete riusciti a leggere fino alla fine GRAZIE, se commenterete
GRAZIEMAPROPRIOGRAZIE, se sopravvivo scrivo ancora. Forse.