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Autore: t e d    10/06/2015    5 recensioni
[Blind!Yaku/Lev | Prev. "Trying to find the in-betweens {I don't care if I don't look pretty}" | In altre parole: volevo scrivere di Lev che descrive i colori a Yaku]
Probabilmente è per questo che Morisuke continua a dividersi fra i terzi anni e un gattino troppo cresciuto che di felino ha poco o nulla; solo perché Haiba dà, dà, e Yaku può rispondere con poco in cambio – con dettagli che non interessano a nessuno – ma a Lev bastano: Lev afferra ogni cosa che può di lui, la raccoglie con pazienza, stringendola fra le mani come se potesse sfuggirgli da un momento all'altro e lui non volesse, e per quanto poco sia, sembra andargli bene. Non deve tirare i suoi limiti oltre ciò che può fare, in breve, perché per Haiba è okay anche se in certi giorni Yaku non ci prova nemmeno.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Lev Haiba, Tetsurou Kuroo
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Cifre spezzate'
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Sette




Everything you do is super duper cute
(and I can't stand it)
Can't stand it, Never shout never

 

 

Ha sempre trovato scorretto il termine “non vede”: è falso. Se lui non vedesse, allora probabilmente quando spalancherebbe le palpebre ogni giorno si sentirebbe come avvolto in una strana foschia che non gli permette nemmeno di connettere con ciò che lo coinvolge; sarebbe un annullamento di ogni colore esistente sia in Tokyo sia nel mondo stesso, e non è quello che succede. Lui, ha sempre pensato, riesce a vedere: semplicemente, è stato condannato al nero per tutti gli anni della sua vita; un lutto che lui non ha mai accettato veramente ma che in un qualche modo si è sempre sentito incollato addosso. Probabilmente non è nemmeno il nero che gli dà così fastidio, ma è il non sapere: può provare a capire quanto corti siano i suoi capelli, quanto costantemente dilatate siano le sue pupille, quanto grande sia l'astuccio che appoggia sul banco ogni giorno; ma non lo sa mai con certezza. Yaku è perennemente in bilico fra la realtà esistente e la realtà che lui si crea, quell'incrocio approssimativo di ipotesi e sicurezze in cui lui è incastrato da diciassette compleanni e in cui navigherà in malo modo per altrettanti e più anni.
Lui non può guardarli, ma le sente impresse sottopelle tutte le domande mai dette, ne da sua madre ne dai suoi amici: non gli manca sapere come sia il marrone? Il blu? Non gli manca uscire per una passeggiata e commentare su quanto celeste sia oggi il cielo, e su quanto rosa le nuvole si tingeranno al tramonto? Non gli manca saper sorridere di quei sorrisi che sanno di sole, sapendo di che colore sia in effetti quella grande stella? E tutti gli ossimori, le sinestesie mai capite del tutto, quelle rabbie rosse mai veramente capite, non gli mancano? E ancora, Yaku vorrebbe rispondere: come? Non senti nostalgia di qualcosa se non l'hai mai provata, dopotutto, e lui non è mai stato abbastanza fortunato da permettersi di colorare dentro i margini da bimbo senza sapere dove quei margini fossero realmente o come li stesse riempiendo. I colori, a Yaku Morisuke, non sono mai mancati: forse, dal suo punto di vista, sono persino sopravvalutati un pochino. È felice anche senza saper descrivere la tovaglia di casa.
Ci sono stati anni in cui le nocche gli si riempivano di sangue ogni sera, dopo averle sfregate e torturate e uccise contro l'armadio rettangolare di camera sua. (Ci sono ancora le macchie? Non sa se sua mamma abbia pulito nelle mattine in cui lui andava a scuola, ma è quasi sicuro di no: l'odore del ferro si è sentito fino a quando non ha smesso) Non è mai stato veramente preso in giro, questo no, e non ha mai dovuto subire inutili scherzi come il bastone rotto o nascosto: tutti i suoi compagni di classe, in effetti, sono sempre stati piuttosto gentili con lui - troppo? Nessuno ha mai provato a infastidirlo, a litigarci assieme, a prenderlo un po' in giro – sentiva il clima cambiare, dal chiasso tipico dell'aula a un silenzio condiviso, rispettoso, assertivo: Yaku è qui, attenti. E il ritmo dei passi che cambiava, i “cazzo” bisbigliati quando gli passavano talmente vicini che riusciva a percepire il fruscio dei capelli sul suo corpo – con la paura di rovesciarlo, di farlo cadere. Perché, poi non mi sarei più riuscito a rialzare?, pensava ogni volta, Nemmeno fossi storpio. Ogni persona normale cade, e io ho solo un difetto più grande degli altri. Vedo meno di voi. Vedo nero.
Avrebbe voluto spiegare loro com'è bello quando ti svegli e riesci a sentire il vento attraversarti il sorriso, quando riesci a distinguere ogni singolo suono e ad annullare quelli che si trovano fastidiosi, quando ti senti lievemente soddisfatto – almeno all'inizio – e lievemente stupito da come dei singoli polpastrelli riescano a distinguere superfici e superfici diverse: avrebbe voluto, davvero, però – L'avete vista com'è carina quella ragazza? Quei capelli biondi e setosi, cosa le farei... E Yaku ha sempre saputo che a nessuno interessa del rumore delle foglie quando decidono di arrendersi e cadere in autunno se paragonate a un paio di occhi azzurri. Non sa nemmeno come siano, questi occhi azzurri. E, più o meno, non gli interessano nemmeno – i colori, i colori, i colori: è condannato a quello stupido nero che l'ha isolato da sempre, pensava mentre le ossa si sbriciolavano un po' di più contro l'intonaco della piccola stanza, a che cazzo mi serve sapere come sono due occhi azzurri? Castani? Non saprebbe comunque distinguerli, Cristo.

Ogni mattina è sempre la stessa storia, comunque: si sveglia, allunga le mani verso il trillio della sveglia, tira un pugno. Non si mette gli occhiali da sole, si rifiuta da quando ha quattordici anni e non gli fa alcuna differenza: inizialmente il sussulto sconvolto di sua madre quando si è presentato in cucina cercando di guardare verso di lei (parlava verso destra, forse? La sua voce è lieve e soffice, come se qualcuno stesse versando dello sciroppo d'acero e le lettere ci scivolassero sopra mentre pronuncia le parole) l'aveva fatto sentire vagamente in colpa, ma poi l'ha sentita aggiustarsi (Morisuke, è pronta la colazio-- Mori! Cos-- Siediti, ti ho preparato i waffle.) piano piano e ha sorriso vagamente, senza fissare niente in particolare. Quel mattino la vibrazione di Yaku-sama si è inceppata per un attimo, giusto il tempo di sbirciare gli occhi del figlio; ma lei è una madre, e le mamme amano incondizionatamente, anche se prendi cinque in classe o se i tuoi occhi dovrebbero essere castano chiaro e invece-- invece come sono?

(Non che non c'abbia provato, a saperlo. Ma fuori ha sempre indossato gli occhiali da sole e, quando ha provato a chiederlo ai suoi genitori a sette anni, ha sentito dei singhiozzi soffocati e dei passi pesanti allontanarsi velocemente. Non ha avuto risposta, solo un bisbigliato “Tuo padre ti vuole bene, lo sai. Noi ti vogliamo bene” e sul serio, Yaku l'avrebbe anche accettato, se non fosse stato seguito da “Lo stesso. Ti vogliamo bene lo stesso, Mori-chan”.)

I vestiti generalmente glieli prepara sua mamma, glieli sistema ogni giorno sopra la sedia posizionata a destra del comodino: è l'uniforme della Nekoma, e ormai sa come deve indossarla: la camicia, i pantaloni, la cravatta, quella specie di cardigan morbido morbido senza maniche che non ha mai capito come si chiami – non ha molti vestiti nell'armadio e ha sempre il terrore di abbinarli male: non importa se sia cieco, non vuole andare in giro vestito in modo ridicolo. Così qualche anno prima ha inventato uno stratagemma assieme ai suoi, un ripetitivo sistema di mensole nella quale ogni outifit è già pronto e preimpostato e lui non deve fare altro se non vestirsi – poi ci sono sempre i piccoli errori di calcolo, ma ci sono sempre le mamme per questo.
Quando arriva in classe è sempre uguale: i libri in braille, il bastone sistemato vicino al banco. Qualche “Scusa!” strillato troppo vicino all'orecchio, quando il toc! indica che qualche studente disattento ci è appena inciampato addosso, giusto per cambiare un po' la storia – e i conseguenti bisbigli poco distanti, della serie “Stai più attento! Come se quello stecchetto non si vedesse, poi!” “Almeno l'hai aiutato a riprenderselo?” “Dì un po', quel ragazzino lì è cieco?” “Parla più piano.. Comunque sì, non te ne sei accorto? Yaku-kun non può vedere fin dalla nascita” e l'odiato “Oh, mi dispiace”. La pietà è un sentimento bizzarro, perché è ciò che tutti odiano di più sentirsi addosso ma anche ciò che determina se siamo persone buone o cattive. E non è un paradosso piuttosto divertente, se pensiamo che si debba fare ciò che una persona odia sentirsi addosso per essere gente perfetta universalmente?

Quando finalmente l'ultima campanella si sgola per far notare a tutti come le lezioni siano finite anche per oggi e Morisuke si trova ad aspettare il consueto trin-trin-trin dei semafori, pronti ad avvertirlo che nessun auto sta arrivando (sebbene lui ascolti i telegiornali, e senta come ogni giorno cittadini muoiano perché investiti da un pilota noncurante che in quel momento ha deciso di attraversare con il rosso; gli mette un po' di paura, sapere di doversi affidare a un congegno elettronico per quei minuti che sembrano davvero molto, molto più tempo), un qualcosa gli urta la spalla e lo fa sbilanciare in avanti.
«Woops, scusami! Non l'ho fatto apposta, poco più indietro c'era una lattina e io non l'ho vista».
Vorrebbe rispondergli che una lattina non fa la differenza quando per una vita non riesci a far altro che fissare il nero – non l'ha visto il suo strafottuto bastone? Non è abbastanza chiaro che magari una battutina sulla vista non è il massimo per uno come lui?; e invece non fa altro che replicare a voce bassa e lievemente infastidita: «Non preoccuparti, può capitare a tutti». A me no.
Lo straniero, comunque, persiste nello sfottimento gratuito: «Bella giornata oggi, eh?»
Tuttavia, Morisuke si rende conto che la sua voce (È calda, nonostante tutto. Allegra. Vibra di quelle domeniche in cui Yaku si sveglia da solo, con calma, sapendo che per oggi non dovrà preoccuparsi di niente: del pigiama, del bastone, degli abbinamenti. È a casa.) appare lievemente distante dalla sua posizione, e pensa che probabilmente si debba essere spostato immediatamente all'indietro appena gli è venuto addosso. «Eh.. Immagino, sì».
«Ma come, Immagini?», e intanto il tap-tap di un paio di scarpe si allinea al suo e la voce è sempre distante, però meno, «Non vedi che bel sole che c'-- Oh mio dio».
Yaku si gira verso lo scalpitio delle scarpe (sinistra) e solleva il bastone e – forse – anche lo sguardo: «Eh già».
Intanto, lui (è una voce maschile, ne è sicuro) inizia a prodigarsi in una serie di scuse poco chiare: «No seriamente, cioè-- Oh mio dio-- Non-- Scusami, scusami! E sì che sono pure alto-- che cazz--- che figura di merd-- Scusa, scusa, scusa, ti giuro non era per-- prenderti in giro o altr--», e tu non sai se ti dia più fastidio il fatto che dannazione, ha o non ha appena detto che è alto? Non si vede un bastone da dove sta la sua testa?!, o che non riesca a fare una frase compiuta senza cambiare idea ogni secondo.
«Sono serio, non farci un dramma. A chiunque sarebbe potuto capitare», comunque, è ciò che gli dice.
«No, no-- È che sono sempre così sbadato--- In 'sto periodo poi-- No scusami--»
Trin-trin-trin; trin-trin-trin; trin-tr-- «Perdonami se ti sto interrompendo, ma penso sia il momento di attraversare e già», borbotta, «sono lento di mio, anche se non perdo altro tempo..»
Posiziona il bastone davanti a sé e inizia a muoversi lentamente in avanti, prestando attenzione ai suoni che lo circondano – persone che urlano a intervalli regolari, probabilmente al telefono; fruscii di scarpe comode, qualcuno magari è in pantofole; starnuti affievoliti dalle mascherine – e subito dopo, in due tap, le stesse vibrazioni ti affiancano: «Occhio a destra!... Oddio, non occhio. Non occhio! Intendevo fai attenzione a destra!», e una mano grande gli afferra il braccio e lo sposta a lato, facendolo incespicare. Yaku sbuffa infastitito.
«Non ho bisogno di una badante».
«Un, in verità sono un ragazzo. Comunque», inspira, «non avevo finito di parlare prima!»
«Perchè, stavi parlando?» Un piccolo ghigno gli spunta sulle labbra.
«Pffff, perché devi essere così brusco? Comunque--»
«Cosa, comunque? No, perché, comunque devo fare questo che comunque deve fare quest'altro e comunqu-» Morisuke si interrompe a metà frase, scoppiando a ridere. Non sa che faccia abbia il ragazzo – sia nel senso letterale sia nel senso di espressione – ma sicuramente non dev'essere molto compiaciuta con il modo in cui è stato preso in giro per gli ultimi dieci minuti. Ah, la socializzazione – deve ancora migliorare un po'. Si ferma di colpo, perché una vocina dentro la sua mente gli ha appena bisbigliato Cercava solo di essere gentile, e sì, lui non sa se in questo momento stia corrucciando le sopracciglia o corrugando la fronte (sua madre gli ha spiegato che generalmente implica sentirsi lievemente innervositi), ma in ogni caso si sente solo un po' in colpa. È un po' arrugginito in tutto questo, nel cercare le frasi corrette e nel sapersi fermare – non avendo mai avuto qualcuno con cui provare, non sa trovare limiti – ma-- non importa. «Dai, dimmi», dice, a voce un po' più soffice.
«Cercavo solo di riparare la figuraccia fatta prima», un grugno, «e di invitarti a prendere un caffè».
«Non so nemmeno il tuo nome. Tu non sai nemmeno il mio, di nome! Sono solo un cieco che hai incrociato per strada!» Cose da matti.
«Lo so, ma-- Senti, lascia perder-- Se vuoi andiamo, se no.. non importa. Sei solo un cieco incrociato per strada, hai ragione».
E Morisuke sente di star un po' mandando a farsi fottere ogni cosa. D'accordo, è uno sconosciuto di cui non sa ne aspetto ne nome, e potrebbe essere un vecchio pedofilo che in verità vuole solo approfittare di un povero disabil-- cieco (tuttavia, crede di no: la voce è incalzante e attiva, frenetica come Tokyo); ma anche se male, da quanto è che qualcuno non prova a parlare con lui? È disattento, veloce, e sicuramente entro qualche minuto manderà ogni cosa in vacca e Yaku dovrà contare fino a diecimila per non innervosirsi – ma ancora, tanto vale provarci. Può sempre dire di no. Non ha nemmeno dovuto cercare lui.
«No, no.. Va bene. Sono Yaku. Intendo, Yaku Morisuke».
«Lev», poi sghignazza, «Intendo, Haiba Lev. Gira a sinistra».

Lo guida dentro un coffee shop piccolo e caldo: le tovaglie sono di pizzo, le sente tastandole, e i tavolini sono bassi anche per lui. Lo sente lamentarsi per qualche secondo e poi fare un piccolo verso di gioia e: «Devo essere cresciuto ancora un po', faccio fatica ad incastrarmi anche qui».
In un pomeriggio Yaku apprende che il suddetto Haiba Lev è alto 194 centimetri e ha quindici anni - «Quindici anni? Quindici?!», «Sei tu che sei troppo basso, uh», «Haiba!» -, è mezzo russo - «Però le uniche parole che conosco sono solo le ballate che mia nonna mi cantava da piccolo» -, studia alla Nekoma esattamente come te - «Che strano, non ti avevo mai visto prima!-- Oh, no, no, non ancora... Scusami... Eh--», «Nemmeno io, pensa un po'» (avete riso insieme) – però è un primo anno, anche se afferma con soddisfazione che quei quindici anni tanto discussi pochi minuti prima fra due mesi diventeranno finalmente sedici e bho, insomma, Lev parla e parla e parla e Morisuke si sente travolto da tutte le cose che dice, come se stesse ripagando in due ore anni e anni di solitudine; a Haiba non importa se lui non può immaginare ciò di cui sta parlando, se non può empatizzare con lui quando si lamenta degli orribili scialli che indossa sua madre a casa («Mia mamma, Yaku! M a m m a! Non ha nemmeno cinquant'anni e già usa quelle schifezze») o se non ha ben presente quando gli racconta di come tutti gli chiedano se i suoi capelli siano veramente grigi – anche se fossero, che ne sa, viola, per lui non farebbe nessuna differenza (e sì, apparentemente il loro colore è naturale). Lui continua a disperdere piccoli pezzi di sé nello spazio che c'è fra un bicchiere di caffè lungo e amaro e un cappuccino con tanta panna, senza pensarci; Yaku ha imparato che ama i cani e i lupi, anche se tutti lo associano a un graaaaande puma, che detesta svegliarsi con la pioggia perché ciò implica che si deve portare dietro l'ombrello e lui non c'è abituato, e poi insomma, che peso, eh! Anche perché li perdo tutti, che ama i palindromi e se non abitassero in Giappone probabilmente chiamerebbe sua figlia Hannah solo per il piacere di vedere le due H torreggiare sopra l'intera parola, che ama gli oinirasan ma che detesta il salmone. La sua voce scorre attraverso vibrazioni che implicano solo un immenso piacere nel semplice atto di chiacchierare con qualcuno, senza implicare egocentrismo o altro. In cambio, Morisuke decide di prestargli qualcosa: lo spiegargli la differenza fra il verso del pettirosso e del merlo, l'amore per i corvi («Siamo dei gatti noi!» «Sì, ma sono incredibilmente affascinanti: non cercano niente, non ci provano nemmeno. Aspettano che rimanga una piccola parte di ciò che cercavano all'inizio e si accontentano di ciò che c'è, sgraffiandone qualche vantaggio. Massimo risultato con il minimo sforzo») e per quando il Sole è talmente caldo che non ha bisogno di vederlo per sentire che si sta sforzando più che può quella mattina, come abbia preso l'abitudine di usare le Converse solo per sentire sotto di sé i ciottoli della strada o il fango del prato. Sono piccole cose che non fanno davvero molta differenza per tutti coloro che possono proteggersi aprendo gli occhi, ma che per Yaku sono indispensabili – e non è assurdo, rivelare ciò che hai tenuto segreto per anni al primo sconosciuto che passa per strada?
Probabilmente, pensa Morisuke, la differenza fra quegli stranieri e Lo Straniero Lev, è che Haiba se n'è altamente fregato della sua cecità: ha continuato per ore a bisbigliare meravigliato frasi del genere “Guarda che magro quel cane!” oppure “La panna montata messa così forma delle ondine che sembrano quelle dell'Oceano Pacifico” per poi correggersi imbarazzato e forse – forse – l'invidia solita l'ha provata (perché non può non rodersi il fegato ogni volta che riflette su quanto avrebbe potuto fare di più se la sua retina avesse funzionato), ma è stato bello permettersi di sentirsi persone quasi normali mentre quella stanga continuava a inciampare su figuracce e lapsus e intanto Yaku si specchiava nella propria mente e non era cieco, solo più attento ai dettagli di altri.
Morisuke torna a casa tre ore più tardi del solito.

Passano cinque giorni prima che il suo bastone si scontri contro due scarpe da ginnastica e Yaku sbuffi infastidito.
«Scusami! Sono di corsa, scusa, scusa davvero!»
Si concentra, corrucciando le sopracciglia: «Haiba?»
«Yaku-san!»
E adesso, la domanda è: che diamine ci fa un primo anno (per giunta inserito da poco) nei corridoi di quelli del terzo, per giunta correndo? Si sposta un po' più a destra – passi estranei continuano a raggiungerlo e ad abbandonarlo e ciò che è più frustrante è che lui non sappia mai davvero a chi appartengano – e sente l'eco delle suole strascicate a terra stuzzicargli le orecchie poco dopo. «Che ci fai qui?»
«Come, che ci faccio qui?»
«Sei nei corridoi del terzo..» Alza il volto, sperando di averlo puntato correttamente.
«Questo lo so, tontolone!» Ma che cazzo.
«Eh».
«E sto cercando Kuroo, ovviamente!»
Eh, ma certo che sta cercando Kuroo. Perché diamine non c'ha pensato prima, d'altronde. Quale ragazzino di quindici anni non ha contatti con il capitano della squadra di pallavolo della Nekoma, in fondo? «Come fai a conoscerlo
«Sono l'Asso della Nekoma! Tu invece, dato che sei così basso, potresti fare un ottimo liber-- intendo, avresti potuto far--»
Yaku ignora l'epico fallimento ch'è la dialettica di Lev e sospira: «L'asso. Sei l'asso». In verità, lui lo sa che in verità l'asso è un certo Taketora – che diamine.
«Sì!-- Cioè, non ancora accertato, ma quasi. Manca poco e poi Yamamoto-senpai mi cederà il posto! Dovrà farlo. Non ho centonovantaquattro centimetri e talento da vendere per qualcosa, eh».
«Hai anche molta modestia, a quanto pare». Ghigna, «E sentiamo, Asso, a che ti serve uno come Kuroo?»
«Devo chiedergli se può convincere Kenma ad alzarmi la palla durante la prossima partita di allenamento; perché, tipo, io non ci riesco mai-- me la lancia per due, tre volte e poi si stanza e dice che è tutto inutile e insomma, come può essere inutile alzare a uno come me? Magari non so, però imparo in fretta. E Tora-san dice che non si può essere Assi se non si sa ricevere, e questo non c'entra nemmeno molto con Kenma-- lui alza, mica schiaccia, però--»
«Ho capito, grazie. Senti, se vuoi glielo dico io, visto che è nella classe a fianco alla mia e sta per suonare la campanella».
Sente dei leggeri spostamenti d'aria davanti a sé, probabilmente sta spostando il peso da un piede all'altro: «No, Yaku-san, davvero, non serve--»
«Volentieri, Haiba. Tanto sia io che Kuroo abbiamo un'ora buca adesso». Non si chiede perché lo stia facendo: potrebbe andare a leggere The Perks of Being a Wallflower durante la sua pausa, e probabilmente il capitano sarà a girovagare dalle parti dell'aula di Kenma, aspettando che il ragazzino esca (non l'ha mai capito, ma stanno assieme oppure è tutto platonico?) - non è che abbia tutta 'sta voglia di disturbarlo. C'è una minuscola parte di sé che gli bisbiglia che è perché non ha mai visto qualcuno sorridere, ma ormai sa come riconoscere se qualcuno sia felice o meno dai suoi gesti e lui vorrebbe sapere com'è la felicità di Lev-- è solo curioso.
«Davvero? Tipo, sul serio?»
«Eh--»
«Grazie, Yaku-san!»
La sua felicità, scopre Morisuke, è un pat-pat frettoloso sulla testa e il suono di passi leggeri e veloci.

(Non che non si sia mai chiesto come sia la propria: nei momenti in cui il cuore vorrebbe implodere dalla gioia e lui si sente tirare da ogni parte, quando sente il pori della pelle tutti liberi e puliti e sente scorrere fra di loro uno strano flusso che gli rende le giornate un po' più calde non solo perché il sole di Tokyo scalda facce e mani, come fanno le persone ad accorgersene? A volte sente il viso scontrarsi fra occhi e guance, sente le labbra distendersi e il viso inclinarsi leggermente verso destra, ma-- non ha mai potuto specchiarsi per rendersi conto di quanto possa essere bella la sua felicità – tutte le felicità sono belle – e nessuno si è mai preso la briga di spiegarglielo. Sua madre è lacrime calde e grosse che atterrano sopra la sua pelle, suo padre è un leggero grugnito e il tacco sinistro della scarpa che batte più forte sopra le piastrelle del pavimento, colei che gli insegnava a leggere i libri in braille la prima volta che lui c'è riuscito ha battuto le mani e ha fatto un giro per la stanza, mentre la gonna frusciava dimenandosi fra il raso e il tulle. Ma lui, com'è?)

Trova Kuroo mentre ciondola con Kenma all'ombra del grande albero di ciliegio (ha sentito il profumo dei suoi fiori in primavera) che c'è verso il confine del giardino. Non si stupisce quando capisce che c'è anche Kozume con lui, poiché è da quando quest'ultimo ha iniziato il liceo Nekoma due anni fa che lui e Tetsurō girano sempre insieme – c'è chi dice che siano una coppia di fatto, chi dice che sia qualcosa di queerplatonico: lui non lo sa e non gli interessa; finchè sono contenti loro, che problema c'è?
(Però, lui ha il sospetto che Kenma sia asessuale. E demiromantico. Ma ancora una volta, non sono affari suoi).
«Kuroo-san».
«Oi, Yaku!» Non è che siano in stretta confidenza: magari, in un universo alternativo dove Yaku non è cieco ed è appassionato di pallavolo, si sarebbe anche iscritto al club della scuola – tuttavia, non è mai capitato, e gli unici momenti dove i due del terzo anno abbiano mai avuto l'occasione di parlare sono capitati solo perché le loro sezioni, oltre ad essere vicine, hanno anche quasi gli stessi insegnanti di Inglese e Letteratura. «Che c'è?», infatti.
«Haiba mi aveva chiesto se per caso potevi convincere Kenma ad alzare per lui durante l'allenamento di oggi..»
Da in basso a destra, il ticchettio dei bottoni della PSP viene momentaneamente interrotto e si sente un «No» flebile, ma deciso. Kuroo scoppia a ridere, mentre l'altro sbuffa infastidito.
«Mi spiace, Yaku, ma Lev si è trovato una bella gatta da pelare!»
«È comunque inutile alzare a lui».
«Dai, Kenma, non essere così rigido-- è migliorato da quando è arrivato!», e Kuroo sogghigna ancora un po'.
«Nel senso che adesso le palle almeno le prende in testa e non le schiva totalmente?»
Non è difficile capire perché nessuno si sia mai unito al duo, pensa Yaku, sarebbe inutile alla loro dinamica. Muove la testa a disagio, mentre si schiarisce la voce e borbotta che «Beh, il mio lavoro l'ho fatto. Ci si vede».
Gira tacchi e bastone e inizia ad allontanarsi, quando la voce di Tetsurō lo raggiunge da dietro: «Aspetta, Yaku! Haiba, eh?»
«Cosa?»
«Da quando girovaghi con quelli del primo anno?»
«Io non-- Lev è solo un conoscent-- Non girovago con nessuno, Kuroo-san».
«Sì, Lev è solo un conoscente. Ci si vede!»
Non che lo infastidiscano i suoi modi di fare: chiunque, alla Nekoma, sa che Kuroo è un ragazzo piuttosto, um, malizioso. E furbo. In un modo particolarmente azzeccato, è un gatto a tutti gli effetti: anche gli occhi, per quanto non li abbia mai visti, vengono descritti come felini. Quindi il problema non è come si comporta, riflette mentre se ne va definitivamente e anche a passo piuttosto veloce, o forse sì: ma Lev non è nessuno di importante, e okay-- usa il primo nome, ma chi non lo farebbe se si trovasse davanti a un miscuglio di lettere in russo? Tutta la pronuncia è diversa, e non vuole lontanamente immaginare a quanto ridicola sia la sua se messa a confronto con uno del posto; ma è bello lasciarsi scivolare il suo nome in bocca, con quella I ingannevole e la V che dice un sacco di bugie e si nasconde dietro una F. Lo chiama Haiba-- lo sa. Semplicemente, a volte Lev gli scappa dalle labbra prima che possa riacciuffarlo. Niente di che. E poi: anche se girovagasse con quelli del primo anno? Problemi? Tanto Le-- Haiba è abbastanza alto da passare per uno dell'università (a chi vuoi darla a bere, Yaku, è talmente allegro e giocherellone che sembra un bimbo troppo cresciuto) e anche se non fosse, amen. Sul serio. Chi ci pensa più alle parole di Kuroo, adesso.

(In verità, ma non in sorpresa, Yaku continua a pensarci – Tetsurō non dice mai nulla in modo chiaro, ma è delicato e veloce nelle sue insinuazioni, mirate a fotterti la mente e le azioni quotidiane: Morisuke rimugina. A pranzo, durante le lezioni pomeridiane, tornando a casa. Pensa a cosa possano aver pensato gli altri per averlo visto chiacchierare con un primo anno (con Haiba) e poi si dà dello stupido per due ragioni: per preoccuparsi delle opinioni altrui e perché non è vero che ci passa tutto 'sto tempo assieme, solo quella volta al coffee shop e quell'altra tre giorni dopo e forse anche tutte le pacche sulle spalle che ha sentito prima che ci parlasse davvero erano sue, in fondo quelle mani erano grandi abbastanza per essere le sue e ohmiodiononhamairispostoeraluietuttil'avrannovist--)
La strategia migliore, in fondo, è quella di chiudere le cose prima che cerchino di sfuggirgli di mano.

Le leggi di Murphy, tuttavia, affermano che se qualcosa può andare storto lo farà: è in quei momenti che Yaku non sa se maledire Murphy o le sue sacrosante leggi, basta solo che riesca a maledire qualcosa visto che non importa se ha iniziato a usare le scale (e a rendersi ridicolo davanti a tutti, mentre rotea gli occhi vitrei cercando di capire con il bastone quanto sia alto un gradino in modo da non ammazzarsi rovinosamente e non rischiare di perdere la vita a causa di qualche blocco di pietra) o se esce dal retro: Haiba è lì.
«Yaku-san!», tentativo fallito numero uno, «fermati! Ti accompagno fino all'ascensore».
(«No, Le-- Haiba, non serve».)
«Yaku-san!», tentativo fallito numero due, «non so a chi chiedere, ci capisci qualcosa di algebra?»
(«Finchè ti porti dietro i libri di geometria è complicato spiegartela, eh. Ora scusa, ma devo andare».)
«Yaku-san!», tentativo fallito numero tre, «l'uscita è dall'altra parte!»
(Non ha saputo che scusa inventarsi e l'ha seguito.)
«Yaku-san!», tentativo fallito numero quattro, «hai una piccola macchia sulla manica del cardigan».
(«Haiba--», si è sentito arrossire, «um, grazie».)
«Yaku-sa--», ennesimo tentativo fallito, probabilmente numero sedici dopo due settimane, attuale: non ha più bisogno che finisca di chiamarlo. Sa che è lui.
«Cosa».
«L'ho capito, sai». Ora: cosa, di preciso, ha capito? Ha capito che ci sono giorni in cui vorrebbe provare a poggiare le mani sul suo viso per capire meglio come siano le Guance di Haiba Lev (perché è tutto scombussolato: ha la voce di un ragazzo, i modi di un bimbo esaltato, e dovrebbe avere anche i tratti russi con i volti affilati e gli sguardi pungenti e-- come? Come può una sola persona contenere tutto questo?), ha capito che ci sono dei momenti, mentre ascolta i Fall Out Boy e i Bastille, in cui Yaku ascolta una frase e la associa a lui, ha capito che vorrebbe solo prenderlo a sberle (se riuscisse a prendere la mira basandosi sulla vista) in quegli attimi in cui mentre parla con lui gli poggia una mano sulla spalla per fargli capire dove guardare? «Perché mi stai ignorando?»
«Non ti sto ignorando, Haiba».
Un grugnito, «Sì che lo stai facendo. Non voglio sapere perché se non vuoi dirmelo, ma.. Mi stai evitando».
Ci sono casi in cui l'unica via d'uscita è la resa: «...Forse».
«Okay», una pausa, «Ieri era il mio compleanno». Ieri era anche l'unico giorno in cui non ti ha parlato.
E forse, ma sempre forse, il senso di colpa gli sta prendendo lo stomaco e glielo sta facendo a pezzi; macroscopiche realtà di come Yaku Morisuke sia uno stronzo (di come lo sia sempre stato), ma questa volta di più – e non sa bene il perché. Sente solo i suoi organi interni venire scarnificati e distrutti mentre i muscoli del suo viso si piegano verso il basso con l'assurda consapevolezza di aver perso di fronte a una semplice frase; gli piomba addosso il pensiero che ci sono catastrofi sfiorate per millimetri e qualche accozzaglia salvifica di lettere, e altre che invece ti si schiantano contro senza nemmeno lasciare il tempo di reagire: ora, qual è quella di Yaku, che ha trovato il modo per sbarazzarsi di Lev ma che sente sbriciolare ogni centimetro di sé?
Haiba apre la bocca ancora, bisbiglia un «Ci si vede, Yaku-san», gira i tacchi e se ne va.

Deve fare qualcosa: tipo, alla svelta. Molto alla svelta. Non sa ancora il motivo – non si vuole chiedere il perché, ma era il suo compleanno e l'ha dimenticato; non è che non lo sapesse, okay? Gliel'aveva detto, Lev, che fra poco sarebbe diventato un sedicenne fatto e finito. E lui se n'è scordato e--
Yaku Morisuke, in poche parole e paradossalmente, è un diciassettenne nato e cresciuto per mettere ordine. È una creatura di abitudine, un adolescente che si crogiola nelle routine e che passa il tempo a risolvere problemi. Non è che voglia sistemare tutto – è il suo dovere: sistemare ciò che sono stati. Il che non sa bene cosa sia (un posto nello spazio evita un posto mentale), ma un pochino meritava, e un po' di più era ancora meglio avere una persona che lo rincorresse sapendo già dove lui fosse.
Probabilmente è per questo che, durante la pausa fra le terza e la quarta ora, prende il bastone e percorre per la prima volta il corridoio dei primi anni: si sente un idiota, perché ha già superato quattro classi e gli è venuto in mente (adesso, non prima, adesso) che Haiba non gli ha mai detto la sezione e quindi è meglio che si fermi perché il corridoio è finito e lui ha superato ogni aula e dov'è, dov'è, che cazzo, giuro che ora torno indietr--
«Yaku?» Yup.
«San», tossisce, «No, non è questo ciò che volevo dir-- Haib-- Le- Haib--»
«Compra una vocale, Yaku».
«San».
«Compra una vocale, Yaku-san». Sia santo il cielo se non odia 'sto ragazzino. (No), «Che c'è?»
«Domani, tipo, uscire che potremmo, eh, compleanno». Eh?
Infatti: «Eh?»
«Stavo pensando che--»
«Woah, tu pensi?» Ma che diavolo sono un suo dannato senpai che mi porti rispetto questo quindicen-- sedicenne che--
«Lev», un attimo di incertezza, «Intendo, Haiba--»
«Guarda che, uh, Lev va benissimo. Cioè. Bene».
«Mi lasci finire?», silenzio, «Ieri era il tuo compleanno» (uno sbuffo infastidito) «E io non ti ho fatto gli auguri-- Fermo!» (hai sentito le suole delle sue scarpe iniziare ad allontanarsi al non) «Quindi magari potremmo uscire. Cioè, noi due. Domani. Non un appuntamento» (hai provato a ridacchiare; hai anche fallito) «Solo un'uscita fra amici. Credo. Intendo, siamo amici no? Forse, tipo, un po' strani. Ma amici. Penso. Comunque, domani alle quattr-- Intendo, quando vuoi-- Magari devi studiare e lo capiscoelasciaperderemegliosevadoeh».
E poi, tipo, Haiba scoppia a ridere – di quelle sue, che a Morisuke prendono la pelle e ancora una volta lo stomaco e si sente come se avesse dimenticato come si fa a respirare ma va bene così perché tanto c'è Lev che lo fa per entrambi – e gli poggia una mano sulla spalla e la pancia fa un piccolo flop; Yaku capisce che sì, ormai è fottuto. «Guarda che va bene alle quattro, non ho pratica domani», Morisuke tira un sospiro di sollievo, «Chi porta i fiori?»
Ma che--
Haiba sogghigna e si allontana.

Il giorno dopo Yaku passa le ore di scuola a comportarsi come un perfetto terzo anno pieno di pressioni per gli esami finali: giocherella con la penna, mastica l'interno delle guance, tiene il viso sulla guancia poggiata sul palmo della mano; si distrae, perché in un qualche modo deve ammazzare il tempo e senza pensare a cose troppo compromettenti. Ha già pianificato tutto: come si vestirà, che gusto di gelato scegliere (per quanto ami il cioccolato fondente, non può rischiare di smerdarsi tutto), in quale parco andare (è banale? È banale, lo sa, lo sa, lo s-- D'altronde, la prima volta è stata in un coffeeshop), quanto stare (e poi, si cena fuori? Viene a casa con lui? Ognuno torna dalla propria famiglia? Come si fa a fare queste cose??), che distanza mantenere fra i corpi, come non si sfioreranno le loro mani perché non è un appuntamento--
Che cazzo dice. Gliel'ha chiesto persino Lev chi dovrebbe portare i fiori fra loro due.

(Stava scherzando? E quali fiori? Nontiscordardime, orchidee, rose?)

Non è pronto, pensa mentre si dirige verso la classe 4, non è nato per queste cose. A momenti riesce ad allacciare qualche rapporto con Kuroo e con i suoi compagni di classe. Può tornare indietro, effettivamente. Può girare i tacchi, spostare il bastone e non correre – non potrebbe farlo comunque – ma accelerare il passo per fare in modo che non sembri sospetto ma che, allo stesso tempo, gli permetta di andarsene e dimenticare questa boiata tanto comunque è un primo anno cosa ci fa lui con gente più piccol--
Sfortunatamente, Lev è giù fuori che lo aspetta e lo blocca: «Yaku!»
«San», cosa diamine ha in mente, «Cioè! Sono qui».
Sente Haiba ridacchiare: «Lo so che ci sei, tranquillo. Andiamo?»
«Ma se non sai nemmeno dove».
«Va bene comunque», e Yaku non lo sa con certezza – non l'ha visto – però immagina Lev sorridere mentre lo dice.

Lo porta al Parco di Ueno: niente di speciale, lo sapeva già. Prendono entrambi un cono gelato, Haiba alla fragola e lui allo yogurt ai frutti di bosco, e non fanno altro che girovagare per qualche ora perennemente in tondo – non che non abbiano mai visto quel posto, in fondo. I professori ti portano lì ogni anno per studiare qualcosa di nuovo: che siano gli alberi alle elementari e le specie di animali alle medie; e anche se non fosse così, è generalmente il primo luogo di ritrovo per tutte le compagnie di adolescenti giapponesi. Sia lui che l'altro sanno dove sono i ciliegi dai rami più grossi, dove generalmente c'è ombra; attraversano coppiette di ragazzini in preda a quella tensione solita dei primi baci che non fa altro che farti sorridere nervosamente e dire parole sbagliate per tutto il tempo in cui siete insieme. É un comune giovedì, il primo di novembre, e non è cambiato niente da due mesi e mezzo fa giorni fa – Lev è il solito Lev, Yaku è il solito Yaku. Le loro frasi si mordono, si inseguono; non chiedono nient'altro se non essere ascoltate: troppo giovane per essere preso sul serio, troppo invisibile per essere considerato – in qualche modo devono risolvere, così si tramutano solo in un'accozzaglia di lettere buttate insieme e urlate senza più nemmeno uno scopo se non quello di essere pronunciate. Morisuke sente continui mulinelli d'aria al suo fianco (non si è tenuto abbastanza vicino da poterli sfiorare) e capisce che, mentre Haiba inciampa sui suoi stessi pensieri, sta gesticolando come un dannato: prova a immaginarselo, alto come un grattacielo che fa il solletico alle nuvole, mentre i suoi arti si muovono e le braccia ballano e le mani creano figure non specificate nell'aria; non riesce mai ad avere un ritratto completo di Lev, ha sempre un pezzo mancante che non sa come procurarsi o che non sa dove posizionare, e anche questa volta fallisce – non è nient'altro che una presenza importante, mentre ride alle sue battute e lo ascolta affascinato parlare di come il braille non sia così complicato, una volta che ti ci abitui. Il parco dove sono adesso non è niente di speciale, non è nemmeno sicuro di chi sia quest'Ueno, e non lo sono neanche loro: se potesse guardarli da fuori (se potesse guardare) li troverebbe quasi ridicoli, un nanetto con un bastone che non sa bene dove puntare lo sguardo e un ragazzino troppo cresciuto che parla a volume troppo alto.
È suonato il terzo rintocco delle sei di sera quando Haiba fa finalmente una pausa e dice: «Um, una panchina. Ci sediamo?»
Le ginocchia si toccano quando prendi posto, così Yaku si sposta un po' più a destra; appoggia il bastone per terra e si porta le cosce fino al petto, abbracciandosi tutto in un groviglio di dita e avambracci. Rimangono in silenzio, ma va bene anche quello: onestamente, Morisuke è arrivato a un punto in cui non gli importa nemmeno più se comunicano o meno. Lev c'è? È okay. È anche un pensiero mieloso e incredibilmente morbido per uno come lui; uno di quelli che non si dovrebbero dire ad alta voce perché sono importanti e che succede se magari si sbaglia?
Haiba è qualcosa di troppo piccolo e tangibile per potergli dire una bugia.
Vuole soltanto rubargli un po' di tempo, anche se è incredibilmente egoista da parte sua: l'ha letto anche in un libro, “it's the worst thing you can steal / the time of other people”, e quelle poche parole gli si sono piantate in mente subito, costringendolo a riflettere ogni volta che doveva aprire bocca – ma con Lev, francamente, non gli interessa. Vuole sapere tutto di lui, di chi è stato, di chi desidera essere un giorno; permettersi di scavare a fondo, fino a quando non può palpare le frasi mentre esse gli scivolano sottopelle e gli scorrono nel sangue. Sembra quasi giusto così, recitato nella sua mente, senza sapere bene cosa – in effetti – vorrebbe fare Lev.
«..Yaku-san. Oi, Yaku».
«Uh? Scusami, non ti ho sentito prima».
«Ho notato», gli dà un colpetto con la spalla, «Lo sai, no?»
«Cosa?»
«Che se hai domande, tipo, puoi farmele».
Gli viene quasi da ridere: cosa diavolo vuole saperne lui di quello che c'è non solo dentro la sua mente, ma qui fuori? Pensa davvero che bastino solo sedici anni di vita per poter capire cosa voler fare in altrettanto tempo? Lui non ne ha nemmeno diciotto e a momenti sa di esistere; cosa può sapere, Haiba Lev, di quello che--
«I colori», le sputa così, sette lettere mai riuscite a decifrare realmente. Perché Yaku Morisuke è una persona complessivamente organizzata, si sa: ma questo va oltre le sue possibilità. E certe volte tutto ciò fa rabbia. «I colori, dico. Riusciresti a descrivermeli?»
Probabilmente Lev si è stretto nelle spalle, nella breve pausa che ha preceduto: «Certo. Quale vuoi sapere?»
«Tutti..?»
«Dico, da cosa vuoi partire. Arancione? Viola? Azzurro?»
«Verde».
«Okay, allora...», pausa, «È il mio colore preferito. Anche i miei occhi sono così. Probabilmente, il verde è come quella sensazione che provi quando sai di aver risolto ogni cosa: non hai più problemi, non hai più obiettivi o traguardi da raggiungere perché l'hai già fatto; ti senti verde quando le responsabilità si sciolgono e-- non so, Yaku-san, non hai mai sentito il cervello spegnersi? Non nel senso medico della cosa, ma... Sai che va bene. Un po' come quando riesci a consegnare un compito difficilissimo con una settimana di anticipo rispetto agli altri, o come quando trovi la posizione giusta sul divano».
Yaku annuisce, poi continua: «Blu».
«Quello è il colore dell'oceano, anche se tecnicamente l'acqua è trasparente. Comunque-- È un colore profondo in ogni sua sfumatura, che sia elettrico o notte. Le serate estive, con l'afa che ti schiaccia la mente e la voglia di non fare niente che ti stringe le mani, sono blu. Anche la matematica: i numeri, le equazioni, le potenze – è tutto blu, secondo me; generalmente associo le scienze ai colori freddi: oltre all'algebra, biologia e chimica sono azzurre e l'astronomia è lilla».
«...Grigio?»
«Hai presente Prima Colazione di Jacques Prèvert?»
Morisuke annuisce ancora.
«Ecco, quella poesia è grigia. Non dev'esserlo necessariamente per l'amore finito – quello è rosso cupo – ma tutta la cadenza delle lettere, il modo in cui i versi e gli oggetti si ripetono senza un'apparente conclusione, il fatto che sebbene non ci siano virgole la poesia sia lenta: sono tutti fattori grigi. Ma non è un brutto colore, fidati». (Yaku si fida)
«Giallo?»
«Gli uccellini che ti svegliano la mattina».
«Incredibilmente fastidiosi?»
«Che pessimista, Yaku-san».
«Dai, scherzavo. Ma più corvi o più merli?».
«Galli».
«Ma cos--»
Lev ride, «Merli, Yaku-san, merli». (Deve smetterla di chiamarlo Yaku-san) (E poi: Ma che cazzo.) «Altro?»
«Mmm.. Magenta».
«Uh, questa è difficile. Allora: ci sono due tipi di magenta; il secondo viene chiamato fuxia e ricorda le donne che si preparano prima di un appuntamento importante. Il primo, invece, sono le scottature lievi che ti becchi quando passi le dita sopra una candela».
Ed è affascinante sentirlo parlare, cercare di far assomigliare un pigmento a qualcos'altro dei cinque sensi che non sia la vista – frugare nella sua memoria finché non trova il paragone perfetto a ciò che chiede Yaku. Basicamente, è bello ascoltare qualcuno sforzarsi così tanto per lui; per rendergli la strada più facile, per permettergli di incastrarsi meglio con la gente quando questa parla di come sia bello l'ultimo vestito che si è comprata, ha un rosa così carino...
Perché, poi? Perché provarci così tanto? Che ci guadagna, Lev, quando ha passato un'ora a parlare ininterrottamente di colori? Cosa cambia per lui una volta che ha detto che il nero sono tutte le bugie che non sono mai state svelate e il bianco è il primo pugno che ti spacca il labbro? Niente, appunto. Probabilmente è per questo che Morisuke continua a dividersi fra i terzi anni e un gattino troppo cresciuto che di felino ha poco o nulla; solo perché Haiba dà, , e Yaku può rispondere con poco in cambio – con dettagli che non interessano a nessuno – ma a Lev bastano: Lev afferra ogni cosa che può di lui, la raccoglie con pazienza, stringendola fra le mani come se potesse sfuggirgli da un momento all'altro e lui non volesse, e per quanto poco sia, sembra andargli bene. Non deve tirare i suoi limiti oltre ciò che può fare, in breve, perché per Haiba è okay anche se in certi giorni Yaku non ci prova nemmeno.
È okay a prescindere, ed è alla descrizione del Panna che Morisuke si rende conto che non potrebbe chiedere, o fare, di meglio. Non riuscirebbe a immaginare scenari diversi se non questo, con lui che vede per la prima volta (più o meno) e Lev che, come al solito, è lì – non crede di volere qualcos'altro che non sia ciò che sta vivendo, anche se lui è cieco e Haiba è più piccolo di lui ed è tardi e fa freddo e seriamente, perché non riesce a lamentarsi?
«Yaku-san?»
Ooops; ha smesso di ascoltare da un pezzo. Ma tu continua a parlare, per favore, per favore-- «Lev?»
Non è assurdo come uno chiami l'altro per nome, e come quell'altro debba aggiungere un suffisso per farsi notare?
«Da quanto è che non mi stai più a sentire?»
«Io-- Cioè--- S-scusami...?» Non lo sa con certezza, ma forse – forse – sta arrossendo.
«Non serve che ti scusi, Yaku-san...», Lev sospira e Morisuke sente una pressione fra le sue sopracciglia, «E smettila di corrucciarti, poi ti vengono le rughe». Ha diciassette anni, non sessanta. (Si rilassa ugualmente)
«Haiba?»
«Um?»
«Va bene, Yaku. Non sto parlando da solo, eh. Intendo che va bene solo Yaku», e tanto la stronzata l'ha già fatta quindi perché non peggiorare la situazione? «E mi chiamo Morisuke».
«Lo so che ti chiami Morisu-- Ah».
«Già».
C'è un attimo di-- nemmeno imbarazzo, insomma, non è successo niente di speciale (no?); è solo una di quelle situazioni nelle quali si vorrebbe fare qualcosa ma non si sa cosa di preciso, e non si sa neanche se quel “qualcosa” sia condiviso dall'altro. Yaku giocherella con le dita contro il suo ginocchio, batte il ritmo di quella canzoncina che hanno trasmesso tempo fa alla radio e che gli ha fatto venire in mente Haiba (I never want to let you go / The more I think about / The more I want to let you know / That everything you do / Is super duper cute / And I can't stand it; c'era anche un I love you all'inizio del verso ma-- Quanto tempo passa prima che una persona si renda conto di essere innamorata di un'altra, e ancora, quanto tempo c'è fra una cotta e una-cosa-seria?), finché non sente un tonf e un'imprecazione a mezza voce poco a più alla sua destra. E poi: un tentativo di avvicinarsi, una mano sul braccio, un «Um» borbottato; Morisuke che si stanca, che alza i polpastrelli per trovare la curva del maglione di Lev e l'osso della spalla, che ci appoggia la guancia sopra – Haiba che sussulta un attimo al contatto e che, infine, fa scorrere le dita attraverso le ciocche dei capelli di Yaku, arricciandole attorno all'indice.
E la domanda: che cosa siamo, adesso?

Il giorno dopo, prima che la campanella suoni e la routine ritorni la solita – è mai cambiata? - Kuroo è dietro di lui, a sussurrargli nell'orecchio: «Così vi siete decisi, eh?» e lui non vorrebbe sapere a cosa si sta riferendo; però lo sa.
Ciononostante, Yaku finge di non avere la più pallida idea di ciò che sta accadendo: «Chi?»
«Dai. Tu e Lev».
Che poi, non è che adesso stiano assieme. Lui non è il ragazzo di nessuno, e così Haiba. Sono solo usciti insieme una volta (e hanno passato mezz'ora a bisbigliarsi cose all'orecchio e a tremare insieme perché per tutti i cieli esistenti e non, come non avrebbero potuto?) e basta – poco importa che per quanto poco siano esistiti, Yaku si sia sentito pieno. Capito no: come, d'altronde? Lui e Lev sono su due universi completamente diversi; scintille di due fiamme diverse che in un qualche modo, in un qualche mondo, si sono ritrovate nella stessa corrente d'aria – non volano assieme, non si toccano mai per davvero: seguono semplicemente lo stesso percorso e, se mai capita di sfiorarsi, entrambe si scottano. Solo, non lo decidono loro – una serie di coincidenze malamente incastrate li hanno portati a-- questo. Niente di ufficiale. Quindi, Morisuke nega: «No».
«Yaku».
«Non c'è nulla di... Certo--»
«Però ti piace. Haiba. Lui».
Capitan ovvio. «Eh--»
«E a lui piaci tu. Che problemi ci sono?»
«Lev è un primo anno». Sono cieco. «Parla troppo». Sono cieco. «Fra poco io devo andare all'università e lui a momenti studia qui». Sono cieco. «Quando parla inciampa sulle parole». Sono ciec--
Kuroo, tuttavia, ridacchia: «Sì, ho notato stamattina. Non faceva altro che parlottare di te e, inoltre, ha ricevuto più palle con il suo viso che con le mani oggi», e poi aggiunge a bassa voce: «Dovresti vederlo. Non perché è bello – Haiba è bello, Yaku – ma per come intreccia le dita quando ti cita in una frase, per come gioca con le sue mani mentre dice che Yaku-san ha fatto questo e quest'altro. Ha tutte queste braccia e tutte queste gambe che non sa bene come sistemare, lui, e poi parla di te e diventa ancora più un groviglio di arti e sembra che si voglia fare ancora più piccolo e-- per favore, Yaku, permettitelo».
Vorrebbe dirgli che anche lui, se potesse, guarderebbe Lev. «Almeno non hai citato gli occhi che si illuminano e i sorrisi che risplendono come in qualsiasi shoujo manga, grazie».
È sicuro che Kuroo abbia ghignato mentre diceva: «Solo perché così non ti avrei convinto». E poi, mentre si allontana: «Se proprio non vuoi niente da lui, diglielo chiaro e tondo. Vi ho visti ieri – e ho visto lui».

(Non va bene non va bene così ha solo quindici anni no ne ha sedici aspetta adesso abbiamo solo un anno di differenza fossero solo quelle le differenze fra di noi che succede se un giorno si stanca di me o di come reagisco a come si comporta o se mai si stuferà di spiegarmi le cose che vede ma è il primo che l'ha fatto è Lev insomma non è che adesso posso mandare in vacca tutto ma poi tutto cosa-)

«Lev».
«Yaku-san!»
Ora: Morisuke non si è mai curato di imparare il come delle cose, ma solo il perché. È una di quelle persone che preferisce sapere il motivo di ciò che fa invece del processo stesso, in modo da decidere quale sia il vantaggio migliore e scegliere quella via. Ha continuato così per diciassette anni, studiando per ogni azione tredici reazioni diverse e poi mettere in atto quella più facile – o comunque, quella con maggior guadagno. E adesso-- adesso è nei casini. C'è un modo non troppo imbarazzante (ma nemmeno troppo distaccato) per chiedere a qualcuno “Ma quindi, siamo una coppia? Se no, vorresti esserlo?”; una frase che gli permetta di non perdere la faccia e di mettercene un po' comunque? Senza troppi danni, uh. «Che siamo?» No. Non c'è.
«Due adolescenti iscritti alla Nekoma? Uno troppo alto e uno, uh, troppo basso? Ma non importa, Yaku-san, ti voglio bene comunque. Anche se da qui sei daaaaaavvero basso».
«Haiba--» Seriamente, perché lui? «Intendev, uh, ieri. Sai. Ciò che siamo da ieri, ecco, cos'è?»
Lev ci mette un po' a rispondere: «Niente, Yaku», e c'è una pausa nella quale Morisuke rimane fermo immobile a pensare a tutte le bugie che si è detto per mesi, cercando un modo per uscire da questo scenario incredibilmente scontato e-- ha bisogno di appoggiarsi da qualche parte. «Ma,» Uh?, «solo perché non è stato detto».
Infatti: «Uh?»
«S-se a te va bene, s'intende. Um».
E a Yaku vengono in mente parole con cui continua a formarsi, intermittente ma costante, il pensiero che sì cazzo, è ovvio che va bene, se no non sarebbe venuto qui e non avrebbe aspettato che anche gli ultimi passi si fossero allontanati prima di farsi vedere e-- «È okay, immagino».
«Oh. Beh. Va bene».
«Va bene».
Rimangono in piedi uno davanti all'altro per qualche minuto: «Lev?»
«Yaku?»
«Chinati un secondo».
«Cosa?» Effettivamente, gliel'avrebbe potuto chiedere meglio. Yaku Morisuke non è mai stato bravo a parlare: potrà anche avere i voti migliori in ogni materia orale del programma, scribacchiare poesie e consegnare i compiti per casa in un giapponese forbito ed elegante, non ci sono dubbi, ma-- ci sono anche tutti gli intrecci di frasi e i garbugli di lettere che si mischiano nella testa quando deve dire qualcosa di importante, quelli che non fanno altro che trasformarsi in balbettii e monosillabi male accostati fra di loro; ha sempre preferito evitarli, in parte per non rovinare gli altri e in parte più grande per non rovinare se stesso – a volte li lascia consumare fra le labbra, permette che si infilino fra le crepe della pelle per il freddo e le ferite dei morsi; semplicemente, ci sono altri casi in cui bisogna farlo. Bisogna prendere tutto in mano e gettarlo agli altri, piano piano, con colpi precisi e ben assestati, non si può negare.
Semplicemente, lui sa da una vita anche come fregare le cose, come prenderle in giro senza che nemmeno se ne accorgano; così Yaku sporge le mani in avanti: «Il viso. Qui», e aspetta che i suoi polpastrelli si scontrino contro le guance di Haiba.
A suo modo, si rende conto, lo sta guardando: lo fa mentre scorre i pollici contro la sua fronte, per misurarne la lunghezza; contro il contorno del volto, conto le palpebre, per sentire quanto grandi sono i suoi occhi e quanto folte le ciglia; contro il naso, lungo la linea retta che termina con un piccolo bop! che indica la patatina alla fine. Lev rimane lì, docile e silenzioso, mentre Morisuke si concentra e cerca di carpire ogni singolo particolare sul suo conto, tutto ciò che avrebbe potuto sapere – o forse no – se avesse avuto anche lui la vista; a volte annuisce a se stesso, altre bisbiglia «Kuroo aveva ragione» e «Così bello, così bello» - sorride da solo, Yaku, perché finalmente sa cosa potrebbe vedere se potesse.
Quando infine passa le dita sopra la sua bocca, fermandosi a ogni curva e a ogni pellicina ribelle, constatando che sono proprio da Lev: morbide ma rovinate; ecco, sente che Haiba sta sorridendo con lui. E si sente un po' stupido con le mani sopra il viso di qualcun altro nel bel mezzo di un corridoio, ridacchiando lievemente; si sente ancora più stupido quando arrossisce perché Lev gli afferra i polsi, glieli sposta verso il basso, sussurra un «Um» e poi lo bacia. Non è niente di speciale: solo un paio di labbra contro un altro paio e il mal di schiena e il torcicollo e--

È okay. È davvero okay. 




 


Uh;
Credo che la Yaku/Lev sia importante tanto quanto la Bokuto/Akaashi per me. Sinceramente.
Il titolo è parte tratto Young Blood (The Naked and Famous) e parte tratto da Big Girls Cry (Sia); nessuno dei due è generalmente il mio genere musicale abituale ma... Ci stavano, insomma. Anche perché generalmente le canzoni d'amore usano un sacco la vista e quindi ho avuto un attimo di w haT mentre frugavo nella mia mente per idee ahaha.
Inoltre, perché diaMINE YAKU MORISUKE NON VIENE INSERITO NELLA LISTA DEI PERSONAGGI C'MON Y A KU
Ted 

 

(Ah, parlo tanto ma non mordo! Se volete, qui c'è il mio tumblr. Tanto per essere nerd insieme.)

   
 
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