Anime & Manga > Il campo dell'arcobaleno
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Autore: Kokky    09/01/2009    1 recensioni
[Il campo dell\'arcobaleno]
Scritta qualche mese fa.
"Higure non lo sapeva, lei non poteva. Lei aveva osservato. E odiato senza odiare, e amato senza amare.
Le farfalle danzavano ancora attorno a lei, sembravano chiamarla, e asfissiarla in quel bianco accecante.
"
Genere: Introspettivo, Sovrannaturale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Come on lets show, them your love
Rip out the wings of a butterfly
For your soul, my love
Rip out the wings of a butterfly
For your soul”

Wings of a Butterfly – HIM

 

 

Cyou no haka

 [Una tomba per le farfalle

Higure; Il campo dell’arcobaleno]

 

 

Non è che lei odiasse i suoi compagni.

Lei era una bambina normale, timida, impacciata, con gli occhiali calcati sul naso e i capelli raccolti in due trecce; lei era quella che ascoltava senza intervenire, che aveva delle amicizie superficiali con le compagne e le osservava un po’ distante ridere e chiacchierare di vestitini, pupazzi e cose del genere.

E veniva presa in giro dai maschi, lei; veniva presa in giro ma non diceva nulla, piegava la testa, abbassava gli occhi e non voleva piangere, così tratteneva le lacrime, e aspettava che tutto si fosse calmato. Che fosse tornata in pace con se stessa.

Non è che li odiasse.

Sapeva che erano stupidi, lo sapeva. Però a volte la rabbia le percorreva la pelle, proprio sotto, facendole venire dei brividi e dei tremori, e le guance arrossivano d’ira, le sopracciglia si piegavano senza indulgenza sugli occhi; ma tanto poi non faceva nulla.

Non è che li odiasse, in fondo.

Però quando lui era arrivato – Suzuki era arrivato  – era cambiato un po’ tutto. C’era chi aveva la forza di ribellarsi, lei lo aveva visto: si era messo contro il gruppetto della classe, si era buttato lui al posto del ciccione dalla finestra e poi l’avevano preso per la caviglia.

 

[Cercava la morte? Che voleva, che voleva? Eh, che desiderava?

La fine del mondo? L’incubo dell’inizio?

Farfalle, solo farfalle che ricoprono tutto: si asfissia]

 

 

Higure aveva incominciato ad ammirare Suzuki proprio da quella ribellione. Anche lui aveva gli occhiali sul naso, era un quattrocchi; si era appena trasferito dalla grande città, eppure eccolo così forte, spavaldo, deciso. Ecco, le piaceva proprio così.

A guardare il sole del tramonto e a rimanerne folgorato; con il profilo dritto di fronte alla luce, e lei ad osservarlo e a pensare quanto le piacesse.

 

Oltre a Suzuki, nella sua lista da persone da emulare c’era il fratellone.

Il fratellone era così grande, così alto che lei lo rimirava dal basso e non poteva fare altro. A volte sembrava così strano, il fratellone, ma poi non importava più di tanto.

Higure prendeva il suo diario e lo leggeva con fervore, e non ci capiva poi molto, ma fantasticava in quella fine del mondo; sembrava di vedere il suo fratellone parteciparvi attivamente, e sognava che Suzuki l’avrebbe salvata da tutto quello.

Leggiucchiava nella sua camera, mangiando ogni tanto una patatina, e si concentrava sui caratteri tracciati sul quaderno, perché essi li aveva scritti il fratellone.

Il suo mondo ideale era proprio quello con Suzuki e il fratellone davanti al sole; ad aspettare che le lucciole fossero spuntante con la notte, illuminandoli ad intermittenza. Sarebbero stati giusti, e anche un po’ strani, come sempre.

 

Higure non aveva mia visto gli occhi di suo fratello da vicino. Era troppo in alto per lei. Così era preclusa dalla vista di due pozzi senza fine né bontà.

 

[Ma cosa cercava Suzuki? Higure non l’aveva mai capito; no, per lei era solo

un bambino di fronte al tramonto, o sul ponte che correva.

Che metà si poteva trovare, che vuoto colmare, in quella città?]

 

 

Higure l’aveva raggiunto per un solo istante, Suzuki, ed era stato tutto grazie a una casualità (o alla provvidenza divina, chissà) che li aveva fatti trovare proprio in quell’aula.

Le aveva tappato la bocca con un bacio.

E poi le aveva dato un pugno, ma non importava.

Il bacio, era il bacio ciò che contava; l’attimo perfetto per ogni ragazza, il suo primo. Era stato frettoloso, senza alcun pensiero che lo precedesse, ma solo un’azione repentina che non aveva previsto.

Higure si era appiccicata a Suzuki perché le piaceva, e l’unico modo per vederlo era stargli accanto; quindi lo ammirava anche se lui si lamentava in continuazione della sua presenza. Ma di certo non si era aspettata un bacio.

Da parte sua l’amore c’era; da Suzuki non aveva immaginato nient’altro che la compagnia, solo nei suoi sogni aveva sperato in tutto quello.

Comunque, era felice.

E non le importava più quella storia dell’eroe Suzuki che l’avrebbe salvata, come una principessa intrappolata su una torre. Lei voleva solamente un altro bacio.

Quando tornò a casa, aveva le guance arrossate e un sorriso sul viso, un sorriso pieno di energia e di felicità.
Passò dal ponte correndo, esattamente sul tunnel dei fantasmi di cui scriveva il fratellone, e non si accorse che proprio sopra la sua testa, qualche centimetro su verso sinistra, c’era una farfalla bianca. Di un bianco tanto innaturale da sembrare il negativo di un’ombra.

Ma lei non ci fece caso.

Era troppo felice per quel bacio; si preparava ad averne altri.

 

[Le due ali tarpate dal fratellone si dovevano ricongiungere,

riunire una volta per tutte; lei non lo sapeva,

lei non ci credeva, ma in fondo è vero: era un filo rosso del destino]

 

 

Tutto era nato da quella scatola di latta di Suzuki, lui ribadiva che era un dono di Dio e che poteva chiedere qualunque cosa, qualunque cosa.

Higure non gli aveva creduto. E poi l’aveva sentito quasi per caso parlare con una farfalla bianca; lei non avrebbe dovuto ascoltare.

E così, ne era certa, poi era nato tutto quello.

Le farfalle danzavano candide infinite su quel ponte, nei dintorni, e a volte imitavano le formi di uomini, poi tornavano spirali monocrome che scivolavano nel vento.

Higure si era seduta proprio sugli scalini, a guardare il prato e a pensare.

Erano passati dieci anni, in fondo, e doveva andare avanti, ma le riappariva così spesso il volto di Suzuki nella mente che non riusciva a ragionare bene.

Continuamente si calcava gli occhiali sul naso, giocherellava con i capelli neri e con i fili d’erba, pensando flebilmente.

Era tutto collegato, l’aveva scoperto, aveva riletto il diario del fratellone dopo tanto tempo, e aveva visto l’Apocalisse, e il suo Angelo, e quel fantasma che tormentava tutto, impregnando l’aria di pesante bianco. Farfalle volavano attorno a lei, e sembravano danzare soltanto per darle piacere, senza mai fermarsi.

Higure non comprendeva, era oltre le sue capacità e le sue conoscenze: possedeva solo tasselli di un enorme puzzle.

Sapeva che era stato quel filo rosso ad averla collegata con Suzuki, portandolo così dal fratellone, e dall’ala di farfalla. Sì, aveva fatto da intermediario e non aveva più avuto null’altro, dopo quel bacio, se non qualche conversazione.

Poi Suzuki era andato via.

Ora era tornato; la farfalla si era riunita in un unico ciondolo, in un unico nucleo. Ma chissà quando tutto quello sarebbe finito.

Se sarebbe terminato, poi.

Higure non lo sapeva, lei non poteva. Lei aveva osservato. E odiato senza odiare, e amato senza amare.

Le farfalle danzavano ancora attorno a lei, sembravano chiamarla, e asfissiarla in quel bianco accecante. Ripensò alla maestra, a Suzuki, al ciccione. Che fine avevano fatto davvero lei non lo sapeva, come sempre.

Alzò gli occhi al cielo, ma era troppo coperto da quelle ali candide. Una piccola lacrima le attraversò il viso, solitaria e perlacea. Poi sorrise, e quel sorriso era pieno di stanchezza e di morte. Chiuse gli occhi.

« Andiamo... » mormorò.

La figura di Higure rannicchiata sugli scalini si tramutò in farfalle, mille farfalle fulgide di bianco che volavano a spirale, e circondavano la città, e asfissiavano il mondo.

Ci sarebbe stato un bacio, fra quei piccoli insetti candidi: ci sarebbe stato un bacio; chissà dove.

   
 
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