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Autore: Clockwise    10/06/2015    4 recensioni
Chiacchierate dall'altro mondo, lettere, messaggi di ogni tipo. Comunicare, a volte, è difficile. Sopratutto quando si ha qualcosa di importante da dire.
Sherlock? Sherlock, stacca un attimo quel tuo mirabolante cervello ed ascoltami, solo per un istante.
[...]
È inutile cercare di lenire il dolore con false carezze, blande giustificazioni: renderanno la consapevolezza solo più grave. Per questo sono qui. Mettere a nudo tutti i miei peccati e le mie ombre, presentarti i miei mostri sotto il letto e sperare nella salvezza, nel tuo perdono, per l'ennesima volta.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het, Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Fra le righe'
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Bonne soir, intrepidi avventori.
Storia senza troppe pretese, più uno sfogo che altro. Non so quanti capitoli, punto di vista variabile (un personaggio diverso ad ogni capitolo). 
Avevo intenzione di scrivere della fatidica notte in cui (nel mio immaginario) Mary muore per mano di uno dei tirapiedi di Moriarty sfuggito a Sherlock, ma non ci sono riuscita. Ormai, non riesco a scrivere altro che introspezione, sembra. 
A voi,
-Clock

PS. Sì, mi diverto a fare banner insensati. No, non ho altro da fare. Cioè, in realtà sì, ma facciamo finta di no.

 

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La Tempesta

 
He who fights with monsters might take care lest he thereby become a monster. And when you gaze long into an abyss the abyss also gazes into you.
Friedrich Nietzsche
 
Caro John
Per l'amor del cielo, sembra l'inizio di un romanzo rosa.
John.
Peggio di un telegramma.
Amico mio,
Peggio di Mycroft.
Per la miseria.
 
(Lo scotch di Mycroft è quasi finito. Credevo di averne bevuto di meno.
Beethoven, ho bisogno di lui.)
 
Non sono bravo con le parole, John, lo saprai meglio di chiunque altro. E in questa circostanza suonano vane tutte le parole che io potrei mai rivolgerti. Dio, se penso a tutte le migliaia di inutili e vuote parole che hai ricevuto in questi ultimi giorni...
Potrei non scriverti, lasciare tempo al tempo come suggerisce Mrs Hudson e sperare che “tutto vada per il meglio”. Ma niente andrà per il meglio da sé, a meno che noi non diamo a questo “niente” una spinta nella giusta direzione.
Ma guarda. Ora mi diletto anche di filosofia. Niente è più al suo posto, John.
Amanda sta piangendo. Incubi, probabilmente. Torno subito.
 
(Altro scotch. La campana di vetro va abbattuta, e questo è il sistema più indolore – e squallido, lo riconosco.)
 
Come immaginavo. Non le piace Beethoven, a quanto pare. Non la biasimo. È angosciante, quando vuole. Ma anche passionale. Delicato, a tratti. Estatico, a volte.
Conosci la Sonata numero 17, in Re minore, Opera 31 numero 2, suppongo? Nota dal volgo come “la Tempesta”.
È la mia preferita. Mamma l'aveva suonata, una volta, a Natale. A casa dei suoi genitori, sul loro vecchio pianoforte a muro, un po' scordato. Avevo dieci? Undici anni? Redbeard era appena morto.
Mi sentivo esattamente come la Sonata. È una cosa assurda da dire (metafore, non riuscirò mai a comprenderle fino in fondo), ma è così. Inquieto, instabile, mutevole. Pronto a correre via, all'occorrenza.
Redbeard. Ti ho mai parlato di lui? Ne dubito. Non ti ho mai detto molto su di me. Ho sempre avuto paura. Come ora. Per questo sto bevendo.
È cominciata con Redbeard. Un setter irlandese. Il mio fidato ammiraglio. Il mio unico amico. (Mycroft era troppo grande per giocare con me.) Ero solo un bambino. Forse, diresti, anche piuttosto fragile. (Come sono strane queste parole. Fragile. Un bambino. Neanche fosse fatto di vetro. Eppure è così.)
È morto dopo quattro anni. Una malattia al fegato, non ricordo più. L'abbiamo seppellito in giardino. Io e papà. Gli altri, erano impegnati.
Avevo amato quel cane, infinitamente. Non avevo nessun altro, ed ero pur sempre un bambino. E che cosa ne ho ricavato? Tante lacrime.
Caring is not an advantage. Avrei voluto scolpirmelo sulla tomba: lapide di un uomo che non soffrì mai. Che idiota. Ho sofferto il doppio.
Amanda piange ancora.
Vorrei fare qualche commento sarcastico su di te che ti faccia sorridere controvoglia, ma non me ne vengono.
 
Eccola, è qui con me ora. Se trovi qualche macchia, sai a chi dare la colpa. Non vuole saperne di tornare a dormire. Sta guardando Doctor Who in televisione.
Dobbiamo davvero pensare ad un altra soluzione per la sua stanza. È indegno che io debba fare le scale tutte le volte che salgo da lei. E quando crescerà? Non potrai tenertela in camera per sempre. Potremmo ristrutturare il soggiorno, ricavare una camera da qualche parte... O il 221c? Restaurato, con trattamento anti-muffa. Mrs Hudson controllerebbe che non esca la sera oltre il coprifuoco e che rientri ad orari decenti. O potrei installare una telecamera. O un sensore alla porta. (O potrebbe avere la tua camera, la mia è spaziosa.)
Sempre che voi rimaniate, beninteso. Buffo, l'ho già dato per scontato. Come se ormai tu, e anche Amanda, foste diventati parte dell'appartamento, una clausola nell'affitto – si accludono John e Amanda Watson, prendere o lasciare. (Prendere, sempre prendere, non lasciare mai.)
Ed è ancora più buffo se pensi che, ormai, quest'appartamento sono io. È l'unico posto in cui sto davvero bene, non provo il costante impulso di uscire, scappare via – è stato così per tutta la vita, ho sempre cercato vie di fuga. Dagli altri, dalla mia mente, da me stesso.
Il mio Mind Palace, la sua stanza più nascosta, quella dei ricordi più belli, è uguale a questo soggiorno. Che parla di te, in ogni angolo.
 
Per la miseria.
 
(Devo alzarmi, sgranchirmi le gambe, aspettare che la sensazione – inappropriata, del tutto inappropriata – di calore mi liberi il corpo. Stupido corpo, impietosa chimica.)
 
Dicevo. Redbeard. Non ho imparato subito la lezione. Mi ci è voluto anche Victor, e neanche lui è bastato.
Era rimasto invischiato in un affare di droga e voti regalati. La sua famiglia era influente, lui aveva un profilo piuttosto alto, anche a scuola, all'università. Ci conoscevamo dalle medie, era l'unico che non mi ignorasse o insultasse.
Mi aveva baciato, un giorno. Due giorni dopo, l'hanno ucciso. Non ero stato in grado di prevederli, e l'avrei potuto fare benissimo, ho risolto casi molto più complicati. Ma indovina un po'? Ero stato troppo impegnato ad interrogarmi sui miei sentimenti per Victor, ed i suoi per me. Avevo ventun anni, era la prima volta che mi trovavo in una situazione simile. Ero spaventato. È questo che i sentimenti mi fanno: paura. Non li capisco, non li controllo. Mi fanno tremare. Ma io sono Sherlock Holmes, consulting detective, unico al mondo, non posso tremare.
Ho giurato sulla tomba di quel ragazzo che l'avrei vendicato, che sarei diventato un uomo migliore – un detective migliore, che non si lascia distrarre, preciso e implacabile.
Ho infranto quel giuramento il maledetto meraviglioso giorno in cui ti ho incontrato, John.
 
(Amanda profuma di buono. Ha fatto il bagno appena due ore fa. John non è ancora tornato. È in ritardo. Ora della cena, devo alzarmi. E versarmi un altro bicchiere.)
 
 
Tua figlia ha decisamente preso da te il suo appetito. Speriamo non anche la tua facilità ad allentare la cintura – anche se ultimamente è tutto il contrario: le cinte si stringono e le guance si incavano.
(E dovresti davvero raderti. Sembri un senzatetto con tutta quella barba.)
Dicevo? (Ci sto davvero prendendo gusto.)
Di quando sono diventato una macchina senza emozioni, votata al solo lavoro, giusto.
Non avrei mai dovuto darti corda, quel giorno (29 gennaio, 2010). Affascinarti, incuriosirti – l'ho fatto apposta. Volevo che tu venissi con me, che diventassi il mio coinquilino. E, magari, mio amico.
Vedi, è proprio questo il problema: mi ero votato al lavoro, solo e soltanto a quello, ma allo stesso tempo desideravo qualcuno, un essere umano con cui passare il giorno – la vita. Che idiozia. Non riuscivo a convivere con la solitudine. Eppure non ero – non sono – fatto per i rapporti umani, non li capisco, mi confondono. Sono stato solo così a lungo – nonostante sembrassi circondato da persone, nessuno, dopo Redbeard, mi era mai stato veramente vicino, ero solo dentro, fino a te. Sempre tu, John Watson.
Eppure, ancora una volta, mi sono lasciato distrarre, non mi sono concentrato su questi famigerati sentimenti, e mi sono gettato da quel tetto e ti ho causato del male per cui non potrò mai scusarmi abbastanza. Se solo mi fossi sforzato di capirti.
E anche stavolta, è stata colpa mia. Avrei dovuto prestare più attenzione al caso più delicato della mia vita, forse avrei potuto evitare la tragedia, invece di autocommiserarmi nel mio appartamento vuoto – fissando la tua poltrona.
È inutile cercare di lenire il dolore con false carezze, blande giustificazioni: renderanno la consapevolezza solo più grave. Per questo sono qui. Mettere a nudo tutti i miei peccati e le mie ombre, presentarti i miei mostri sotto il letto e sperare nella salvezza, nel tuo perdono, per l'ennesima volta.
Sono un uomo debole. Fragile.
I miei incubi sono gli occhi rossi di Moriarty, le mani viscide di Magnussen, una pistola sulla tua tempia, Amanda fredda e immobile come una bambola, gli occhi chiari di Mary quando è morta guardandoti, Redbeard ammalato, Victor che mi volta le spalle, il tuo dito accusatore, il tuo odio, la paura strisciante che ti si arrampica per la spina dorsale, ti fa tremare di freddo e seccare la bocca, ti svuota la mente, le notti lontano da Londra.
(Non ti ho mai parlato di quei due anni, nessuno di noi due l'ha fatto. Forse è troppo doloroso per entrambi.
Ho dovuto uccidere, per la prima volta in vita mia, guardandoli negli occhi, appesantito dalle notti insonni, dai digiuni, dalla tensione, dalla paura, dalla nostalgia, dalla vendetta, dal rancore, dall'odio, dalla solitudine, dalla nostalgia.
Basta, il passato nel passato.)
I miei sogni più dolci sono banali: qui, nel soggiorno. Ci sei tu. A volte c'è Amanda, Redbeard. Addirittura Mary, Molly, Lestrade, Mrs Hudson, mio padre. Odore di tè, pagine polverose e formaldeide. Non facciamo niente. C'è pace. E mi rendo conto che ne ho bisogno, è come respirare dopo una lunga apnea, a volte bisogna smettere di correre. La mia mente è calma – tu non hai idea del frastuono continuo, incessante, faticoso. C'è musica. (Divenire, Ludovico Einaudi. L'ascoltava mio padre, tanto tempo fa, di notte, quando si sentiva solo.)
Sono un uomo molto incline alla dipendenza, dalle cose più svariate – dalla droga, dall'adrenalina, da te, John.
Sono un uomo che si è illuso di aver costruito una fortezza impenetrabile della sua vita, e si è visto crollare il castello di carte al soffio della brezza dell'Est.
Sono un uomo solo, che ha paura della solitudine.
Sono un uomo spaventato, che ha nascosto talmente tanti scheletri nell'armadio da esserne più spaventato di prima.
Perché è questo che succede a far finta di niente, a indossare i paraocchi tutto il tempo: quando cadono, la luce acceca.
Non mi sono lasciato andare a te, la prima volta, e ti ho perso – sono morto, tu ti sei sposato.
Ho cercato di negarmi, di soffocare quel che sentivo – e per una volta lo vedevo con chiarezza – per te, ho sacrificato la mia libertà senza pensarci due volte; ho perso di vista il bersaglio e Mary è morta.
Ti ho causato tanto di quel male. Sei ancora qui, però. Forse non per molto.
Ti capirei se te ne andassi, se non volessi avere più niente a che fare con me. Ma sono l'uomo più egoista su questa maledetta terra. Perché ti chiedo, di nuovo, di assolvermi e di non abbandonarmi. Per favore, John. Sei migliore di me. Sei forte, e buono. E capace di tanto amore, tanto perdono. Sei la persona migliore che io abbia mai incontrato, e mai, mai avrei pensato di potermi trovare in una situazione come questa, col cuore che mi scoppia in petto e non capisco neanche perché, stordito, con le gambe molli e così spaventato.
L'amore che io posso darti è pallido e malato, come un albero cresciuto all'ombra. Se lo accetti, è tuo, in qualunque forma tu lo preferisca.
Non sono più nulla. Solo una voragine che mi scava le viscere.
Aiutami, John Watson. Di nuovo e per sempre.
 
(Passi lenti per le scale. Non ho sentito la porta aprirsi, ero troppo concentrato. Niente campanello: John.
Presto: lettera nel fuoco, bicchiere in cucina. Farò finta di dormire, Amanda con me, così John non farà domande.
È stata una pessima idea.)
 
John si sarebbe accorto di una voluminosa palla di carta appallottolata in un angolo del camino solo il mattino dopo. L'avrebbe raccolta, spiegata, tentato di leggerla oltre la cenere, le bruciature, le parole mancanti e la grafia aguzza e nervosa. Avrebbe tremato, dentro.
Sherlock non seppe mai quanto e cosa John avesse letto. Nessuno di loro parlò mai di quelle parole angosciose.
John rimase a Baker Street, e Sherlock capì.
  
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