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Autore: EtErNaL_DrEaMEr    12/06/2015    0 recensioni
Ho mani per coltivare la terra, ho mani per accarezzare l'erba.
Ora ho mani per sparare e dita sporche di sangue. Il mio, quello del nemico, quello dei caduti.
La prima cosa è il mio nome, ma ormai a volte dimentico anche quello. Lo dimentico insieme alla vita.
Genere: Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La prima cosa

La prima cosa è il mio nome



La prima cosa è il mio nome, la seconda quegli occhi,
la terza un pensiero, la quarta la notte che viene,
la quinta quei corpi straziati, la sesta è fame,
la settima orrore, l'ottava i fantasmi della follia,
la nona è carne e la decima è un uomo
che mi guarda e non mi uccide.


Oceano Mare, Alessandro Baricco



Era rassicurante, in un certo senso.
Era rassicurante sapere che il cielo sarebbe sempre stato azzurro. Prima di lui e dopo di lui. E anche ora, se alzava gli occhi e guardava in su, vedeva ancora quella rassicurante distesa azzurra, così infinita, così bella da far male. Quand'era bambino sua madre ogni tanto lo prendeva in giro, diceva che stava sempre con il naso all'insù, finirai per sbattere contro un carretto, rideva, guardi il cielo e mai dove cammini. Anche lui rideva, una risata divertita e cristallina, poi tornava a scrutare quel lenzuolo limpido.
Non sapeva spiegare perché, ma guardare il cielo lo faceva sentire libero, gli faceva capire che c'era un mondo, un mondo enorme, pieno di possibilità, di sogni, di vita. Perché è questo che fanno i ragazzini, sognano. Lui sognava di vivere sempre così, in campagna, a lavorare la terra, a sentire il sole d'estate che brucia e scotta la pelle e poi la fa diventare d'oro. Sognava di farsi sempre scompigliare i capelli castani dal vento, dallo scirocco che soffiava forte e portava con sé sabbia e Africa. Sognava di stendersi su prati verdi, dopo una giornata di lavoro, con un filo d'erba tra le labbra e il cielo sopra di lui.
Sempre il cielo.
Anche adesso il cielo era limpido.
E sapeva sempre di libertà, ma ora non era più sua, quella libertà. Era una libertà a cui si aggrappava nei momenti più bui, ma si faceva sempre più lontana. Era una libertà per cui gli avevano detto che era giusto combattere, ma lui non era sicuro di aver capito.
Non capiva perché fosse necessario tutto ciò. Non capiva quale fosse il punto nel far partire dei ragazzini neanche ventenni a combattere una guerra per difendere una patria che lui neanche conosceva bene. Lui conosceva la campagna, conosceva qualche città di montagna e conosceva la casa degli zii a Trieste.
Trieste.
C'era stato, due anni prima, d'estate. Gli era piaciuta tanto, con quella grande piazza che si apriva sul mare, un abbraccio da lasciarti senza fiato, con i monti alle spalle ricoperti di verde, con quel porto sempre pieno di gente, sempre vivo. Avrebbe voluto tornarci.
Ormai, però, non credeva sarebbe stato possibile. Non credeva sarebbe uscito vivo da lì, da quelle montagne che erano il Paradiso divenuto Inferno, che erano spari e sangue, che erano grigio e pietra. Come poteva essere cambiato tutto così velocemente?
Come poteva essere passato dai campi, dai prati verdi, alla roccia che salta in aria e ti piomba in testa, al filo spinato che si infila sotto la carne, alle urla che squarciano la notte e il petto? All'inizio se lo chiedeva e cercava una risposta, ora se lo chiedeva e basta. Non poteva esserci risposta, non poteva.
Non credeva sarebbe uscito vivo da lì.
Anzi, credeva di essere già morto mesi fa, senza nemmeno accorgersene, perché quella non era vita. Stava vivendo la morte. Non erano più uomini, non erano più ragazzi. Li avevano presi dalle loro case e portati lì, un fucile in mano e la certezza di combattere per la patria.
Uccidi il nemico, dicevano, uccidilo se non vuoi morire prima tu. Eppure tante volte si era chiesto cosa ne sapessero quelli dall'altra parte. Quel ragazzino della sua età che dall'altra parte del fronte si aggrappava al fucile con le labbra quasi blu per il freddo e gli occhi scavati, un'immagine allo specchio... Sapeva anche lui di dover uccidere il nemico, ma gliel'avevano detto che a uccidere si moriva un po' ogni volta?
Un giorno, forse era Natale, voleva quasi uscire dalla trincea, oltrepassare il fronte, brindare con un goccio d'acqua col nemico. Era Natale anche per loro, dopotutto. Solo le immagini dei corpi dei suoi compagni maciullati dai colpi di fucili stranieri l'avevano fermato, però ci aveva pensato davvero.
Erano tutti uomini, alla fine.
Lo erano stati.
Si guardava le mani, ogni tanto tremavano a furia di gettar bombe, sparare e sentire la terra saltare per aria.
Si guardava le mani graffiate, incrostate di sangue e di fango.
Si guardava le mani, le stesse che accarezzavano il grano e un po' gli veniva da piangere.
Aveva vent'anni e voleva solo guardare il cielo azzurro.
Voleva ricordare la voce di sua madre che lo riprendeva amorevolmente.
Voleva sentire la voce di suo padre insegnargli come ci si prende cura della terra.
Voleva guardare sua sorella con il vestitino da festa correre verso la chiesa.
Voleva sapere se suo fratello era vivo, se anche lui ci pensava ogni tanto, a quando si sdraiavano tra i papaveri e ridevano.
Voleva sentire il profumo della ragazza più bella del mondo che gli accarezzava sempre i capelli.
Voleva.
Era un desiderio così maledettamente umano e impellente che gli toglieva il fiato e le sue mani tremavano di nuovo. Faceva freddo e si sentiva bambino. Era circondato da uomini non più uomini, ma erano tutti soli e tutti combattevano una guerra che non capivano e che aveva rubato loro la vita. Li aveva svuotati, resi fantasmi, e quando incrociava un altro paio d'occhi non ci leggeva più niente dentro, lui che era sempre stato bravo a leggere le persone. Ormai vedeva solo strazio, fame, follia, orrore.
A volte quasi non si ricordava il suo nome.
Il proprio nome.
È la prima cosa, il nome.

Se c'era una cosa di cui era sempre stato sicuro, sin dall'inizio di tutto, era che le sue mani erano fatte per lavorare la terra. Erano come le mani di suo padre e di suo nonno, forti, grandi e abbronzate. Mani che toccavano ogni giorno la terra, mani che seminavano, mani che raccoglievano e solo ora, mani che uccidevano.

Alzò gli occhi al cielo azzurro e limpido.

Era rassicurante, in un certo senso.


Era rassicurante sapere che il cielo sarebbe sempre stato azzurro.


Prima di lui


e




dopo di lui.





Il mio amore ha mani per accarezzare la terra,
il mio amore ha un sorriso ampio per abbracciarmi,
il mio amore ha spalle larghe per sostenere i suoi grandi sogni,
il mio amore ha il profumo della vita che continua,
il mio amore ha occhi azzurri come il cielo limpido d'estate.

Il mio amore dorme sepolto in un campo di grano.



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Credo siano anni che non pubblico più qui, neanche avevo più NVU, per farvi capire. Ultimamente però muoio dalla voglia di scrivere, anche se mi sembra di non saperlo più fare, o forse non l'ho mai saputo fare.
Questa one shot volevo fosse migliore e non escludo di rimetterci mano, ma per il momento va bene così, perché avevo bisogno di scriverla, perché è un tema a cui tengo molto, perché tendo a immedesimarmi in molte cose, anche nelle vite degli altri, e mi sono informata un po' sui ragazzi e sugli uomini che hanno vissuto questa guerra, abbastanza perché mi si spezzasse non poco il cuore. 
Dico che volevo fosse migliore perché so che c'è altro da scrivere, ma spero comunque che non vi sia dispiaciuta. Ah, ho citato De André alla fine e Baricco all'inizio. Baricco in quel passaggio non parla della Grande Guerra, ma appena l'ho letto ho subito pensato che fosse adatto anche a questo tema.

Grazie per aver speso qualche minutino a leggere questa storiella e a presto, spero!:)

  
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