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Autore: Claire Penny    13/06/2015    4 recensioni
Il fatto che circa il 90% delle Echelon darebbe un braccio, una gamba, o anche tutti e quattro gli arti pur di avere il lavoro di Emma, ragazza ormai nota nella comunità marziana per essere l'assistente di Jared e per i suoi sorrisi smaglianti, è cosa nota e universalmente riconosciuta.
Ma vi siete mai chiesti cosa comporti davvero il suo lavoro?
Dal testo:
"Non mi era rimasto granché.
A voler essere precisi non mi era rimasto niente, se non qualche certezza data dalle circostanze. [...]
Primo, non avrei mai dovuto lasciare il mio ingrato ma tranquillo lavoro di barista, quattro mesi prima.
Secondo, avrei dovuto dare retta ad Emma quando, prima di relegare temporaneamente alla sottoscritta tutte le sue responsabilità, mi aveva guardata fissa negli occhi e mi aveva vivamente consigliato (leggi: ordinato) di non impicciarmi troppo nelle faccende private del mio datore di lavoro.
Terzo, se ne fossi uscita viva - ed era un grande "se" - mi sarei licenziata seduta stante.
Quarto, se non avessi trovato alla svelta un'arma con cui difendermi o una via di fuga, Jared Leto mi avrebbe uccisa.
Genere: Angst, Dark, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Jared Leto, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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*N.d.A. Non me ne vogliano le lettrici di fanfiction amanti del genere "rockstar che si innamora della ragazza qualunque" se per questa one-shot ho deciso di far fare al caro vecchio Jared la parte del cattivo. Avevo solo voglia di evadere un po' dalla routine. ;)*



"Attento a ciò che desideri, potrebbe avverarsi"
Oscar Wilde

 

Non mi era rimasto granchè.
A voler essere precisi non mi era rimasto niente, se non qualche certezza data dalle circostanze.
Quattro in particolare continuavano ad alternarsi nella mia mente come in un ciclo infinito. Gli unici quattro punti chiari in quel momento di assoluta confusione:
Primo, non avrei mai dovuto lasciare il mio ingrato ma tranquillo lavoro di barista, quattro mesi prima.
Secondo, avrei dovuto dare retta ad Emma quando, prima di relegare temporaneamente alla sottoscritta tutte le sue responsabilità, mi aveva guardata fissa negli occhi e mi aveva vivamente consigliato (leggi: ordinato) di non impicciarmi troppo nelle faccende private del mio datore di lavoro.
Terzo, se ne fossi uscita viva - ed era un grande "se" - mi sarei licenziata seduta stante.
Quarto, se non avessi trovato alla svelta un'arma con cui difendermi o una via di fuga, Jared Leto mi avrebbe uccisa.

* * *

Per quanto inappropriato fosse, quello che più prevaleva tra tutti i pensieri che la mia mente terrorizzata continuava a formulare senza alcuna logica o controllo, mi diceva che mettendo a confronto il perverso e potenzialmente letale nascondino a cui ero costretta a giocare, con il pensiero di dover dare a Jared un'altra notizia che avrebbe scombinato l'ordine ossessivo-compulsivo con cui pretendeva che fossero organizzate le sue giornate ed i suoi impegni lavorativi, la prima opzione non appariva più così terribile, dopotutto.
Questo perchè, nonostante Jared Leto detestasse quel soprannome come poche altre cose al mondo (tra le quali spiccava la sottoscritta), lui era e sarebbe sempre rimasto una, anzi, LA Divah.
Mio malgrado però, fui costretta anche ad ammettere che se ero riuscita a sfuggirgli fino a quel momento, il merito era paradossalmente della sua irritante indole viziata e volubile, nonchè di tutte le corse che, a causa delle sue improvvise voglie/ansie/idee/paranoie, mi aveva costretta a fare per procurargli le cose più impensabili negli orari più assurdi, permettendomi in questo modo di sviluppare una buona resistenza fisica e anche di perdere parecchi chili.
Eppure, se solo avessi avuto l'opportunità di tornare indietro, a quel dannato giorno di metà giugno in cui avevo ricevuto la proposta di lavoro che avevo erroneamente scambiato per il coronamento di un sogno considerato troppo grande e irrealizzabile per entrare in un cassetto (e anche in un armadio, a dirla tutta), mi sarei ripresa volentieri tutti i chili che avevo perso a causa dello stress e alla mancanza di tempo sufficiente a terminare un pasto che includesse qualcosa di più tranquillo o elaborato di un tramezzino mangiato per strada mentre tentavo di masticare e, allo stesso tempo, di rispondere alle assurde richieste  - o ai rimproveri - impartitemi da Jared attraverso il bluetooth perennemente agganciato al mio orecchio.
Persino in quel momento, quando l'unica mia preoccupazione sarebbe dovuta essere quella di riuscire ad uscire viva e possibilmente integra da quella casa degli orrori mascherata da lussuosa villa simile a tante altre in quel quartiere bene di Los Angeles, mi sentivo nuda e inquieta senza l'auricolare appeso al mio orecchio destro. Era rimasto nello studio, dove mi era caduto durante la collutazione di poco prima con Jared. Collutazione iniziata dopo che quest'ultimo mi aveva sorpresa a frugare tra le sue cose, alla ricerca dell'ultimo tassello del puzzle, quello che avrebbe finalmente confermato tutte le teorie che avevano preso forma poco alla volta nella mia mente.
Tassello di cui non avevo più avuto bisogno, dopo che lo stesso Jared aveva ammesso quanto sospettavo da ormai qualche settimana, un attimo prima di aggredirmi.
Tassello di cui avrei volentieri fatto a meno, se solo avessi saputo in cosa stavo andando a cacciarmi quando avevo deciso di indagare sulle bizzarre manie del mio capo.
Intendiamoci, non sono una ficcanaso e non avevo il minimo interesse a scoprire quanti e quali scheletri nell'armadio custodisse Jared Leto per poi vendere tali informazioni a qualche tabloid tipo People o Tmz. La sola ragione per cui avevo deciso di fare qualche ricerca per conto mio era che desideravo semplicemente imparare qualcosa di più sulle abitudini di colui alla quale avrei dovuto fare da assistente fino a quando Emma non fosse tornata al lavoro.
Volevo solo riscattarmi agli occhi di Jared, dal momento che la prima impressione che aveva avuto su di me non lo aveva esattamente soddisfatto e che nemmeno la seconda, la terza e la ventisettesima sembrava avessero contribuito a migliorare molto la situazione, nonostante avessi cercato di accontentarlo in tutto e per tutto, arrivando persino a cercare di anticipare le sue decisioni in modo da non farmi trovare impreparata di fronte alle innumerevoli richieste impossibili che ne sarebbero conseguite.
Eppure, durante il miei colloqui preparatori con Emma, quest'ultima era stata molto chiara su ciò che avrei/non avrei dovuto fare con Jared, sul comportamento più appropriato da tenere in sua presenza e su tutta una serie di regole che avrei dovuto osservare alla lettera se volevo che la collaborazione tra me e Jared (quello che poi si era rivelato un rapporto schiava-padrone senza sottointesi sadomaso) funzionasse. Mi aveva addirittura fatto prendere appunti che mi aveva poi costretto ad imparare a memoria, per assicurarsi che assimilassi i punti fondamentali ed essenziali del rapporto lavorativo che mi accingevo a cominciare.
Lì per lì, avevo creduto che la mania ossessiva di Emma per le regole facesse semplicemente parte del carattere per cui il suo assistito tanto la stimava: serio, professionale, intraprendente, infinitamente paziente, sempre pronto ad assecondare anche il più folle capriccio di Jared  e ad affrontare qualunque imprevisto.
Qualunque imprevisto, ad eccezione di quello rappresentato da un diciottenne al volante di un fuoristrada che non si era fermato ad un semaforo rosso e che aveva di conseguenza finito per investire la povera Emma, la cui sola colpa era stata quella di attraversare la strada al momento sbagliato.
In quel momento invece, mi stavo rendendo conto che tutte le regole che l'infortunata Emma mi aveva imposto, in particolar modo il divieto assoluto di farmi gli affari di Jared più di quanto richiedesse il mio ruolo e di prendere iniziative di testa mia, più che ad ottimizzare il rapporto tra me e Jared, miravano a proteggere e a proteggermi dal segreto che invece io, seppur con le migliori intenzioni, avevo accidentalmente portato alla luce.
Ma quanto ero furba.
D'un tratto, uno strano fruscio irruppe nella stanza nella quale mi ero temporaneamente rifugiata mentre cercavo di riprendere fiato, strappandomi dai miei pensieri. M'immobilizzai e misi immediatamente di respirare, salvo poi accorgermi che il colpevole del fruscio altri non era che il vento, che quella sera soffiava impetuoso, facendo muovere le foglie dell'albero antistante la finestra.
Espirai, godendomi un sollievo che durò poco.
In quel momento il mio smartphone, o meglio, quello che ne rimaneva dopo che Jared me l'aveva strappato di mano e spaccato in due perfette metà, si trovava nello studio assieme al bluetooth.
Prima che Jared mi cogliesse a frugare nei cassetti, nelle ante e tra i libri del suo studio, avevo cercato di chiamare Emma all'incirca una dozzina di volte, se non di più. Purtroppo però il cellulare di quest'ultima aveva squillato a vuoto ad ogni singolo tentativo. La mia solita fortuna.
Ricapitolando, avevo un potenziale assassino alle costole, mi trovavo in una casa immensa della quale conoscevo sì e no tre stanze (soggiorno, studio e bagno del piano terra, le uniche a cui avevo mai avuto accesso), mi sentivo sull'orlo di un attacco di panico, ero disarmata e non avevo la minima idea di come sarei potuta uscire viva da quella surreale situazione.
Il mio unico piano fino a quel momento era consistito nel nascondermi e cercare di sopravvivere.
Non un granchè come piano, devo ammetterlo.
Dopo essere riuscita a fare il punto della situazione però, capii che non sarei potuta rimanere in eterno a nascondermi dietro a quella porta, se ci tenevo alla pellaccia. Prima o poi Jared mi avrebbe sicuramente trovato e, considerato quanto avevo appena scoperto, dubitavo che una semplice porta di legno chiusa a chiave sarebbe riuscita a tenerlo fuori abbastanza a lungo perchè qualcuno si accorgesse della mia scomparsa.
Come prima cosa avrei dovuto cercare di procurarmi un'arma, o comunque qualcosa che avrei potuto utilizzare come tale.
A quel pensiero, la prima cosa che mi venne in mente fu il set di coltelli che campeggiava sul bancone della cucina. Una buona idea, certo, se solo i suddetti coltelli non si fossero trovati al piano di sotto e io avessi saputo con precisione dove mi trovavo.
Dal momento in cui ero miracolosamente riuscita a liberarmi dalla  presa di Jared, il mio unico pensiero era stato quello di allontanarmi il più possibile da lui e, tra lo shock e lo spavento per quanto mi stava capitando, non avevo fatto molto caso a dove mi stesse conducendo il mio istinto di sopravvivenza.
Mi guardai intorno: nella penomba della stanza, scorsi un letto a due piazze, un televisore al plasma appeso sul muro opposto, un armadio e un comodino. Conoscendo il padrone di casa, era improbabile che una stanza ordinata e spoglia come quella potesse essere la sua camera da letto ufficiale, quindi ipotizzai di trovarmi in una delle stanze per gli ospiti.
Mi tornarono in mente tutte le notti passate a lavorare in quella casa, con Jared che, ad un certo punto della serata, mi augurava un'ironica buonanotte e mi lasciava sola ad organizzare il suo lavoro.
Avevo perso il conto delle mattine in cui ero stata svegliata dal mio amatissimo capo che, fresco come una rosa dopo un sonno ristoratore, pretendeva da me risposte e riflessi pronti alle sette di mattina, dopo sì e no tre ore di scomodo e leggero sonno sulla scrivania dello studio o, quando mi andava bene, sul divano. Pensare che al piano di sopra ci fossero almeno tre stanze come quella in cui mi trovavo, mi fece mettere da parte un po' della mia paura a favore della rabbia.
Mostro o no, una bella mazzata gliel'avrei data comunque volentieri.
Il fruscio delle foglie scosse da una folata di vento un po' più forte mi fece sobbalzare nuovamente.
Un piccolo ma terribile pensiero s'insinuò però nella mia testa, proprio stavo per tirare il secondo sospiro di sollievo temporaneo: come mai Jared non aveva ancora cercato di sfondare la porta? Ero chiusa lì dentro da almeno dieci minuti e da quando avevo girato la chiave nella toppa non avevo più udito alcun rumore.
Dubitavo fortemente che non avesse ancora capito dove mi trovassi.
Solo allora compresi che il silenzio in cui ero avvolta, spezzato solo di tanto in tanto dal rumore del vento, altri non era che la famosa quiete prima della tempesta e che la porta di fronte alla quale mi trovavo era probabilmente l'unica cosa a dividermi dal mio potenziale assassino.

* * *

Era folle, ma dovevo almeno tentare.
Curioso come questo pensiero fosse lo stesso di quattro mesi prima, quello che la mia mente aveva formulato al culmine della crisi esistenziale scaturita nella mia coscienza a causa della proposta di Emma.
Una proposta arrivata - ovviamente - in quel momento della vita in cui sembra che le cose stiano finalmente procedendo nella direzione giusta. Quel momento in cui si tende a cadere nell'illusione di essere al timone della propria storia, di averne il pieno controllo e che niente possa andare storto.
Chiariamoci, non che fare la barista sottopagata al pub O'Flannery fosse il coronamento dei miei sogni più sfrenati, però vivere a New York in parte lo era e quel lavoro, per quanto potesse sembrare ingrato sotto diversi punti di vista e con orari e turni che non lasciavano molto spazio alla possibilità di costruirmi una vita sociale nella mia nuova città, mi stava comunque aiutando a finanziare la mia vera ambizione. Stavo riuscendo a mantenermi da sola mentre cercavo lavoro come wedding planner.
Stavo aprendo una delle finestre della camera in cui mi ero involontariamente imprigionata quando mi tornò in mente la vista della città dalla finestra della mia camera, nel piccolo appartamento di Brooklyn che avevo condiviso per quasi otto mesi con Tess, una stravagante ragazza della mia età, aspirante stilista, nonché unica amica che ero riuscita a farmi dal mio arrivo nella Grande Mela.
Adoravo Tess, la sua personalità mi ricordava un fuoco d'artificio. Nonostante la sua aspirazione fosse molto più ambiziosa della mia e comportasse di conseguenza molte più delusioni e porte in faccia di quante io sarei mai riuscita a sopportare, lei non si rassegnava, nè si abbatteva, anzi, sembrava che ogni insuccesso la rendesse più determinata a raggiungere i suoi obbiettivi.
Aveva la (pessima) abitudine di svegliarsi sempre presto, anche dopo aver fatto le ore piccole in qualche locale assieme a me la sera prima (quelle rare volte in cui il vecchio Seamus O'Flannery mi concedeva una serata libera nel week-end) e uno dei suoi scherzi preferiti consisteva nello svegliarmi con l'ausilio di uno dei suoi cd di symphonic metal a tutto volume mentre saltava sul mio letto cantando a squarciagola.
Considerata la mia posizione, sarebbe futile precisare che avrei sopportato di buon grado qualunque brano dei Nightwish pur di potermi addormentare nel letto di quella maledetta stanza e svegliarmi l'indomani nell'appartamento di Brooklyn, con il sorriso di Tess e la sua voce tutt'altro che soave intenta a storpiare il testo di una delle canzoni dei suoi idoli.
Le avrei raccontato dello stranissimo sogno che avevo fatto durante la notte e lei probabilmente ci avrebbe riso su, dicendomi qualcosa sul fatto che i cosmopolitan della City non erano fatti per le brave ragazze di campagna mezze astemie come lo ero io.

Il vento impetuoso mi scompigliò i capelli non appena mi affacciai alla finestra per controllare a quale altezza mi trovassi e quali fossero le mie possibilità di sopravvivenza se avessi deciso di saltare con le lenzuola che avevo annodato poco prima.
Molto stile "evasione dalla galera nei vecchi film", devo ammetterlo, ma d'altronde qual era l'alternativa?
Nonostante Jared si ostinasse a non farmi percepire la sua presenza in alcun modo, ero ormai quasi completamente certa che stesse solo dando fondo a tutta la pazienza che possedeva e che, fino a quel momento, non aveva mai dimostrato nei miei confronti, in attesa di un mio passo falso.
Sfidando le mie vertigini, guardai giù. Era decisamente un bel salto e, conoscendomi, c'era una probabilità di oltre il novanta percento che nel mio patetico tentativo di fuga avrei finito per farmi male in qualche modo.
L'alternativa però non era molto più allettante.
Cercando di fare il meno rumore possibile, legai la mia fune improvvisata ad una delle gambe del letto, pregando affinchè reggesse il mio peso fino a quando non avessi toccato terra, dopodichè la gettai fuori dalla finestra.
Solo in quel momento mi accorsi che la cima fatta con le lenzuola non era abbastanza lunga da coprire tutta la distanza che mi separava dal lastricato in pietra che circondava tutto il perimetro della villa. Mi aspettava anche un bel salto come gran finale del mio folle piano improvvisato.
Scavalcai il davanzale, ritrovandomi seduta con le gambe che penzolavano sul vuoto.
A quella vista, le mie vertigini si fececero sentire nel loro solito modo, ossia con capogiri e stomaco in rivolta.
Non guardare giù. Non guardare giù, mi dissi.
Un mantra utile quanto il repellente per insetti dopo che una zanzara ti ha già punto: la distanza che mi separava dal suolo era ora ben impressa nella mia mente e la mia fobia delle altezze si stava scatenando nel farmela immaginare molto più profonda di quanto in realtà non fosse.
A tutto questo andava poi aggiunto il pensiero che dopo aver affrontato la discesa sulla fune di lenzuola, mi aspettava anche un salto di almeno due metri e mezzo prima di poter finalmente toccare terra.
Respirai profondamente, mi aggrappai saldamente al lenzuolo e, con una spinta, mi lasciai scivolare giù.
Il peso del mio corpo si rivelò tuttavia più difficile da sopportare rispetto a quanto previsto e mi trascinò giù rapidamente, fin quando riuscii ad ordinare alle mie mani di stringere la cima con quanta più forza avevano, riuscendo così a rallentare la mia caduta e ad evitare il mio imminente sfracellamento.
Il mio cuore batteva all'impazzata. Ero riuscita a fermarmi e, a voler guardare la parte mezza piena del bicchiere, ero già ad oltre metà percorso.
A voler guardare la parte mezza vuota invece, era necessario considerare che mi trovavo appesa come un salame ad almeno tre metri dal suolo, che la forza nelle braccia stava già cominciando ad abbandonarmi, dal momento che stava sostenendo da sola tutto il peso del mio corpo, mentre con le gambe cercavo di aggrapparmi al mezzo metro di lenzuolo di cui ancora disponevo, ma senza molto successo.
D'un tratto, mi accorsi che le mie dita stavano inesorabilmente allentando la presa.
Avevo i muscoli delle braccia in preda ai dolori e ai crampi.
Sentii lenzuolo scivolarmi nuovamente dalle mani e, questa volta, non riuscii a fare altro che lasciare la presa.

* * *

Nonostante mi fossi trasferita a New York solo da pochi mesi, potevo considerarmi già perfettamente inserita nella frenetica routine della metropoli più famosa del mondo.
In realtà era stato facile abituarsi a quella città, la stessa in cui avevo sognato di vivere per tanti anni, praticamente da quando ero una liceale sfigata dell'Ohio con l'apparecchio ai denti e i capelli inguardabili che passava le sue giornate a leggere, ascoltare i cd di Green Day, 30 Seconds to Mars, Linkin Park e immaginare torture  da destinare alla mia amata ex-aguzzina personale Savannah Thompson.
Una cosa che apprezzavo particolarmente di New York era il fatto che non importava chi fossi stato prima di arrivare lì: una chance per realizzare il proprio "american dream" prima o poi veniva concessa a tutti, bastava saper aspettare. Molto probabilmente è per questo che le persone si sono sempre sentite attratte da questa bellissima città.
Per quanto mi riguardava, sentivo che era solo questione di tempo prima che si presentasse anche la mia. In attesa di quel momento, ero concentrata sul mio lavoro al pub irlandese O'Flannery, a Manhattan, in attesa che una delle decine di agenzie di wedding planning che avevo contattato notasse il mio curriculum di neolaureata e decidesse di propormi un colloquio e magari anche uno stage.
Ovviamente però, quando il destino decide finalmente di concederti quella tanto agoniata chance in cui riponi tutte le speranze della tua vita futura, questa prende vie traverse o secondarie nel 99% dei casi.
E io di certo non ero così fortunata da potermi ritenere parte di quel privilegiato 1%.
La mia chance era arrivata sotto forma di telefonata circa un'ora prima della fine del mio turno al pub di un anonimo mercoledì sera.
Quando avevo notato un numero sconosciuto sul display del mio telefono avevo pensato di lasciar perdere, ma considerato che il vecchio Seamus non c'era, che il locale era quasi vuoto e che suo nipote - nonchè mio collega - Kieran si stava occupando delle uniche due clienti presenti al bancone (flirtandoci in modo piuttosto palese) avevo deciso di rispondere.
"Pronto?"
"La signorina Isabel McEvoy?" aveva chiesto una voce femminile, mentre in sottofondo udivo un gran chiasso. Lì per lì non capii a che tipo di situazione potesse essere riconducibile.
"Sì, sono io. Con chi parlo?"
"Chiamo dal St. Luke's Episcopal Hospital. Lei è amica della signorina Emma Ludbrook?"
A quelle parole mi si era stretto lo stomaco.
"S-sì, diciamo di sì"
"Ha avuto un incidente" aveva proseguito la donna, in tono decisamente troppo distaccato e formale, considerate le circostanze. Solo più tardi avevo realizzato che probabilmente quelle telefonate per lei dovevano essere normale routine lavorativa.
"Cosa? Un incidente?!" avevo esclamato, attirando l'attenzione di Kieran e delle due ragazze con cui stava flirtando. "Cosa le è successo? E' grave?"
"Non è in pericolo di vita ma le sue condizioni sono abbastanza gravi. Tuttavia è rimasta cosciente per tutto il tempo e ci ha indicato lei come persona da contattare in caso di emergenza".
"D-d'accordo, arrivo subito. Grazie" avevo risposto, ancora costernata, un'attimo prima di riagganciare.
Dopo essermi indebitata di un favore con Kieran perchè mi coprisse durante quell'ultima ora di turno, mi ero immediatamente precipitata all'ospedale, abusando delle mie precarie finanze per prendere un taxi e arrivare il prima possibile.
Nel momento in cui ero entrata nella stanza in cui Emma era stata ricoverata, l'avevo trovata con gamba e braccio sinistri fistosamente fasciati, con un collare che le avvolgeva il la gola, ricoperta di cerotti e contusioni e con la canula della flebo infilata nel polso non fasciato.
Se non fossi stata assolutamente certa del numero della stanza che mi era stato indicato, difficilmente sarei riuscita a riconoscerla.
"Ciao" l'avevo salutata, con tono incerto. Quello spettacolo era davvero impressionante.
"Ciao" aveva risposto lei, accennando un breve sorriso - che per lei equivaleva ad uno smagliante e caloroso sorrisone di benvenuto a trentadue denti. "Grazie di essere venuta. Hai avuto problemi con Seamus?"
"No, Kieran mi ha coperto e comunque avevo quasi finito".
Mi ero avvicinata piano al suo letto.
"Cosa...cosa ti è successo?" avevo chiesto.
"A quanto pare rispettare il semaforo rosso per qualcuno è un optional" aveva spiegato lei, in un sospiro.
Seguì qualche istante di silenzio. Non avevo idea di quale fosse l'atteggiamento migliore da tenere in circostanze come quelle e temevo che qualunque cosa avessi detto sarebbe potuta apparire inappropriata. Trascorsi un paio di minuti a soppesare attentamente le parole con le quali portare avanti la conversazione.
"Mi dispiace davvero tantissimo. Però devo chiedertelo: come mai hai chiamato me? Non che la cosa mi disturbi, anzi, ma...mi è sembrato un po' strano".
Emma mi fissava indecifrabile, mentre io continuavo a chiedermi il perchè di quella telefonata. Davvero ero io il suo primo contatto a New York? Ero certa che, facendo da assistente a Jared Leto, avesse avuto modo di conoscere diverse persone che avrebbero potuto esserle d'aiuto molto più della barista che incontrava solo durante i suoi brevi soggiorni nella City e con la quale aveva preso l'abitudine di confidarsi quand'era brilla di Guinnes. In una situazione di quel genere io non potevo fare molto, per quanto desiderassi il contrario.
"Voglio offrirti un lavoro" aveva detto, dopo qualche istante di silenzio.
Io, colta totalmente alla sprovvista, avevo impiegato qualche secondo di troppo per formulare la domanda successiva.
"E quale?"
La risposta di Emma non si era fatta attendere.
"Il mio".
A quel punto, la mia bocca si era involontariamente aperta, senza avere la minima idea di come reagire. Nè tanto meno di cosa rispondere. Lo sguardo mi era caduto sulla sacca per la flebo di Emma ed avevo avuto un'illuminazione: le sue parole dovevano essere frutto della morfina che probabilmente le stavano somministrando.
"Lo so, è una cosa improvvisa e mi rendo conto che potrebbe scombinare tutti i tuoi piani"
Molto più di quanto tu non creda pensavo, mentre la mia mente si rifiutava di credere a quello che aveva appena sentito e, allo stesso tempo, cominciava già a fantasticare su come sarebbe potuto essere lavorare alle dipendenze di uno degli idoli della propria adolescenza.
"Ma tu non hai idea di quanto impiegherebbe Jared a trovare un'altra assistente che gli aggradi, anche se temporanea" aveva continuato Emma. "Per non parlare di quanto ci metterebbe ad insegnarle il lavoro. Se però io ti raccomandassi come mia sostituta e ti insegnassi tutto quello che c'è da sapere, sono certa che la crisi isterica che Jared avrà quando gli dirò che non lavorerò per un bel pezzo sarà molto più leggera e durerà di meno. Senza contare che verrai pagata molto meglio che al pub. Allora, che ne dici?"
Al termine della sua proposta, Emma aveva esaminato la mia espressione ancora scioccata per qualche istante, ma doveva averla erroneamente scambiata per indecisione.
"Mettiamola così: tu vuoi fare la wedding planner, giusto? Questa allora è la tua opportunità di mettere alla prova le tue capacità organizzative. Se accetterai e farai un buon lavoro, Jared in persona firmerà la tua lettera di raccomandazione e potrai inviarla a qualunque agenzia di wedding planning".
Fece una pausa e mi lanciò uno sguardo ambiguo.
"E, credimi, se imparerai a gestire l'agenda di Jared Leto, organizzare matrimoni o qualunque altro evento, in confronto ti sembrerà una passeggiata".

* * *

Immergermi nei ricordi delle mie scelte sbagliate non sarebbe servito a niente, se non ad allungare la mia vita di qualche minuto, quindi decisi di aprire finalmente gli occhi.
La prima cosa che riuscii a mettere a fuoco fu la luce tremolante delle fiamme che danzavano nel camino, l'unica fonte di luce nella stanza.
Mi fu sufficiente quel dettaglio per capire dove mi trovavo: ero di nuovo nello studio. Ero scappata e mi ero quasi ammazzata solo per tornare dove tutta quell'assurda faccenda aveva avuto inizio.
La seconda cosa di cui mi accorsi fu il dolore pulsante che dalla nuca si irradiava a tutta la testa, probabilmente a causa della caduta di poco prima.
La terza cosa di cui mi resi conto fu che mi trovavo sdraiata sul tappeto persiano che si trovava esattamente nel mezzo tra il camino e le due poltrone di vinile marrone sistemate di fronte.
Avvertii un movimento dietro di me e voltai piano la testa, cercando di non peggiorare la mia già precaria situazione. Lì, mi accorsi della quarta ed ultima cosa.
Jared, seduto sulla poltrona alla mia destra - l'altra era ad uso esclusivo di Shannon e guai a sedercisi o anche solo ad azzardarsi a fissarla troppo a lungo - teneva in grembo la sua chitarra, intento ad accordarla.
Sembrava non essersi minimamente accorto del fatto che avevo ripreso i sensi, ma lui contraddisse quasi subito questo pensiero rompendo il pesante silenzio che, fino a quel momento, era stato interrotto solo dal crepitio del fuoco.
-Ben svegliata, principessa- esordì, in tono chiaramente ironico e senza staccare gli occhi dalla chitarra.
Nonostante il dolore alla testa continuasse a torturarmi, cercai di mettermi a sedere. Non fu una mossa molto furba poichè appena sollevai la testa, avvertii un forte giramento, simile a quelli dovuti alle mie vertigini, ma amplificato di molto.
Fui costretta a dare fondo a quasi tutte le mie forze per riuscire a sollevare la mia schiena da terra.
Da parte sua, Jared continuò a non degnarmi di uno sguardo, rimanendo concentrato sulla sua chitarra e accennando qualche nota.
E dire che fino a qualche anno prima avrei ucciso per vivere un momento come quello...
Certo, nei miei film mentali ovviamente Jared mi avrebbe dedicato una canzone scritta apposta per me, io non avrei avuto una probabile commozione cerebrale o trauma cranico e l'epilogo di tutta quella scena sarebbe consistito in me e lui che limonavamo appassionatamente (e forse facevamo anche altro) davanti al camino. Non in lui che mi prendeva in ostaggio per torturarmi o chissà che altro.
-Perchè non mi hai ancora uccisa?- chiesi. Peccato solo che il tono di sfida con cui volevo accompagnare quella frase fu compromesso dal filo di voce con cui la pronunciai.
Jared smise improvvisamente di suonare.
E io mi resi conto di avere appena aggiunto un altro metro di profondità alla fossa che mi ero già scavata facendomi scoprire nel più stupido dei modi mentre facevo ricerche illecite su di lui.
Lui mise allora da parte lo strumento e si chinò verso di me, facendo leva con i gomiti sulle ginocchia.
-Oh, non preoccuparti, lo farò- sussurrò in tono calmo, a pochi centimetri dal mio viso. -Ma ogni cosa a suo tempo, cara Izzy-.
Rimase a fissarmi per qualche istante e, per un momento, ebbi la sensazione che le fiamme riflesse nei suoi occhi provenissero dall'interno dalle sue stesse iridi.
Detto ciò, Jared si alzò in piedi, si voltò e si diresse verso la vetrina in cui teneva i suoi alcolici più pregiati. La aprì e scelse una bottiglia che conteneva qualcosa che sembrava vino rosso, prese un bicchiere e se ne versò un po'.
-Però- continuò, dopo averne bevuto un sorso. -Vorrei capire un paio di cose, prima di, ehm...congedarti-.
Non dissi niente, mi limitai a fissarlo mentre faceva girare la bevanda nel bicchiere, con fare da intenditore anche se ormai mi era chiaro quali fossero le sue intenzioni. Lui prese un altro sorso e si avvicinò nuovamente, inginocchiandosi accanto a me.
-Allora, me lo vuoi spiegare?- chiese.
Io non dissi nulla. Mi limitai a continuare a fissarlo. Il mio ostinato silenzio tuttavia non sembrò scalfire minimamente la calma con cui Jared stava affrontando quella situazione.
Ovviamente però si trattava solo di apparenza.
-Okay, mettiamo in chiaro un paio di regole-  riprese, dopo aver atteso vanamente una mia risposta per qualche secondo. -Le cose funzionano così: se tu rispondi alle mie domande, non soffrirai. Se invece non rispondi, ti farò male. Tanto male che sarai tu stessa ad invocare la morte. Quindi ora dimmi: come hai fatto a scoprire tutto?-
Continuai a fissarlo. Se da un lato ero letteralmente terrorizzata dalle possibili conseguenze della mia disobbedienza, dall'altro lato  - quello orgoglioso - mi rifiutavo di cedere ai suoi ricatti. Considerate le circostanze e le mie condizioni, ero consapevole di avere ben poche possibilità di uscire da quella stanza ancora viva ma, se proprio dovevo morire, mi sarebbe piaciuto lasciare questo mondo con un briciolo di dignità.
-Conterò fino a tre.- Disse Jared, con la pazienza probabilmente al limite. -Uno...-
Cosa faceva più paura? La prospettiva di essere torturata o quella di tirare le cuoia dando per l'ultima volta ragione a tutti coloro che mi avevano sempre visto come una sfigata?
-...due...-
Dovevo fare qualcosa, prendere tempo...
-Ed Emma? Lei come l'ha scoperto?- improvvisai.
Per tutta risposta, vidi l'espressione di Jared farsi più cupa ed i suoi occhi rimpicciolirsi. Lo schiaffo arrivò talmente veloce che mi accorsi di essere stata colpita solo quando mi ritrovai nuovamente stesa a terra. Dopo qualche secondo, un forte bruciore si propagò a tutta la mia guancia destra. Mi sentivo così umiliata e così impotente che fui costretta a fare appello a tutta la mia volontà e a mondermi un labbro per non mettermi a piangere.
Udii Jared avvicinarsi mentre io cercavo ancora una volta di alzarmi.
-Non sai che in genere non si risponde ad una domanda con un'altra domanda?- mi avvertì. Nonostante gli dessi le spalle, dal suo tono di voce intuii che fosse tornatato al suo stato di calma apparente, almeno per il momento.
-E, giusto per informazione, sono stato io a rivelare tutto ad Emma, qualche tempo dopo averla assunta. Avevo bisogno di un'assistente che mi fosse d'aiuto in tutto, non potevo permettermi di avere dei segreti anche con lei- spiegò. -Ma ora dimmi, come l'hai capito tu? E questa volta  cerca di rispondere in modo esauriente, altrimenti sarò un po' meno gentile-.
A quel punto, rassegnata e sempre più debole, alzai lo sguardo e lo puntai dritto nei suoi occhi azzurri. Gli stessi che un tempo avevo tanto sognato di incrociare e che ora invece mi trasmettevano solo paura ed inquietudine.
-Non è successo di proposito- iniziai. -Se avessi saputo in cosa mi stavo andando a invischiare avrei lasciato perdere, ma tu...tu non mi hai dato scelta. Io non sapevo più cosa fare per accontentarti, perchè non importava cosa facessi per te, a che ora mi costringessi ad alzarmi o ad andare a dormire, quanti salti mortali dovessi fare...tutto l'impegno che mettevo in questo lavoro non sembrava mai essere abbastanza! Ogni cosa, per quanto studiata nei minimi dettagli, era sempre imperfetta, c'era sempre qualcosa di cui lamentarsi, da criticare, un motivo per umiliarmi anche davanti agli altri, una ragione in più per invocare Emma, rimpiangerla e ricordarmi quanto non fossi minimamente degna di essere paragonata a lei. Così ho deciso di...fare qualche ricerca su di te-.
Dopo quelle parole, ebbi un attimo di esitazione, ma poi continuai.
-Non fraintendermi, non intendevo approfittare della mia posizione per fare chissà cosa. Semplicemente volevo sapere di più su di te, per farmi trovare più preparata. Speravo che in questo modo avresti per lo meno cominciato a tollerarmi, visto che mi è stato chiaro fin da subito che non ti piacevo. Volevo solo che la nostra collaborazione rendesse al meglio, almeno sul piano lavorativo. Così ho cominciato ad osservare le tue abitudini più da vicino-.
Jared mi ascoltava con attenzione. Da quando avevo cominciato a parlare non aveva mosso un solo muscolo. Non sbatteva nemmeno le palpebre. Era totalmente assorto.
-E così hanno iniziato ad apparire le prime stranezze. Ovviamente non mi hanno insospettito da subito. le reputavo solo abitudini insolite, manie da star. Quello che mi ha permesso di collegarle tra loro è stato un nome: Trina Wise-.
A quel nome, vidi chiaramente l'espressione sicura di Jared vacillare, anche se solo per un istante, ma finsi di non accorgermene.
-Come hai saputo di Trina?- chiese, cercando di mantenere il suo tono fermo e calmo.
-Ho notato il suo nome sull'etichetta del mittente dei pacchi dell'Ups che ti arrivavano quasi ogni settimana e per il cui ritiro spesso firmavo io, quando ero qui. Non mi sono mai fatta molte domande sulla tua posta, nè ci ho mai sbirciato, ma poi tu hai commesso un errore. Una mattina eri troppo impegnato a smaltire i postumi di una sbornia e mi hai chiesto di rispondere ad un paio di mail. Io ho obbedito ma mentre ero al computer è arrivata una mail di Trina. Ho riconosciuto il nome e l'oggetto recava la scritta "URGENTE!!!" così ho deciso di aprirla per vedere se potevo risolvere la cosa per te. La mail però diceva cosa tipo: "Non posso accontentarti per spedizione AB questa settimana. Ho avuto problemi. Posso inviare solo B. Attendo conferma". Ho creduto che fossero parole in codice che indicavano qualcosa di non esattamente legale, forse stupefacenti. Ho temuto di rimanervi in qualche modo coinvolta, così ho deciso di vederci chiaro e, nel caso la mia deduzione fosse risultata corretta, licenziarmi. Non volevo rischiare di compromettere il mio futuro. Quindi ho confermato la spedizione chiedendo che fosse fatta il prima possibile, omettendo ovviamente di specificare che quello che aveva scritto la mail non eri tu e cancellandole entrambe subito dopo-.
A quel punto, Jared mi rivolse un mezzo sorriso. -Una vera detective- commentò.
-Fortunatamente, quando arrivò il pacco riuscii ad intercettarlo prima che lo facessi tu- continuai, ignorando il suo sarcasmo. Ma il contenuto mi ha lasciato perplessa. Bottiglie di vino? Tra l'altro le stesse che eri solito tenere nello studio per i tuoi momenti di solitudine, assieme al wiskey, al bourbon e al resto della tua enoteca privata. Trina però aveva allegato al pacco un biglietto scritto a mano sulla quale ti informava che stavano conducendo delle indagini interne per alcuni ammanchi sospetti e che per questo ti saresti dovuto rivolgere ad un suo complice, tale Edward Qualcosa, che lavorava a San Diego, almeno fino a quando le acque non si fossero calmate. Ho sigillato nuovamente il pacco e te l'ho consegnato come se niente fosse, dopodichè ho cercato i nomi di Trina Wise ed Edward Quello-che-è. Immagina la mia sorpresa e la mia perplessità nello scoprire che la sola cosa che avevano in comune era che entrambi lavoravano per una banca del sangue-.
-A quel punto hai cominciato a vagliare tutte le ipotesi e quella che inizialmente sembrava la più assurda, è improvvisamente diventata la più plausibile. Così sei venuta qui ed hai cercato di aprire la vetrina in cui tenevo le bottiglie. Peccato solo che fosse chiusa a chiave. Così hai iniziato a cercarla ma...qualcuno ti ha sorpreso- concluse Jared al mio posto.
Lo fissai per qualche istante mentre realizzavo che, ora che Jared aveva ottenuto le risposte che voleva, la mia fine era imminente.
-Avresti potuto inventarti una scusa, raccontare una storia qualsiasi- aggiunsi, sussurrando con voce rotta. -Guardami, sono un'anonima ragazza dell'Ohio che non sa quasi niente di questo mondo. Avresti potuto dirmi che era solo l'ultima moda in voga nello star system, o qualcosa del genere e ti avrei creduto. Me ne sarei andata senza chiedere altro-.
Jared mi fissò indecifrabile per qualche secondo, dopodichè terminò il suo drink al gusto gruppo sanguigno B e posò il bicchiere sulla scrivania di mogano.
Mentre si avvicinava, ripensai alla mia vita. No, non quella che avevo vissuto negli ultimi tre mesi - sempre che potesse definirsi "vita" - ma a quella che avevo lasciato in sospeso a New York. L'appartamento a Brooklyn, la mia bizzarra ma dolcissima amica Tess, il pub, Kieran, il vecchio Seamus, il costante ma rassicurante rumore della città che non dorme mai, Time Square gremita di turisti, la metropolitana sempre affollata, Central Park in fiore e per finire, i miei genitori. Potevo contare sulle dita di una mano le volte in cui gli avevo parlato da quando li avevo chiamati per dire loro che mi sarei trasferita temporaneamente a Los Angeles. Loro stavano portando avanti la loro solita vita in Ohio, ignari di tutto e orgogliosi della carriera che si stava piano piano costruendo la loro unica figlia.
Jared s'inginocchiò accanto a me e nell'istante in cui incrociai nuovamente i suoi penetranti occhi azzurri, dimenticai immediatamente tutti i ricordi che avevo riesumato fino a quel momento.
-Sai- sussurrò, avvicinandosi sempre di più fino a quando non mi ritrovai nuovamente sdraiata a terra, questa volta però con lui sopra di me. -Non credo che sarebbe stato facile come dici. Se tu da sola sei riuscita a scoprire il mio segreto più grande, dubito che sarebbe bastato rifilarti una qualunque storiella. Sei una ragazza molto intelligente, Isabel McEvoy, ma purtroppo non molto furba. Ad ogni modo, sappi che nonostante tutto sei stata un aiuto prezioso in questi mesi e mi dispiace che debba finire così-.
A quel punto, il suo corpo ormai sovrastava il mio. I nostri volti distavano pochi centimetri. emise un sospiro mentre mi guardava, come se fosse seccato da quello che si accingeva a fare ed io non potei fare a meno di avvertire la nota amara e metallica nel suo respiro.
Forse davvero la vedeva in quel modo, forse era davvero dispiaciuto, ma che importanza poteva avere? Ormai aveva già preso la sua decisione.
Sostenni il suo sguardo, cercando di non far trasparire alcuna emozione.
La mossa successiva di Jared però, fu talmente spiazzante che compromise irreparabilmente tutto il mio impegno per cercare di conservare un'aria abbastanza dignitosa.
Perchè non si limitò a fare semplicemente ciò che ci si aspetterebbe da quelli come lui. Non mi aggredì brutalmente per cercare di uccidermi il più in fretta possibile, come mi aveva promesso.
Tutt'altro.
Jared posò le sue labbra sulle mie.
Ed iniziò a muoverle piano.
Io, incredula, rimasi ferma, con gli occhi sbarrati, subendo passiva la realizzazione di uno dei miei più intimi sogni nel cassetto nella più folle delle situazioni in cui avrei mai potuto sperare che accadesse.
Jared però si accorse del mio stato d'animo e sospese quell'assurdo bacio.
-Rilassati. Sarà tutto più facile- sussurrò ad un millimetro dalla mia bocca, un attimo prima di affondare nuovamente le sue labbra nelle mie.
Dopo un istante d'indecisione, decretai che tanto valeva obbedire, quindi chiusi a mia volta gli occhi e cercai di ricambiare il bacio.
All'inizio fu incredibilmente strano. Mi nuovevo incerta, cercando di assecondare i suoi movimenti. Jared, da parte sua, sembrava cercasse di mettermi a mio agio il più possibile.
Ad un certo punto sentii la sua mano risalire il mio fianco sinistro, poi il braccio e la spalla. Infine si posò sull'incavo del mio collo.
Mi mordicchiò delicatamente il labbro inferiore, dopodichè la sua bocca lasciò la mia e prese a scendere baciandomi il mento, il collo e fermandosi dietro l'orecchio sinistro.
Poi...
Improvvisamente si fermò.
Alzò gli occhi.
Mi lanciò uno sguardo intriso di rabbia e stupore.
E subito dopo lanciò un grido disumano.
Non esitai nemmeno per un attimo ed approfittai di quel momento di confusione per spingerlo via, più lontano che potevo ed alzarmi in piedi il più in fretta possibile, mentre Jared, sdraiato su un fianco, rantolava ancora a terra in preda al dolore.
Forse non sarò molto furba, pensai. Ma non ti ha mai detto nessuno che non si danno mai le spalle al nemico?

La porta dello studio era fortunatamente aperta. Jared era talmente certo del fatto che non sarei mai riuscita a raggiungerla da non preoccuparsi nemmeno di chiuderla a chiave.
Era convinto di avermi in pugno a tal punto da non esitare minimamente a darmi le spalle per servirsi la sua bevanda preferita in tutta tranquillità.
Era così sicuro che io, ferita e debole com'ero, fossi del tutto innocua, da lasciare il incustodito il tagliacarte sulla scrivania, a solo un paio di metri da me.
E per finire, mi aveva sottovalutato molto più di quanto non avrebbe dovuto fare.
Pessima mossa, Jay. Pessima mossa.
Tuttavia non sapevo quanto un tagliacarte conficcato nella schiena avrebbe potuto tenerlo occupato. Se la letteratura ed i film che riguardavano quelli come lui contenevano almeno un fondo di verità, allora potevo star certa che un coltellino non lo avrebbe tenuto impegnato molto a lungo.
Imboccai il corridoio cercando di correre più veloce che potevo, cercando al contempo di ignorare il dolore pulsante che nella mia testa si faceva sempre più forte.
La distanza che mi divideva dalla porta d'ingresso per qualche ragione sembrava molto più lunga di quanto non ricordassi tanto che, per un momento, mi parve quasi irraggiungibile. Facendo appello alle mie ultime forze, attraversai il soggiorno, giusi finalmente all'ingresso, ricordai per un soffio di premere il pulsante che azionava il cancello automatico e poi, finalmente, allungai la mano verso la porta.
Appena sfiorai il pomello però, questa si aprì e di fronte a me apparve una sagoma.
Appena me ne resi conto, urlai con quanto più fiato avevo nei polmoni. Non solo per la paura, ma anche per la rabbia, la frustrazione, la rassegnazione, la consapevolezza di avere esaurito tutte le possibilità a mia disposizione per riuscire andarmene di lì viva.
Mi ci volle qualche secondo di troppo per rendermi conto che la sagoma che avevo davanti era troppo minuta per appartenere a Jared.
-Mio Dio, Izzy, calmati! Si può sapere che succede?- chiese Emma.
Da quel giorno, ogni volta in cui sento pronunciare la parola "angelo", ripenso istintivamente ad Emma sull'ingresso della villetta di Jared, con la t-shirt slavata, i jeans stropicciati, i capelli raccolti in uno chignon disordinato e la fasciatura sul braccio sinistro, ultimo segno rimasto dell'incidente di cui era stata vittima.
Non credo di aver mai abbracciato una persona con così tanta forza come in quell'occasione.
Emma, la grande, meravigliosa, suprema Emma, emise un sospiro rassegnato.
-Hai infranto le regole, vero?-
Annuii, continuando a stringerla.
-E hai scoperto tutto, giusto?-
Annuii di nuovo.
-E Jared...-
Non ebbe il tempo di formulare la successiva domanda dalla risposta scontata perchè udii dei passi dietro di me e immediatamente, da brava codarda, mi affrettai a rifugiarmi dietro Emma. Il sopracitato Jared ci aveva raggiunte e sembrava più in forma che mai.
Se non altro, questo confermava il mito secondo cui quelli come lui erano piuttosto difficili da ferire.
-Emma!- esclamò con un misto di sorpresa e gioia nel tono di voce. -Cosa ci fai qui?-
-Negli ultimi tempi ho imparato che una chiamata persa da Izzy significa "sono nei guai" e tre chiamate perse nel giro di cinque minuti significano "sono sull'orlo del licenziamento". Di conseguenza ho immaginato che tredici chiamate nel giro di neanche dieci minuti significassero "ho fatto tutto quello che mi avevi espressamente vietato di fare, Jared l'ha scoperto e sto per fare una brutta fine"- spiegò lei. -E a quanto pare il mio intuito non aveva sbagliato-.
Jared abbassò lo sguardo con aria colpevole e io, a quella reazione, non potei che provare una sconfinata ammirazione per Emma. Oltre all'intuito magico, possedeva anche il rarissimo superpotere che la randeva capace di far sentire in colpa Jared Joseph "Divah" Leto. Avevo ufficialmente un nuovo idolo.
-Emma...- provò a dire lui, ma venne subito interrotto.
-No, "Emma" un cavolo. Quando ti avevo chiamato dopo l'incidente per proporti Izzy come mia sostituta, per risparmiarti l'onere di cercarne una tu e - soprattutto - per evitare che perdessi tempo a scoparti tutte le bionde anoressiche che si presentavano al colloquio, tu avevi acconsentito. Un mese fa mi hai chiamata per dirmi che, a parte qualche errore da principiante, eri molto entusiasta di lei. E ora arrivo qui e trovo tutto questo!-
Per quanto fossi ancora scossa dai recenti avvenimenti, alla mia attenzione quelle parole non sfuggirono.
-Emma- riprese Jared. -lei ha...-
-Ficcato il naso dove non doveva? Ha scoperto il tuo segreto? Avreste potuto parlarne civilmente e cercare di ricavarne qualcosa di buono, come ad esempio migliorare il vostro rapporto, invece tu ti sei dimostrato ancora una volta avventato e impulsivo-. Lo sguardo di Emma si fece un po' più comprensivo. -Solo perchè non sei stato tu a confessarle il tuo segreto, non c'è alcuna ragione per la quale tu non ti possa fidare di lei-.
A quelle parole, Jared, stizzito, si limitò a sospirare esasperato. Conoscevo quella reazione: nelle poche volte in cui, durante le nostre - frequenti - discussioni ero riuscita a metterlo di fronte al fatto che avesse palesemente torto, lui aveva sbuffato allo stesso modo. Anche se, più che un "E va bene, lo ammetto: hai ragione tu" assomigliava più ad un "Faccio finta di avere torto perchè tanto è inutile provare a ragionare con te".
Infine, dopo qualche istante di silenzio riflessivo da parte della Divah, questo puntò nuovamente lo sguardo su di me, che mi trovavo ancora un passo dietro ad Emma.
-Lei- disse, indicando proprio quest'ultima. -Mia madre, Shannon e Tomo sono le uniche persone al mondo a conoscenza del mio segreto. Ho deciso io di dirglielo, perchè sono la mia famiglia ed i miei più streti collaboratori. Tu non sei nessuno per me, credo che tu sia abbastanza intelligente da averlo capito da sola-.
Evitai di precisare che negli ultimi tre mesi avevo imparato abbastanza cose su di lui da poterci scrivere una biografia non autorizzata e conseguire una laurea ad honorem in Jaredletologia.
E anche che fino a dieci minuti prima stavamo limonando nel suo studio (tralasciando il fatto che per lui quello sembrava essere solo uno strano rito pre-pasto).
-Certo, non lo metto in dubbio- risposi, continuando a guardarlo negli occhi. -Tuttavia, allo stesso modo, credo che tu ormai mi conosca abbastanza da aver capito che so mantenere un segreto-.
A quelle parole, Jared sembrò finalmente abbandonare del tutto l'idea di assecondare gli istinti omicidi nei miei confronti.
-Quanto sto per dire non ammette repliche- mi avvisò.
Io rimasi in silenzio, chiedendomi cosa stesse per dirmi.
-D'ora in poi, tu sarai la sostituta ufficiale di Emma. Se lei non potrà lavorare per più di una settimana, tu dovrai raggiungermi. Non importa dove vivrai o che lavoro farai, io provvederò a tutto, ma tu d'ora in poi sarai una mia dipendente. Questa è la mia unica condizione e non è trattabile-.
-Jared, non...- provò ad intervenire Emma, ma fu subito messa a tacere da quest'ultimo.
-Sa il mio segreto. Tanto vale ricavarci qualcosa di buono. In caso contrario, non dimenticare che so dove vivi, da dove vieni, chi frequenti. Come mi hai ricordato tu, ormai ti conosco abbastanza-.

* * *

Trentasei ore più tardi, dopo aver svuotato a tempo di record il monolocale che per tre mesi era stato la mia casa (anche se non l'avevo mai percepita davvero come tale, in quanto ci avevo trascorso pochissimo tempo), mi trovavo in in un taxi diretto al LAX assieme ad Emma, che aveva insistito per accompagnarmi. Il volo per New York sarebbe decollato due ore più tardi ed io non volevo avere nemmeno un secondo di ritardo.
Nella mano destra stringevo il biglietto di ritorno, la certezza che stavo per chiudere - anche se solo temporaneamente - quella stressante, caotica e assurda parentesi della mia vita.
Il viaggio in auto fu particolarmente silenzioso. Emma aprì e richiuse la bocca un paio di volte, come alla ricerca di qualcosa con cui avviare una conversazione, ma alla fine capì che non c'era semplicemente niente da dire e che io non avevo molta voglia di parlare.
Quando ci trovammo davanti all'aeroporto ci scambiammo i saluti ed i convenevoli di rito, che culminarono con un'inaspettata confidenza di Emma.
-Il pub O'Flannery non sarà più lo stesso se non ci sarai tu a spillarmi la birra ed ascoltare le mie lamentele-.
Le rivolsi un mezzo sorriso. -Se ti va possiamo vederci quando passi per New York. Chiamami pure quando vuoi-.
Lei sorrise e ci scambiammo un abbraccio veloce.
-Grazie di tutto, Izzy. Non hai idea di quanto io sia dispiaciuta per come sono andate le cose. Spero che un giorno potrai perdonarmi-
-Non hai alcuna colpa di quanto è successo, Emma- risposi. -Anzi, se non avessi fatto di testa mia ed avessi seguito alla lettera le tue regole, dubito che saremmo finite in questo casino. Sono io quella che ti deve chiedere scusa-
-A proposito del tuo lavoro- continuò lei, frugando nella sua borsa ed estraendone una busta bianca. -Jared mi ha detto di darti questa-.
Me la porse ed io la aprii, rimanendo piuttosto sorpresa nello scoprire cosa conteneva: la mia lettera di raccomandazione. Il solo compenso che desideravo per quell'impiego, il solo motivo per cui avevo accettato di farmi schiavizzare da Jared durante quei mesi. L'asso nella manica che mi avrebbe potuto aiutare in modo decisivo a trovare il lavoro dei miei sogni.
La ragione per la quale non avrei mai potuto lasciare davvero il lavoro dei miei incubi.
Sospirai. -Immagino che questo, più che la ricompensa per il lavoro svolto, sia il modo di Jared per farmi capire che sono quasi una sua proprietà ora che ho scoperto che lui è...quello che è- conclusi.
-Vampiro, Izzy. Jared è un vampiro- precisò Emma, scandendo bene quella parola ma abbassando un po' la voce mentre lo faceva.
-Vampiro- sussurrai a mia volta. -Scusa, mi sembra ancora troppo strano-
-Anche a me c'è voluto un po' per abituami- confessò.
Mi rivolse un altro sorriso (doveva averne elargiti più quel giorno che non in tutto il resto dell'anno) e, dopo un ultimo abbraccio, raccolsi i miei bagagli e mi diressi verso l'aereo che mi avrebbe riportato a New York. A casa.

* * *

Avete presente quei periodi della vita in cui sembra che niente possa andare peggio? Ecco, fortunatamente quello non era il mio caso.
Al mio ritorno nella City incredibilmente ritrovai quasi tutto come l'avevo lasciato, come se durante quei tre mesi, l'intera città avesse sospeso il caos che la caratterizzava per non farmi rimanere indietro.
Solo i colori di Central Park erano cambiati: i toni pastello della primavera avevano lasciato spazio a quelli più caldi tipici di inizio autunno.
L'appartamento a Brooklyn era rimasto lo stesso, così come Tess (con la sola differenza che i suoi capelli rosa shoking erano diventati turchesi), la metro, Time Square, persino il mio vecchio lavoro al pub.
-Quattro ragazze, quattro! Una più incapace e scansafatiche dell'altra!- si era lamentato il vecchio Seamus a proposito delle bariste che mi erano succedute durante la mia assenza. Ero passata a salutare lui e Kieran, non mi aspettavo certo che mi avrebbero letteralmente supplicata di riprendermi il mio vecchio lavoro in cambio di un aumento immediato della paga oraria.
Considerato che il vecchio Seamus non si abbassava mai a supplicare qualcuno - tantomeno una donna - a meno che non fosse veramente disperato e che io ero nuovamente disoccupata, decisi di accettare.
Nei due mesi successivi però le cose cambiarono ancora. Venni contattata da una delle agenzie di wedding planning più rinomate della città, la H.E.A. Weddings (se ve lo state chiedendo, H.E.A. Sta per "Happily Ever After", ossia "e vissero felici e contenti").
Sostenni un colloquio con quella che sarebbe poi diventata il mio capo, Olivia Hall, e venni assunta come stagista.
Un grande cambiamento del tutto inaspettato ci fu anche nella mia - fino a quel momento disastrata e quasi inesistente - vita sentimentale.
Successe tutto durante la mia ultima sera di lavoro al pub quando, dopo la chiusura, Seamus e Kieran decisero di improvvisare una festicciola d'addio a base di Guinnes e cannoli siciliani presi alla pasticceria italiana all'angolo. Pessimo abbinamento culinario, ma serata gradevole. Seamus se ne andò per primo, lasciando a me e a Kieran il compito di ripulire. Avevo appena finito di lavare il pavimento quando Kieran era venuto da me con un'espressione indecifrabile che non gli avevo mai visto in volto e mi aveva detto che gli sarei mancata. Prima però che avessi il tempo di aggiungere una delle mie solite battute sarcastiche, lui mi si era avvicinato e mi aveva baciata.
E quello, per quanto inaspettato, fu un bacio che ricambiai decisamente volentieri.
Un mese dopo aver cominciato a frequentarci, diventammo ufficialmente una coppia.
Rividi Emma a dicembre. Ci incontrammo al pub, questa volta non più come barista e cliente, ma come amiche.
Riuscii persino a dimenticare la clausola dell'accordo che mi legava per un tempo indefinito al lavoro che inizialmente doveva essere solo una breve sostituzione.
Almeno fino a quando non rividi Jared nell'ultimo posto dove mi sarei aspettata di incontrarlo: ad uno dei matrimoni organizzati dalla mia agenzia. Durante il ricevimento al Plaza Hotel di Manhattan, mentre controllavo che nella sala tutto procedesse secondo il programma, incrociai casualmente il suo sguardo mentre l'attenzione della maggior parte degli invitati era concentrata sul primo ballo degli sposi. Quando scorsi il suo volto, lui mi stava già guardando. E non potei fare a mano di chiedermi da quanto tempo lo stesse facendo.
Fu allora che fui costretta a ricordare l'accordo che ci legava e lui, nello stesso momento, come se avesse colto il mio pensiero, mi rivolse un sorriso cupo, prese il suo bicchiere di vino rosso, lo alzò verso di me, come a dire "a noi due!" e bevve un sorso.
Solo più tardi mi accorsi che a quel ricevimento era stato servito solo vino bianco.

   
 
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