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Autore: LaraPink777    14/06/2015    4 recensioni
Lui ha una gamba sola. Lei è fragile come una ballerina di carta. 2k12 LeoxKarai, MikeyxKarai? Three-shot.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Karai, Leonardo Hamato, Michelangelo Hamato
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo
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Il soldatino 1

N/A Challenge CK – LP (va bene, va bene, Cartoonkeeper – LaraPink :P )
Scrivere una tartastoria ispirata ad una fiaba.  Naturalmente io ci ho schiaffato il mio solito stile realismo-angst-sensualità. 4 U, baby :*
Spero che vi divertiate a leggerla. Io naturalmente mi sono divertita tantissimo a far patire i nostri eroi; degna pausa tra le fatiche di fine anno scolastico. Tartascrivere è… favoloso XD
Un abbraccio e vivete tutti felici e contenti!

 

“Every day is so wonderful

Then suddenly it's hard to breathe.

Now and then I get insecure

From all the pain, I'm so ashamed.

I am beautiful no matter what they say.

Words can't bring me down.

I am beautiful in every single way.

Yes, words can't bring me down....

So don't you bring me down today.”

Elvis Costello, Beautiful

 

Sedeva sul gradino della zona centrale, fissando le pareti di carta del dojo. Aldilà, come in un gioco di ombre cinesi, riusciva a vedere le forme dei suoi fratelli e del suo maestro, impegnati in un intenso allenamento. Si erano divisi a coppie, e mentre Donatello affrontava Michelangelo, Raffaello questa volta se la stava vedendo con il maestro Splinter. Fino a poco tempo fa, avrebbero potuto allenarsi in coppia tutti i fratelli, a due e due; adesso, il loro maestro doveva prendere, a turno, il ruolo di avversario negli esercizi dei suoi figli.

Questa  volta, Leonardo non li aveva voluti neanche raggiungere nel dojo, ad assistere da spettatore a ciò che non avrebbe più potuto fare. Con la scusa di voler leggere, era rimasto lì, da solo. La pila di vecchi libri che Michelangelo aveva amorevolmente posto accanto a lui non era stata toccata, però.

Non aveva neanche più voglia di leggere.

Le forme si muovevano rapide dietro la parete di carta. Apparivano e sparivano, visioni oniriche e fugaci, come carpe koi guizzanti in fondo al lago ghiacciato.

Il giovane mutante mascherato in blu sospirò, nella stanchezza, nel leggero intontimento dei farmaci, nel sottile e costante dolore. Premette i polpastrelli sulle palpebre chiuse, e arabeschi rossi e bianchi si rincorsero nel buio.

Distese le braccia, poi spinse con le mani ai lati della sua seduta, per sollevarsi un po’ e cambiare posizione cercando di muovere meno possibile il bacino. La prospettiva di non ricevere la solita fitta di dolore da quel che restava della coscia si rivelò però una speranza vana.

Ne valeva la pena? Ne era valsa la pena? Sì, certamente, si diceva in continuazione.

Una gamba vale una vita, vale una vittoria, vale la sconfitta del loro nemico. La sua menomazione vale tutto questo.

Vale lei.

Eppure…

Il moncherino in cicatrizzazione, sotto le bende, prudeva.

Ne era valsa la pena? La lotta, la pioggia. Riflessi di lame, fulminee. Il dolore, il sangue. Le grida concitate che lo chiamavano, su quel tetto. Le sue urla, verso il cielo, il panico, i piedi fasciati dei suoi fratelli che battevano contro il cemento, schizzando l’acqua che sotto di lui era rossa. E pelle a brandelli e carne, dilaniata, ed il bianco orribile delle ossa; le braccia di Raph che lo tenevano, nelle convulsioni, con l’avambraccio forte del fratello a premere sulla sua bocca, col gusto di sangue e sudore, per soffocare le sue urla. Le mani di Donnie che stringevano, dolore caldo e bianco, strazio, le sue dita a chiudere l’arteria. L’acqua scrosciava forte, un lampo squarciava il cielo; Mikey, in piedi sopra il corpo del nemico, sfilava la katana ancora incastrata tra l’orbita occipitale ed il casco Kuro Kabuto. Poi il buio.

Leonardo strinse gli occhi, al ricordo. Un intorpidimento dei sensi, febbrile, lo stava cogliendo, ancora una volta. Le rimembranze si facevano vischiose e calde, i pensieri si confondevano, la percezione dell’ambiente intorno a sé sfumava, dilatando lo spazio in un’infinità nera. Iniziò a respirare più forte.

Il sangue. Il dolore.

Aprì gli occhi di scatto, e prese un profondo respiro.

Grugniti della lotta giungevano dalle ombre cinesi. Girò lentamente, con stanchezza, lo sguardo ai libri accanto a sé, accarezzò il dorso di alcuni di loro. La mano tremava appena. Michelangelo gli aveva portato di tutto un po’. Thriller da due soldi nelle loro brossure accartocciate dalle intemperie. Grandi classici che non aveva ancora letto. Qualche vecchio libro della loro infanzia.

Tra questi ne spiccava uno appena un po’ più grande degli altri, con la copertina di un marrone chiazzato e scolorito; sul dorso consunto si leggeva a malapena il titolo in caratteri che una volta erano stati dorati, prima che piccole mani verdi li sfiorassero centinaia di volte, portando via il colore dalla scanalatura sbiadita delle lettere.

Leonardo lo sfilò piano dalla colonna di libri, e se lo mise in grembo. Memorie di quattro piccole tartarughe rannicchiate sotto una coperta, ad ascoltare Splinter leggere loro una fiaba da questo libro, al caldo, al sicuro, tra odore di incenso e latte e cemento, tornarono agrodolci alla mente.

Fiabe di A. C. Handersen.

Aprì il libro, lo sfogliò a caso. Nella sua memoria, i colori delle illustrazioni erano ancora più vividi di quanto apparissero adesso su carta. Castelli, principesse e cavalieri, palazzi di ghiaccio, sirene, un piccolo fiammifero ad irradiare una visione.

Gli occhi si fermarono su una pagina in particolare. Le dita verdi carezzarono amorevolmente una macchia, goloso lascito sulla carta di una merenda bambina. Era sempre stata una delle sue fiabe preferite.

“…Il bambino prese uno ad uno i soldatini di piombo e li mise sul tavolo, guardandoli meravigliato. L'ultimo gli sembrò molto strano: rimaneva perfettamente diritto, magnifico come il resto della truppa, ma aveva una gamba sola…”

Un sorriso amaro sfiorò il volto della giovane tartaruga.

Una gamba sola.

Si sistemò sul cuscino nel gradino, ricevendo ancora il solito spasimo. Per fortuna, la terapia del dolore di Donnie era stata abbastanza efficace, e lo strazio all’arto fantasma diminuiva di giorno in giorno, riducendosi ad un dolore sordo e sottile, costante e familiare. Sì, una gamba valeva la morte di Shredder. La sua famiglia, adesso, sarebbe stata al sicuro, almeno un po’ più al sicuro.

Allora perché non si sentiva fiero, audace, come il soldatino?

I suoi pensieri furono interrotti da un frusciare lieve, a malapena udibile, a pochi passi da lui. Qualcuno si stava avvicinando, venendo dalle stanze da letto. Leonardo non si allarmò, poiché sapeva esattamente chi fosse. Anche così, anche nelle sue condizioni, i passi della ragazza, leggeri come piume, erano appena percepibili sul pavimento.

Era lei. Sua “sorella” Miwa.

Karai.

La tartaruga mutante voltò il viso verso la ragazza, e le sorrise. La giovane umana gli rispose con un cenno del capo, ancora assonnata. In pantaloncini e t-shirt neri, avanzò con la solita andatura elegante e sinuosa, aggraziata danzatrice, per sedersi nel cuscino a pochi piedi da lui. Sbadigliò senza curarsi di portare una mano alla bocca, e si strofinò gli occhi.

I capelli neri che scendevano ai lati del viso erano spettinati ed arruffati. La pelle era pallida ed un po’ arrossata dal sonno sulle gote. Gli occhi a mandorla sembravano piccoli e pungenti come quelli di un furetto, senza il kajal vistoso e le bande rosse del consueto trucco. Le solite occhiaie scure cerchiavano le orbite, come sempre da quando era stata portata a casa.

Lo sguardo di Leonardo indugiò appena un attimo nei suoi occhi caldi, ambra e cannella, sulla sua maglia oversize che le nascondeva le snelle forme, ed infine scese, veloce e carico dell’imbarazzo lieto dell’azione proibita, ad ammirarle le cosce, bianche come il latte, e le gambe, toniche e muscolose.

“…il soldatino di piombo, attratto dalla bellezza della ballerina di carta, non smise di guardarla nemmeno per un attimo…”

L’adolescente mutante si sentì invadere dal solito fuoco caldo, proprio al centro del petto. Il cuore, ancora una volta, accelerò il suo corso, e pensieri invadenti ed impudichi nuotarono nel suo cervello per poi trasformarsi in piccoli pesciolini guizzanti nei suoi nervi, giù verso tutto il suo corpo, indugiando irriverenti in parti di esso nascoste. Da quando Karai era venuta a stare con loro, non era più riuscito a ingannare sé stesso riguardo ai sentimenti che aveva sempre provato verso di lei. Da sempre, dalla prima volta che l’aveva vista.

Quei sussulti nel cuore adesso avevano un nome. Amore.

Lui l’amava. Contro ogni logica, l’aveva sempre amata, anche quando era una nemica, anche quando era feroce ed invincibile. Nelle loro lotte tra i tetti, nei loro sguardi, nelle parole taglienti come lame; nei loro giochi pericolosi, fatti di attese al freddo e momenti rubati, di scintille di lame e tocchi elettrici di pelle contro pelle. Quando lei era forte come l’acciaio, ed altrettanto implacabile.

Non come adesso.

Ora, lei non era che la pallida ombra della guerriera di un tempo. Da quando era tornata definitivamente alla sua forma umana, qualcosa in lei semplicemente non andava. Nel suo corpo, nella sua mente.

Debole e perduta, spaventata come una bambina, passava gran parte delle sue giornate a letto, nella camera che avevano allestito per lei. Mangiava poco, parlava appena. Piccoli monosillabi, sussurrati piano, ed a volte neanche quelli. A volte, sembrava che non sentisse o non capisse quello che le si diceva. In alcuni momenti, scoppiava a piangere senza un perché. Aveva paura, sussultava ai suoni, spalancava allibita gli occhi a pensieri che l’afferravano senza preavviso, rubandole l’aria d’intorno. Quegli occhi, una volta duri e determinati, sensuali e implacabili, vagavano adesso sperduti sulle cose senza vederle, privi della loro luce, perdendosi in infinità celate dietro le pareti.

La dura kunoichi era diventata delicata e fragile, come una ballerina di carta.

“…egli credeva che lei avesse una sola gamba come lui e questa supposta infermità rinforzava il suo amore…”

Splinter e le tartarughe l’avevano accolta con dolcezza. Anche Raffaello le si era sempre rivolto con tatto e cordialità, nonostante il rancore che aveva provato una volta nei suoi confronti. Donatello, i primi giorni dopo la tremenda battaglia, mentre rattoppava un po’ tutti e seguiva il terribile infortunio del fratello maggiore, aveva cercato di essere d’appoggio alla sorella acquisita nel modo in cui era capace; aveva parlato a lungo con Kirby O’Neil per farsi illuminare sul complesso mondo delle turbe mentali. Ma niente di scientificamente acquisito si sarebbe potuto applicare ad una ragazza che era stata cresciuta da un feroce assassino, che aveva amato questi come un padre, che aveva passato lunghi mesi della sua esistenza sotto le sembianze immonde di una feroce bestia ed aveva infine subito un lungo e invasivo condizionamento mentale. Così, nonostante le attenzioni di tutti, lei rimaneva nel suo mondo chiuso e desolato, distratta, lontana.

Con un’unica eccezione.

Vi era una presenza nella tana, solo una, che riusciva a raggiungere il suo castello di carta.

Michelangelo. Quando non era nella sua camera, la ragazza restava ore attaccata all’arancione, lo seguiva di stanza in stanza, quasi che solo con la tranquilla allegria del mutante potesse trovare almeno un po’ di pace dentro di lei. Si sedeva sullo sgabello, a guardarlo cucinare. Lo seguiva in lavanderia, quando lui faceva il bucato. Silenziosa e strana, si limitava a guardarlo, e ad ascoltarlo parlare.

E Michelangelo aveva assunto molto volentieri il ruolo di supporto a questa nuova sorella. Sembrava molto felice di essere d’aiuto, ed ancor più felice che qualcuno s’interessasse a ciò che faceva, ascoltasse le sue ciance, gli desse quell’importanza che lui aveva sempre sentito di dover affermare con forza nel competitivo mondo familiare con tre fratelli maschi maggiori. Per una volta, non era lui quello piccolo e debole, quello da aiutare. Per una volta, lui era la guida.

Le ombre lasciarono il loro palcoscenico di carta, e si materializzarono nella zona centrale in molto corporei, e sudati, mutanti che avevano finito l’allenamento.

Chiassosi ed ansanti, i tre fratelli diedero il buongiorno a Karai e si sedettero sui gradini, continuando a prendersi in giro ed a commentare la lotta. Michelangelo terminò in una sonora risata una battuta sagace nei confronti del fratello in viola, questa volta sconfitto, poi regalò al suo fratello invalido un sorriso, chiedendogli cosa stesse leggendo.

Leonardo abbassò lo sguardo al libro di fiabe, ancora sul suo grembo.

“Uh… niente…” mormorò.

Ma Michelangelo, ancora euforico di adrenalina, si limitò ad annuire, gentile, e poi spostò ad altri la sua attenzione. Continuò lo scherzo con Donatello, si deterse con l’asciugamano che aveva al collo il sudore dal viso, poi si voltò verso Karai.

Non le disse niente. La guardò e basta, sempre sorridendo.

La ragazza si alzò da dove era seduta, si avvicinò al mutante in arancione, e gli si sedette accanto. Gli occhi di Michelangelo si fecero ancora più luminosi.

Mentre Splinter stava continuando a spiegare qualcosa a Donatello e Raffaello, Leonardo seguì con lo sguardo lo spostamento della ragazza. Poi osservò Michelangelo.

Ed improvvisamente, si sentì male.

Vi era negli occhi azzurri del suo fratello più piccolo qualcosa di indefinibile, una specie di esaltata celebrazione nello sguardo che a sua volta egli rivolgeva a Karai. C’era come un’onda, un’increspatura dell’animo, qualcosa che Leonardo non si aspettava di vedere lì. Michelangelo guardava Karai, ma non come un fratello premuroso avrebbe guardato una sorella in difficoltà, no, lui la guardava come Leonardo stesso l’aveva sempre guardata.

In quel momento, il mondo della tartaruga in blu si chiuse e si restrinse ad un puntino, ed un altro tipo di dolore lo invase. Una vertigine avvolse la stanza.

“…uno gnomo nero e gobbo come un diavoletto. Innamorato follemente della ragazza, era un rivale pericoloso…”

Leonardo non sentiva le parole, non prestava attenzione a nient’altro che agli occhi azzurri del mutante più giovane; questi si muovevano a seguire il discorso tra il maestro ed i fratelli, poi tornavano fugaci a Karai, si spostavano ancora quindi tornavano alla ragazza, e posandosi su di lei cambiavano appena espressione. Si caricavano di un’intensità adulta e bramosa.

Il mutante in blu scosse la testa, stordito al pensiero. I farmaci, sicuramente i farmaci stavano distorcendo le sue percezioni, confondendo i suoi sensi. Gli facevano credere ciò che sicuramente non era, materializzavano paure ed insicurezze in demoni grotteschi.

L’idea stessa era talmente assurda da essere quasi inconcepibile! Come poteva immaginare che suo fratello, il suo piccolo e buffo fratellino, limpido ed ingenuo come un bambino, provasse per la loro sorella acquisita nient’altro che un puro affetto? Karai era la figlia di Splinter, la loro sorella maggiore a lungo perduta e finalmente ritrovata. Lei era adesso la loro famiglia. Ma, d’altronde, non era lui stesso caduto in quei pensieri incestuosi che adesso cercava di negare al fratello? Non aveva lui, Leonardo, ammesso ormai a sé stesso che quello che provava per Karai non era né puro né fraterno? Non aveva dissuaso Donatello da indagini sul DNA della loro matrice umana, terrorizzato dall’ipotesi che Splinter, oltre ad averli cresciuti come propri figli, non fosse, per via del mutageno con cui erano stati tutti a contatto, anche dal punto di vista genetico in un certo senso loro padre?

Lo stordimento cresceva incalzante nella sua testa, accelerando il respiro in rumorosi sibili. Il turbinio delle voci dei fratelli intorno a lui lo stava frastornando. Il loro scherzare, troppo enfatizzato. Sentiva la testa martellargli, calda, come sotto l’effetto di una forte febbre. Le risate, trascinate un po’ troppo, erano insopportabili. Le loro bocche, così rumorose. I loro sguardi, gettati verso di lui, nel patetico tentativo di coinvolgerlo, così fastidiosi; il loro odore di sudore, e Karai accanto a Mikey, e suo padre, in piedi bonario, ed ancora voci e voci e voci, come lo stridere di unghie sulla lavagna, e la loro presenza, invadente, pesante, quasi a premere sul petto, togliendogli l’aria, e rumori, rimbombi, boati lontani, suoni distorti, voci voci voci…

Lampi, e pioggia…

Il sangue. Il dolore. Lo slancio, sulla gamba rimasta. La sua katana, impugnata a due mani, a trafiggere l’occhio del nemico, che lo guardava, stupito. Il ferro dentro le cervella molle.

Il rombo del tuono.

“Basta!”

Tutti congelarono, al suo urlo, e si girarono a guardarlo.

Leonardo si prese la testa tra le mani. Goccioline di sudore si erano condensate sulla sua fronte. Trasse un profondo respiro, poi tolse le mani, e si guardò intorno. I suoi familiari lo fissavano, in silenzio, allarmati.

“Cose succede, Leo?” chiede Donatello, alzandosi in piedi e dirigendosi verso di lui.

No! L’ultima cosa che voleva in quel momento Leonardo era farsi visitare dal fratello. Come un caso clinico, come uno dei suoi esperimenti su un vetrino. Continuare ad essere il suo paziente ammalato, il povero guerriero caduto, il soldatino nella scatola con una gamba sola, l’essere debole da curare, e compatire. Continuare a suscitare la sua pietà. Lontano, doveva stare lontano…

Tese le braccia davanti a sé.

“Niente” rispose, ancora leggermente ansimante. Il suono della sua voce lo riportò alla realtà rammentandogli chi fosse, o meglio, chi fosse stato. Leonardo, il leader, il guerriero, il fratello maggiore. Provò senso di colpa e vergogna, disgusto di sé stesso per aver ancora una volta fatto preoccupare la sua famiglia, per essersi comportato da malato, da debole, da folle.

“Io, io sono solo stanco… – cercò le stampelle, ai suoi fianchi, le afferrò con foga – Ho solo bisogno… bisogno…” Armeggiò per mettersi in piedi, il dolore s’irradiò dal moncone per tutto il corpo, quando lo mosse. Goffamente, cercando di bilanciarsi, traballante. Ridicolo.

Donatello si era fermato ad un passo da lui; adesso anche Michelangelo e Raffaello l’avevano raggiunto.

“Solo… devo solo riposare un po’…” mormorò, più a sé stesso che a loro. Gamba, stampelle, gamba, nel difficile compito di salire il gradino, bilanciando il corpo, che sembrava sempre voler cadere, mentre l’istinto gli suggeriva un appoggio che non c’era più, che non ci sarebbe più stato, per salire questi due maledetti gradini, adesso troppo alti, troppo scomodi.

Mentre si allontanava, poteva immaginare dietro di sé gli sguardi scambiati tra di loro dai fratelli, e quello abbassato di suo padre, poteva sentire dietro la sua nuca la loro compassione; ma ciò che gli bruciava il petto come fuoco, era lo sguardo morbido e dimesso, spaventato e confuso dei marroni occhi umani, che probabilmente non erano rivolti verso di lui.

 

  
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