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Autore: Walter Simmons    16/06/2015    1 recensioni
Una vita noiosa, una routine soffocante. Ad un tratto, una musica.
Genere: Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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SIPARIO


 
La locandina è appesa sulla bacheca, proprio accanto alla porta del mio ufficio, incastrata fra lo stipite e le foglie della pianta nel vaso. La fisso passando, fingo indifferenza. Un pensiero comincia a farsi strada nella mia testa, ma prima che possa raggiungere la grandezza sufficiente a distrarmi dai miei impegni mi riscuoto, sbatto più volte le palpebre, e finalmente la supero.
E’ lì da quattro giorni.
Una volta entrata nell’ufficio la dimentico completamente: la scrivania è ancora pieno di tutte le scartoffie che ho lasciato ieri, quando sono uscita esausta da questa stanzetta bianca e angusta.
Mi siedo sulla sedia, accendo il computer e guardo accigliata tutti i fogli che devo visionare, spedire e compilare. Mentre aspetto che il sistema si avvii mi massaggio piano le tempie.
Si preannuncia una giornata terribile.
 
* * *
 
Mi sembra di essere qui da una vita, e invece è solo una giornata. Faccio pause caffè alla macchinetta ogni due ore, cerco di concentrarmi di più, ma puntualmente trovo errori nelle mail che devo spedire, nei calcoli che devo fare. Più mi sforzo e più la mia mente vaga, non so nemmeno io dove, persa dietro a fantasticherie che mi portino fuori di qui. Guardo l’orologio: manca meno di mezz’ora.
Il tempo sembra non passare mai, e quando finalmente esco dall’ufficio mi lascio andare in un sospiro di sollievo. I fogli e i documenti che ho lasciato sulla scrivania sembrano fissarmi con aria minacciosa e so che domani dovrò farci di nuovo i conti, ma per adesso l’unica cosa che desidero ardentemente è uscire all’aria aperta, tornare a casa e restarci fino a domattina. Il resto può aspettare.
Saluto con la mano un mio collega che chiacchiera con il capo, mi avvio verso l’ascensore.
Fuori il cielo è grigio piombo, le nuvole pesanti sono cariche di pioggia ed elettricità statica. Salgo in macchina sperando che il cielo aspetti almeno fino a casa prima di rovesciarsi tutto addosso alla città. Metto in moto ed esco dal parcheggio.
La strada è intasata per via del concerto non molto lontano e ci metto il doppio del tempo per arrivare a casa.
Apro il portone principale, l’ascensore è rotto e mi faccio quattro rampe a piedi. Litigo un po’ con la porta dell’appartamento, spingo e tiro strategicamente finché non riesco ad entrare.
La mia modesta abitazione mi appare come la terra promessa. Sono quasi le otto, mi preparo qualcosa da mettere sotto i denti con quello che trovo nel frigo e poi mi stendo sul divano. Mi passo una mano sugli occhi, accendo un po’ il televisore promettendomi di andare a dormire presto.
Faccio zapping per qualche minuto, poi finalmente mi imbatto in un film decente. Mi distraggo, penso alla giornata passata e a quella che mi aspetta.
Sto proprio per appisolarmi quando succede.
Il film si interrompe per la pubblicità, una musica allegra mi riscuote del mio torpore. Su di me ha come l’effetto di un interruttore: quella musica l’ho già sentita. Mi sento invadere da un torrente di ricordi sepolti, un’ondata di emozioni che sembra trascinarmi lontano dal mio appartamento, dal divano, dalla mia vita noiosa e dal sonno. Seguo le note, e la mente viaggia indietro nel tempo.
Era un piccolo teatro di provincia.
 
* * *
 
«D’accordo ragazzi, manca mezz’ora all’inizio dello spettacolo. Adesso chiudo il sipario, fuori già si stanno preparando a far entrare la gente. Tutti a cambiarsi, muovetevi! Vi voglio tutti pronti nei camerini fra un quarto d’ora, devo dirvi un paio di cose». La nostra regista era molto giovane, avrà avuto sì e no una trentina d’anni. Era paffuta e aveva corti capelli biondi. Sorrideva un sacco, aveva le fossette sulle guance.
Tutti i ragazzi corsero dietro le quinte, chi a preparare gli ultimi oggetti di scena, chi a farsi rifinire il trucco da chi ne era capace. Eravamo così emozionati. Avevamo provato quello spettacolo per mesi, e finalmente la prima era arrivata. Il palco era già allestito per il primo atto, ma la frenesia dietro le quinte non accennava a placarsi. Eravamo pronti? Credo di sì. Certo, allora non lo sapevo, e quindi mi mordevo le labbra dall’agitazione. Dovetti ripassarmi il rossetto due o tre volte.
Allo scadere del tempo ci presentammo ubbidienti dove la regista ci aspettava. Vidi sul volto degli altri la stessa ansia che sapevo essere dipinta sul mio. Anche i più esperti, che ostentavano sicurezza, a volte si lasciavano sfuggire dei piccoli segni d’impazienza.
«Finalmente ci siamo, ragazzi! Vi vedo agitati ed è una cosa buona. Non vi dirò di stare calmi: usate l’agitazione per dare il meglio di voi. Nessuno spettacolo teatrale va mai liscio come l’olio, e voi dovete essere sempre pronti ad affrontare l’imprevisto. E’ questo il bello del teatro!» Sorrise a tutti noi, sfregandosi le mani. «Abbiamo provato tanto e so che farete scintille là fuori. La prima capita una volta sola. Godetevi la scena, le risate, gli applausi. Divertitevi! Rendete indimenticabile questa serata».
Formammo un cerchio stringendoci le mani, poi urlammo tre volte “merda”. Mi dissero che era una tradizione. Mi tremavano le gambe e sentii l’impulso di andare in bagno.
Pochi minuti dopo cominciammo a posizionarci per l’apertura del sipario. Sul palco c’erano due ragazze ed un ragazzo, seduti su delle sedie di legno intorno ad un tavolo. Non ricordo il titolo dello spettacolo, ma ricordo che era una commedia in tre atti. Io comparivo nel secondo e nel terzo.
Ecco, ci siamo, mi dissi. Le luci sopra di noi lampeggiarono, il segnale prestabilito per l’inizio della serata. Sono pronta, sono pronta, sono pronta, continuavo a ripetermi.
Il sipario si aprì e la musica cominciò. Durante le prove l’avevo sentita così tante volte che ebbe il potere di calmarmi, di infondermi una tranquillità che non credevo possibile.
L’avevo completamente rimossa dalla mente, ma mi è bastato sentirla una volta, a distanza di più di quindici anni, per far tornare a galla la sera della prima. La mia unica prima.
Quando il primo atto finì ero già pronta e tesa come una molla per il cambio scena. Le luci si abbassarono, i ragazzi dietro le quinte entrarono a portar via gli oggetti che non servivano più ed a trasportare quelli presenti nel secondo atto. Dopo aver compiuto il mio dovere, mi ritirai di nuovo dietro le quinte, attendendo il mio turno. Alessandro era accanto a me: dovevamo entrare tenendoci a braccetto.
I secondi passavano. Un minuto, poi due. Arrivò il momento, e fu davvero più facile di quel che pensavo. Camminai spedita verso il centro del palco, e le battute sembravano uscire da sole. Non ero più Alma, la ragazza impacciata e sorridente che tutti conoscevano, ero semplicemente un personaggio di una scena.
Fu come uscire dalla propria vita: più mi avvicinavo alla storia del mio personaggio, alle vicende che si susseguivano nella trama della commedia, più sembravo allontanarmi dall’io che conoscevo.
Paradossalmente, riuscii a vedermi da una prospettiva diversa, esterna. E mano a mano che continuavo a parlare e a muovermi sotto gli occhi del teatro gremito sentii di essere più me stessa di quanto non lo fossi mai stata prima. Come se una parte della mia anima, prima nascosta e celata anche ai miei occhi, avesse  finalmente deciso di mostrarsi al mondo e di spalancare le ali verso un cielo nuovo, più limpido, più pulito.
L’atto si concluse con una scena di danza. Dovetti ballare con Alessandro. Mi sentii le sue mani addosso e mi accorsi che la sensazione non mi piaceva affatto. Lo vedevo distratto, assorto in altri pensieri. Non capivo come si potesse pensare ad altro in un momento glorioso come quello.
Io avevo appena superato la mia metamorfosi e lui sembrava appena cosciente di dove si trovava.
All’inizio provai delusione, per lui e per i sentimenti che avevo creduto di provare nei suoi confronti, ma poi decisi di non lasciare che questo fatto rovinasse la mia gioia. Quando le luci si abbassarono, uscimmo dolcemente dalla scena, assaporando gli applausi del pubblico. Alessandro teneva ancora la mano sul mio fianco, e con un movimento mi allontanai da lui appena arrivammo dietro le quinte.
Gli altro ragazzi ci sorrisero, alzando i pollici in segno di soddisfazione.
Avevo qualche minuto di pausa prima di dover entrare di nuovo in scena, e ne approfittai per sedermi a terra, badando bene di non intralciare il passaggio. Faceva un caldo terribile, quella sera d’estate, e il mio vestito lungo non migliorava certo la situazione. Mi passai una mano sulla fronte e mi sistemai i capelli, che ovviamente erano sfuggiti all’acconciatura nonostante la gran quantità di lacca.
Mi persi nella contemplazione dell’ultimo atto. I miei compagni stavano facendo davvero un buon lavoro, e il pubblico sembrava apprezzare. Si muovevano con eleganza e precisione, e l’effetto generale era molto realistico. Ero come in trance, quando nell’oscurità delle quinte sentii un rumore lieve dietro di me.
Vittorio si stava sedendo accanto a me, cercando di evitare i cavi elettrici e gli oggetti di scena. Anche lui era stato davvero bravo, sul palco. Si voltò verso di me, sorridendo, e negli occhi cerchiati di trucco scuro vidi una sorta di concentrazione mista ad euforia che mi fece restare a bocca aperta.
In quel piccolo teatro di provincia, durante il terzo atto di una commedia di cui non ricordo il titolo, fra me e Vittorio si formò un legame. Nella penombra umida, seduti a terra e circondati da altri ragazzi, trovammo quella complicità che non avevo mai provato. Era la magia del teatro, mi dissi.
Mancava davvero poco, dovevo tornare in scena. In quegli ultimi secondi le nostre mani si cercarono e si strinsero: era una stretta che voleva dire coraggio, e ammirazione. Ad unirci era la nostra stessa voglia di farci vedere nudi al mondo. Ci siamo riusciti, gli dissi con lo sguardo. Non so se mi capì, ma strinse la mia mano con più determinazione prima di lasciarmi andare.
Entrai in scena, feci ridacchiare il pubblico. Poi lo spettacolo finì. Ci prendemmo un sacco di applausi, quella sera. Le persone non erano tantissime, lo spazio era quello che era, ma seppero trasmetterci un affetto caldo e sincero, e non smetterò mai di ringraziarle per questo.
Tornai a casa che era mezzanotte passata. I miei genitori, orgogliosi, mi avevano comprato una rosa bianca.
Gli augurai la buona notte, poi mi ritirai in bagno per fare una bella doccia. Mi passai e ripassai la salviettina struccante sul viso fino a che non lo rividi pulito e scialbo come lo ricordavo. Mi stavo togliendo l’armatura di battaglia pezzo per pezzo e non me ne accorgevo nemmeno.
Mi spogliai dell’abito di scena e entrai nella doccia, ansiosa di togliermi di dosso tutto quel sudore.
Sentivo scorrermi addosso tutti gli eventi di quelle ultime ore, l’ansia, la gioia, la rivelazione.
Mi sentii su tutto il corpo le mani di Alessandro e le lavai via con un colpo di spugna; poi sentii sulla mano il tocco di quella di Vittorio la strinsi forte al petto, timorosa di far scomparire quella sensazione di riconoscimento reciproco. Uscii dalla doccia e mi preparai per andare a letto.
Non sapevo ciò che il futuro aveva in serbo per me. A dire la verità, non sapevo proprio un bel niente.
Mi addormentai serena.
 
* * *
 
La potenza di questo ricordo mi travolge come un fiume in piena. Come ho fatto a tenerlo nascosto per così tanto tempo?
Boccheggio, mi manca il fiato. Corro ad aprire la finestra e inspiro a pieni polmoni l’aria fresca e pungente della notte. La pioggia è caduta, il cielo si è schiarito. Intravedo una stella, lontana, lucente.
Più di quindici anni… e sono bastate poche note familiari a farmi tornare tutto alla mente.
Ah, il teatro! Lo ricordo come se fosse ieri. La mia epifania.
La faccia comincia a pizzicarmi per il freddo, ma non ci faccio caso. E’ come se ancora sentissi sul viso il calore delle luci, così vivo da poterlo quasi assaporare.
Resto ancora un po’ in quella posizione, poi finalmente mi decido a chiudere la finestra e tornare dentro. La televisione è ancora accesa, ma del film che stavo guardando non mi importa più niente.
Mi muovo meccanicamente, ancora non del tutto conscia di essere tornata alla realtà, al crudele qui e ora che mi separa dalla sera della prima.
Spengo tutto e mi ritrovo al buio, nel silenzio.
Poi, l’illuminazione. Una locandina solitaria, appesa accanto alla porta dell’ufficio. E una scritta, azzurra, proprio nel mezzo: “cercasi attori”.
Sorrido fra ma e me, come se mi fossi appena resa partecipe di un segreto. Penso che sono una pazza, a credere di poter ricominciare con il teatro quando non ho mai nemmeno iniziato.
Ma subito dopo penso alla mia vita, alla mia noiosa routine, a tutto ciò che sto facendo e a quanto sia diverso da tutto quello che un tempo avevo sperato di fare.
Mi rendo conto, in questo attimo di suprema chiarezza, di non poter sopravvivere così, nemmeno un giorno di più. Sento una lacrima correre giù lungo una guancia e la lascio stare. Mi dico che è l’unica lacrima di autocommiserazione che mi concederò da questo momento in poi, e mi viene da ridere, ridere a crepapelle. Mi asciugo l’occhio e mi preparo per andare a dormire.
Domani sarà una giornata ben diversa da questa.
Vado in camera, mi infilo il pigiama e mi stendo sotto le coperte. Sorrido ancora, non riesco a smettere.
Un momento prima di chiudere gli occhi e cedere al sonno vedo tutto intorno al mio letto delle pesanti tende di velluto rosso, e mi sento proprio come quella notte di tanti anni fa.
Mi addormento. 
Sipario.
 

 
  
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