Lost.
To H.S, thanks
for being my
inspiration right now.
La
prima volta che lo persi avevo circa 9 anni.
Ma
lui trova sempre il modo di tornare.
Brutta
storia, i pensieri. Brutta storia, l'amore.
Non
sai mai se è vero, se è sentito, se è
sincero. Io, per esempio,
dopo anni di amore devoto non ho ancora capito se è una mia
esagerazione o se davvero sono stata innamorata.
Come
si fa a saperlo? C'è un criterio base?
No.
No, no, siamo fuori strada, noi umani. Per ognuno l'amore è
qualcosa
di diverso: un gesto, un profumo, un giorno, un momento. Per alcuni
è
un sorriso.
Per
me l'amore è stato il mare, il che è piuttosto
strano. Non ci siamo
conosciuti al mare, non abbiamo gli occhi blu, non siamo nati vicino
al mare, non siamo stati al mare insieme.
In
realtà, lui al mare c'è stato, ma non con me. E
l'avrà pure avuta
una ragazza dagli occhi azzurri forse, ma non ero io.
Noi
non abbiamo una canzone, un'opera d'arte, una poesia. Noi non siamo
neanche un 'noi'.
Ma
basta divagare.
La
prima volta che lo persi avevo 9 anni, la seconda 17 e la terza
adesso, a 20. Probabile che io non sappia tenerlo, probabile che io
non sia abbastanza per tenerlo.
Abbastanza
forte, abbastanza bella, abbastanza originale.
Forse
'perdere' è un verbo un po' forte, dato che lui non
è mai stato
mio, però rende l'idea delle conseguenze. Ogni volta che ho
perso
lui, ho perso parti di me. E quelle si che sono state mie.
Ho
fatto idiozie per lui, cose che si leggono solo nei libri e che
abbassano drasticamente la dignità femminile. Neanche quelle
sono
servite, tanto per la cronaca.
Ma
suppongo che abbasserò la mia dignità un'ultima
volta, per
raccontarvi ogni mio fallimento.
Immaginatevi
una bambina piccola, 9 anni come ho detto, bassa, magrolina, capelli
biondi e sempre legati in una coda (sono più comodi,
così non mi
cadono in faccia), occhi di un marrone piuttosto banale e qualche
lentiggine sulle guance. Come vedete, non sono niente di che. Dai
nove anni non sono cambiata granché, escludendo la scomparsa
delle
lentiggi e la comparsa di tette e varie forme. E i capelli lunghi fin
sotto le spalle. Per non parlare del fatto che mi sono imbruttita.
Diciamo
che a nove anni ero una bambina graziosa. Non la più quotata
della
classe, ma almeno i ragazzi giocavano e scherzavano con me. Ricordo
alcune battute divertenti, alcuni dei più timidi che
provavano a
stringermi la manina o a accarezzarmi una guancia. Sa il cielo quanto
vorrei adesso un gesto dolce.
Ma,
si sa, l'adolescenza porta solo strafottenza e l'essere rudi come
tori al pascolo.
Sta
di fatto che lo vidi per la prima volta a nove anni, al mio terzo
anno di elementari. Generalmente tendo a eliminare i ricordi troppo
vecchi, ma questo proprio non va via.
Ricordo
che nella mia classe, la sezione A, non mi piaceva nessun bambino.
Uno troppo magro, l'altro troppo basso, un altro ancora con i capelli
troppo neri. Ok, diciamo che sono una difficile in quanto a gusti, ma
ho una predilezione per i biondi con gli occhi azzurri.
Lui
era tutt'altro.
Stavo
camminando fuori dalla classe, nell'intervallo, e cercavo di
raggiungere il mio armadietto tra la calca di bambini saltellanti e
felici che la giornata fosse quasi finita. I nostri armadietti
avevano ognuno un animale diverso, e il mio era la rana.
Ho
sempre pensato che fosse un messaggio subliminale per dirmi che ho la
bocca larga e parlo troppo. Comunque, mentre passavo davanti al
gruppo degli uccelli vidi una signora alta che sgridava un bambino.
Non so perché ma mi fermai.
"Non
puoi continuare a comportarti così, Harry!" stava dicendo
lei,
cercando di trattenersi dall'urlare troppo. Era un bella donna,
abbastanza alta e con i capelli neri legati in una crocchia
disordinata. Il cipiglio era arrabbiato, ma il suo viso sembrava
piuttosto dolce e gentile.
"Ma
mamma, non ho fatto niente.", rispose il bambino,
sbuffando leggermente. Lo fissai, non l'avevo mai visto prima. Aveva
i capelli neri ricci e fitti, che gli cadevano sugli occhi in onde
spettinate e buffe. Non era un riccio crespo, ma quasi boccoloso. I
suoi occhi erano verde brillante, quasi azzurri, e emanavano una
furbizia fuori dal comune. Sorrise a sua madre, come per convincerla,
e il suo sorriso era qualcosa di spettacolare. Aperto, perfetto, con
i due denti davanti leggermente più grossi, tutti
bianchissimi. E,
ai lati della sua boccuccia paffuta, un miracolo incredibile che io,
a quell'età, non avevo mai visto. Due buchetti adorabili e
che ti
facevano (e fanno) venire voglia di metterci il dito per vedere se
sono morbidi quanto sembrano.
A
nove anni a malapena avevo idea di come spiegarmi i miei puntini
sulle guance e sulle spalle cercando di non farmi prendere dal panico
in caso fosse varicella, ma i buchini sulla pelle proprio non
riuscivo a concepirli.
"E
la merenda di quel bambino è sparita nel nulla? Cosa ne dici
di
quella della settimana scorsa?" stava ancora chiedendo la mamma
al bambino. Lui sollevò le spalle e le fece ricadere,
mettendo su
uno sguardo innocente. E magari avrei dovuto capirlo che a mentire
era un campione.
Quella
sera a casa chiesi a mio padre cosa significasse avere dei buchini
sulle guance, ovviamente evitando di parlare del bambino.
"Si
chiamano fossette -mi aveva detto- ed è una
particolarità proprio
come le tue lentiggini. O come una voglia. Sai cos'è una
voglia?"
mi aveva chiesto, ed io avevo scosso la testa.
Lui
si era tirato su la manica della camicia e mi aveva mostrato una
macchiolina un po' più scura sulla sua pelle, vicino al
gomito.
"Vedi,
si dice che se quando una donna incinta ha voglia di mangiare un
determinato cibo e non lo fa, il bambino nasce con una macchia, che
sta a significare la mancanza dell'aver soddisfatto quella voglia.",
mi spiegò, rimettendosi la camicia a posto. Poi mi aveva
accarezzato
la testa e mi aveva accompagnato a dormire, rimboccandomi le coperte.
"Ora
vado a lavorare, ho il turno di notte. Mamma tornerà verso
mezzanotte ma tu dormi, non te ne accorgerai nemmeno.", mi disse
e mi lasciò un bacio sulla fronte prima di uscire dalla
stanza. Non
sono mai stata una bambina paurosa, da sempre mi hanno spiegato che
il lavoro è importante e viene prima di tutto. Se si
guadagnano i
soldi, si può avere tutto il resto.
Tranne
l'amore, certo. Quello vero intendo.
Il
giorno dopo volevo rivedere quel bambino. Mi incuriosiva l'idea, non
so perché. Forse mi piaceva già, dato che nella
mia classe non
avevo mai avuto modo di vedere una figura decente. Non lo so.
Sta
di fatto che nell'intervallo uscii dalla classe con passo deciso,
facendo dardeggiare gli occhi a destra e a sinistra pur di trovarlo.
Non fui così fortunata: non vidi il bambino. Ma dopottutto
non
l'avevo mai visto, magari rimaneva in classe e ieri era uscito fuori
solo per parlare con sua madre.
Non
lo vidi per tutta la settimana successiva, ma l'idea non abbandonava
la mia mente. Era quasi dicembre, me lo ricordo, e l'aria
già di per
se' fredda di Londra era diventata ancora più fredda e
pungente.
Ricordo che adoravo mettere un ridicolo cappellino rosso.
Non
ricordo il giorno preciso ma, infine, mentre mi spostavo insieme alla
mia classe per fare educazione fisica, eccolo la. In piedi, di fianco
ai bagni. I suoi capelli erano più corti, tagliati di
fresco, ma i
suoi occhi bellissimi come mi ricordavo. Lo guardai a lungo,
finché
il suo sguardo non incrociò il mio. Sollevò un
sopracciglio e mi
guardò con confusione e curiosità, mentre io
arrossivo e tentavo
(inutilmente) di distogliere lo sguardo. Poi mi fece un sorrisetto
seguito da un occhiolino. Sì, a nove anni.
Dovevo proprio capirlo.
Quasi
inciampai nella fila ordinata dei miei compagni che avanzavano, e mi
scusai mentre arrossivo e cercavo di non farmi perforare la schiena
dal suo sguardo.
Il
giorno dopo fu il primo in cui parlammo.
Mi
stavo togliendo il grembiule (avevo la divisa, lo so, uno schifo) e
preparandomi per andare a casa quando sentii un colpetto lieve sulla
spalla. Mi girai, incontrando gli occhi verdi screziati di azzurro e
giallo del bimbo tanto agognato. Da vicino era ancora più
carino.
"Ciao,
mi chiamo Harry.", disse allungando una mano, come fanno gli
adulti.
Riuscii
a fare un mezzo sorriso, stringendo quella manina paffuta e calda:
"Io sono Alexandra, ma puoi chiamarmi Alex."
Lui
sorrise e poi, insieme, iniziammo a camminare verso l'uscita. Non
disse niente, mi stava solo accanto, sistemandosi la maglietta bianca
stropicciata. Fuori, nel parcheggio, mi aspettava come al solito mio
nonno. "Io vado di là.", dissi indicando la destra.
Lui
annuì: "Ci vediamo domani, Alex."
Mantenne
la promessa.
Per
i due anni successivi andò tutto a meraviglia: avevo la mia
bella
famiglia, i miei voti eccezionali e il mio migliore amico.
Harry.
Passavamo
i pomeriggi al parco a rincorrerci e a giocare a nascondino,
finché,
verso le cinque, sua mamma veniva a prenderlo e lo trascinava via a
forza. Harry mi faceva ridere, questo lo ricordo: è sempre
stato un
bambino vivace e coinvolgente. Mi raccontava storie chiaramente false
su come aveva visto coccodrilli o affrontato un leone in giardino, ma
io fingevo di credergli. Sempre.
Non
avrei smontato quel sorriso bellissimo per niente al mondo.
E
crescevamo, come tanti altri, affrontando mano a mano quelli che gli
adulti chiamano 'i problemi della vita'. A partire da una sgridata,
per arrivare ai primi problemi amorosi.
Harry
era un segugio. Piaceva a tantissime ragazze, ma non mi dava
granché
fastidio. Sentivo quel piccolo pizzicore all'altezza dello stomaco
ogni volta che faceva il solletico a qualche altra bambina, ma non
l'ho mai considerato come gelosia.
Alla
fine della quinta elementare abbiamo fatto l'esame insieme e, per
festeggiare, mio papà ci ha portato a mangiare il gelato in
un posto
artigianale. Ricordo che Harry si è spaventato da morire
quando
l'asino gli ha rubato il suo cono, e ricordo che gli ho detto che
pensavo fosse più forte, dato che aveva combattuto contro un
leone.
Rise forte, poi mi disse: "Solo tu potevi crederci."
Ho
sorriso e non ho detto niente.
Un
giorno d'estate dovevamo vederci per decidere a quale scuola media
andare, visto che nella nostra città ce n'erano
più di tre diverse.
Ci eravamo organizzati per trovarci al parco sotto casa mia alle 3 di
pomeriggio, ma alle 4 e mezza ero ancora sull'altalena da sola.
Pensai che si fosse dimenticato.
Alla
sera ricevemmo una telefonata e sentii mia madre chiacchierare
amabilmente con qualcuno, prima che il suo tono si facesse triste e
dispiaciuto.
Quando
venne in camera mia le chiesi subito chi era al telefono, ma mi
stupii quando disse che era la mamma di Harry.
"Tesoro...",
disse mamma, "Mi ha detto Anne che suo marito ha trovato un
posto di lavoro molto importante in Francia."
Io
ho sorriso. Che ne potevo capire dei 'problemi della vita'?
"Mi
dispiace, Harry va via."
Quello
lo capii eccome.
"Quando?"
le chiesi.
"Tra
una settimana."
Non
vidi più Harry, perché decisi che avrebbe fatto
meno male un taglio
netto. Una separazione forzata. E, da un giorno all'altro, Harry
Styles smise di far parte della mia vita.
Per
un po'.
A
17 anni potevo considerarmi l'emblema dell'inutilità.
I
miei voti erano nella media, la mia popolarità decisamente
sotto la
media e la mia felicità decisamente sotto la media di quelli
che
stanno sotto la media. L'adolescenza mi ha portato tante cose
negative e ben poche positive.
Avevo
pochi amici, perché non riuscivo più a fidarmi di
nessuno dopo
quello che era successo con Harry.
All'alba
del primo giorno del terzo anno di liceo fui decisamente sorpresa.
Camminavo per i corridoi ormai conosciuti del mio istituto con le mie
due 'amiche' ai lati quando sentii i ragazzi del football parlare di
un nuovo ragazzo la cui bellezza avrebbe potuto portar loro via le
cheerleaders più fighe. Alzai gli occhi al cielo e li
ignorai.
Scoprii chi era in mensa.
Prendevo
sempre una mela e un piatto di insalata perché il resto mi
faceva
schifo solo a guardarlo, e mi sedevo in un tavolo nell'angolo destro
della sala. Le mie amiche, Charlotte e Pansy, mi raggiungevano dopo
aver parlato un po' con le fighe della nostra classe. Giusto per non
allontanarsi troppo dalla figaggine.
Se
così si può dire.
Quando
entrò alzai la testa solo perché sentii alcuni
sospiri e perché
arrivò ben dopo tutti gli altri. Da lontano non lo riconobbi
subito.
Il primo pensiero fu: "assomigli ad Harry con quei ricci."
Solo
che era molto più bello.
I
capelli erano ricci ma meno voluminosi e più lunghi, la
camminata
sicura e lo sguardo strafottente. Mi dissi che Harry non poteva
essere così. Lo ricordavo innocente e carino.
Ricordavo male.
Mi
ricordo anche com'era vestito, con quella tuta grigia che gli
fasciava i muscoli delle gambe e una maglietta nera attillata. Si
spettinò i capelli, guadagnando qualche altro sospiro.
Tornai a
mangiare per conto mio, fregandomene.
Fino
a che non venne lui da me.
Forse
perché ero sola, o forse perché non stavo dando
nell'occhio.
"E'
libero qui?" chiese.
Alzai
gli occhi e incontrai i suoi. Allora capii che era lui.
E
svenni.
Non
tanto bella come reazione vero? Poi, quando mi svegliai in infermeria
accanto a lui, gli urlai contro. Gli urlai contro tutti gli insulti
che conoscevo e le parolacce e gli tirai anche due sberle sul
braccio. Lui rimase impassibile, poi disse:
"Ma chi sei?"
Due
mesi dopo ero follemente innamorata di lui.
Perchè?
Semplice. Non mi parlava, mi trattava male e mi ignorava. Serve
davvero qualcos'altro per far avere una cotta ad un'adolescente
femmina?
La
risposta è no, in caso ve lo stesse chiedendo.
Lo
sognavo di notte, lo bramavo di giorno, lo desideravo disperatamente,
giorno dopo giorno. Dite che non è amore questo?
Può darsi.
Ve
l'ho detto all'inizio che l'amore è relativo e che nemmeno
ora sono
sicura di essere stata davvero innamorata. Ho anche detto che per noi
è stato il mare il punto chiave.
È
vero. Ma solo perché andavo là a scrivere poesie
su di lui. Ne ho
ancora qualcuna, da qualche parte.
Se
la trovo ve la scrivo.
Lo
dovevo immaginare che, quando iniziò a parlarmi, c'era
qualcosa
sotto. Qualcosa di sbagliato e di cattivo.
Iniziò
un giorno, in cortile. Si avvicinò chiamando il mio nome e
chiedendomi scusa per tutto. Non gli credetti subito.
Ci
mise una settimana e mezza di gesti dolci e di carezze e dolci parole
per farmi capire che davvero si era pentito. Mi accompagnava ovunque,
veniva a casa mia e mi faceva ridere.
Sembrava
il solito Harry. Il mio Harry.
Dopo
poco cominciò a spingersi oltre. Le sue carezze si
spostavano dalle
guance fino al collo, poi sui fianchi. Finché, a casa mia,
un giorno
di Maggio, mi baciò. Non ci credevo.
Non
volevo crederci.
Disse:
"Scusa, non ho resistito."
Io
l'ho solo preso per le spalle e l'ho baciato più forte. Mi
piaceva
così tanto da non riuscire a tenermi.
E
non sto parlando solo dei baci.
Ci
misi un mese scarso a dargli quello che voleva. Facemmo l'amore, per
me lo era almeno, una sera di Giugno. A casa sua.
Andammo
avanti tutta la sera. Io non mi pentii, non mi vergognai.
Era
Harry, cazzo, l'unico al mondo di cui mi fidassi.
Vi
ho già detto che è bravo a mentire, vero?
Solo
che a capirlo non ero brava.
Non
vidi che faceva una foto alle lenzuola sporche di sangue
perché ero
girata di spalle, intenta a rivestirmi.
Non
ci volle molto, prima che la vedessi. Il giorno dopo la foto era
appesa fuori da scuola.
Mi
trasferii una settimana dopo.
Vi ricorda qualcosa? Dovrebbe.
A
20 anni, adesso, non è cambiato molto. Esteriormente.
Dentro,
sono un'altra.
Ho
tentato il suicidio 9 volte, prima di accorgermi che l'errore non era
stato mio e che a morire, al massimo, non dovevo essere io.
Ho
costruito quella che sono da macerie di dolore e di lacrime. Ho visto
invecchiare i miei genitori e ho visto il loro sguardo di
pietà che
hanno quando mi guardano, e ho detto 'mai più'.
Mai
più.
Mi
sono rimboccata le maniche e ho trovato un lavoro del cazzo, ma
almeno faccio qualcosa. Non ho amici, qui in Italia, e non ho un
fidanzato. Non ho nessuno, oltre ai miei genitori.
Ci
hanno provato, ad avvicinarmi. Sono io che allontano tutti.
Harry
Styles mi ha rovinato la vita.
Eppure
non sento di odiarlo neanche più, non sento più
niente in effetti.
Sopravvivo. Esisto. E va bene così, fa meno male.
Ho
visto Harry l'altro ieri. È venuto in vacanza con i suoi
amici, gli
stessi fenomeni del football più qualche ragazza. Uno mi ha
urlato
di provare a stringere la corda più stretta, la prossima
volta che
provo a uccidermi. Gli sono scoppiata a ridere in faccia.
Ci
è rimasto male.
Capisco
di aver sbagliato a trasferirmi, perché gli ho solo mostrato
il
fianco permettendomi di colpirmi il doppio.
Tornassi
indietro, rimarrei e gli riderei in faccia ogni giorno.
A
tutti loro.
Harry non ha detto niente, mi ha guardato e poi ha distolto lo sguardo. Spero si vergogni per quanto schifo mi fa.
Oggi
esco per andare a comprare il pranzo, e so già che lo
incontrerò.
Non so come, ma lo sento. Ed è nel reparto del latte che lo
incontro, intento a fissare un'etichetta.
Ha
i capelli ancora più lunghi e gli occhi spenti. Fa male
sapere che
mi dispiace di vederli così. Fa male verso me stessa,
perché
l'istinto di sopravvivenza viene sempre meno, davanti a lui.
"Ehi.",
dice quando mi vede. La voce è roca e profonda come la
ricordo.
Bella e ingannevole.
I
suoi jeans neri soliti gli stanno larghi, la maglia cade sformata.
È
dimagrito parecchio.
Gli
faccio un cenno, poi lo supero. So che mi fermerà ancora
prima di
sentire la sua mano avvolgersi delicatamente attorno al mio braccio.
Mi giro, incontrando il suo sguardo dispiaciuto.
"Sei
dimagrito.", commento, staccando la sua mano dalla mia pelle.
Lui annuisce e deglutisce, in imbarazzo.
"Senti,
io...", inizia, ma lo interrompo subito.
"No.
Non mi interessa, qualsiasi cosa sia.", dico risoluta. Ed è
così, non voglio più sentire niente.
Nessuna
bugia.
Nessuna
giustificazione.
Perché ci crederei ancora.
"Ti
prego, mi dispiace!" mi implora quasi.
Ma
quando io imploravo lui, dov'era?
"Ok.",
rispondo.
Dietro
di lui si riuniscono i suoi amici e mi fissano con aria divertita. Ma
la mia è indifferente. Non ho paura.
"Harry,
che fai?" chiede una ragazza.
"Sì,
che stai facendo?" lo sprono. Non dirà mai la
verità davanti a
loro. Non dirà mai che stava chiedendo scusa.
"Io...niente.",
mormora.
Gli
sorrido. È un sorriso di vittoria. E la sua smorfia
è quella dei
perdenti. Sai cosa, Harry? -penso- Tu avrai anche vinto una scommessa
con la mia verginità, ma nella vita hai perso tutto.
Sei solo un coglione. E non avrai mai pace per questo.
Altri
due giorni dopo sto malissimo.
Piango
nel letto, poi mentre vado a lavoro e infine quando passeggio per la
città. Vederlo mi ha ucciso.
È
che lo amo ancora più di prima, quanto è
autolesionista questa
cosa? Non potrei dimenticarlo e basta? O sputargli addosso.
Lo
chiamo.
Il
numero è lo stesso quando sento il suo "Pronto, sei davvero
tu?"
"Sì.
Dove hai l'hotel?" gli chiedo.
Mi
da l'indirizzo, gli dico di sbarazzarsi dei suoi amici.
Quando
arrivo, mi guarda confuso. Ma io voglio solo mettere fine a questa
storia. Voglio chiudere questi sentimenti dolorosi, voglio
cancellarlo dalla mia vita.
"Ora
stai zitto.", gli dico solo.
Poi
lo bacio. Zittisco le cose che ancora vuole dire.
Faccio l'amore con lui. Una volta, poi due.
Lui
non dice più nulla. Mi guarda addolorato, capisce cosa sto
facendo.
È triste, ma io lo sono di più.
Gli
dono me stessa ancora una volta. Tengo gli occhi chiusi tutto il
tempo.
Tengo
il cuore chiuso, tutto il tempo.
Poi
mi alzo. Mi vesto. Divento meccanica, un robot. Gli sorrido. Lo
saluto. Ed esco.
"Ti
prego. Perché?" chiede la sua voce dietro di me.
Non
mi giro nemmeno: "Quando partite?"
"Domani.",
sussurra.
Sorrido.
Finalmente. "Perché tu hai potuto e io no?" gli rispondo.
Poi
vado via.
L'ho
perso anche adesso.
E
fanno tre. Ma non ce n'è una quarta, penso mentre faccio la
doccia
ed elimino il ricordo di Harry Styles dalla mia vita.
Per sempre.
Ho concluso che,
siccome sono un'idiota che non riesce a finire una fanfiction intera,
almeno pubblicherò le one shot che la mia mente malata partorisce.
Spero che a qualcuno piaccia.
Chiara.