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Autore: FallinParadise    18/06/2015    0 recensioni
Edward Sandmore era sicuramente uno dei ragazzi più belli e galanti del 1700; figlio di un grande affarista ed orfano di madre, aveva imparato cos'era la vita con grande umiltà e pazienza.
Credeva che questa sarebbe cominciata e finita tra le sue terre quando, in una notte primaverile, la giovane Julie lo portò a scoprire un mondo totalmente diverso dal suo, quello dei miserabili.
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"Credi che mi scopriranno?".
"Se ti comporti esattamente come me, no".
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Grazie a Nathan, fratello di Julie, e Belle, il cane di famiglia, il giovane conte imparerà cos'è la vita nel mondo vero.
Tra amori proibiti, nuovi incontri e tanti guai, i quattro riusciranno a creare una routine totalmente diversa e sconvolgeranno la vita anche alle persone che circondano il diciassettenne Edward.
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"Credo di amarti".
"Credi male".
"Siamo nei guai?".
"Ci puoi scommettere".
"Come ne usciamo?".
"Insieme, come sempre".
Genere: Avventura, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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Scrivo su perchè dopo nessuno legge... nulla di che, vi informo solo che l'aggiornamento sarà casuale e vi auguro buona lettura. Spero mi lasciate una recensione, un commento, un messaggio o una qualsiasi cosa per dirmi come va e dove migliorare. 
Grazie a tutti, M.

 


Incontri. 


“Katie! Adam! Buon cielo, dove sono finiti quei due? Adam! Kitty!”.
Aprii lentamente un occhio e sbirciai verso destra; una bambina dai lunghi capelli biondi se ne stava accovacciata dietro un cespuglio di rose bianche.
“Basta giocare, uscire fuori!”.
L’accento buffo della donna la fece ridacchiare.
Sporse leggermente il collo, l’indispensabile per vedere in che direzione spostarsi.
“Ti ho preso!” urlò ancora, e la bimba tornò a nascondersi. 
Vidi Naima stringere forte per il polso un bambino dai capelli mori e brizzolati.
“Che risate quando il signorino Lucas verrà a sapere di tutto questo! E bada, Kitty, che ti torno a prendere!”.
Ma, appena la donna fu rientrata con un indispettito ometto tra le mani, la piccola Katie sgusciò fuori e mi corse allegramente incontro. “Hai visto, Edward? Hai visto come se la prende subito?”.
Risi con lei, annuendo senza smettere di controllore la porta d’ingresso. “Vi divertite proprio, vero? Povera donna, sta solo facendo il suo lavoro”.
“Vuole portare Adam a fare il bagno e me a tagliare i capelli! Ci ho messo tre mesi a farmi crescere!”.
“E Adam che scuse ha?”.
“Dice che lo ha fatto ieri, gli scoccia farlo di nuovo!”.
“Ieri? Ma ieri siete andati a giocare a casa dei Dullas, o sbaglio? Dubito che il signorino sia andato poi a lavarsi… sai meglio di me la sua avversione per l’acqua”.
Lei alzò un sopracciglio e sembrò pensarci un attimo; annuì leggermente, poi si girò verso la residenza e sospirò. “Temo tu abbia ragione. Mi sa proprio che un bel bagno gli tocca”.
 
“Edward! Edward!”.
“Signora Naima, è da stamattina che urlate per la proprietà. Come posso aiutarvi a smettere, stavolta?”.
Lei sembrò imbronciarsi e le guance le si colorarono di rosso. “Oh beh, ci sono visite per lei e per il signorino Lucas. Sa… intende…”.
“Non so e non intendo nulla, parlate chiaro”.
“Ma come no…? La signorina Mary, la figlia del conte delle terre accanto… dice che la questione è importante”.
“Importante, certo. Dite alla signorina in questione che la comodità del mio giardino è troppa perché mi alzi”.
La donna non sembrò soddisfatta della risposta, ma chiusi gli occhi e neanche vidi il suo grosso corpo allontanarsi.
Erano mesi che quella ragazzina tentava di abbindolare me e mio fratello –e forse, con questo, non è che avesse sbagliato mira; chiedeva insistentemente, quasi ogni pomeriggio, che andassimo a prendere il the da lei. Figura rispettabile, dall’aspetto nobile e regale, per carità! ma non proprio il mio prototipo di ragazza ideale. Mio fratello maggiore Lucas, invece, nutriva nei suoi confronti una certa simpatia. Da come molti avevano notato, però, la giovane non era a lui che puntava. Naima credeva infatti che invitasse anche lui solo per cortesia, o forse per non dover prendere il solito the da sola. Che poi, parlando di questo… era la tipica altolocata che lo prendeva verde e senza zucchero. Uno strazio!
I suoi capelli mi ricordavano molto –troppo- quelli delle bambole di pezza con cui giocava Katie. Gli occhi erano azzurri ed i vestiti sempre ed esageratamente ampi; non capivo cosa vedesse in lei mio fratello.
Aveva una sorella più piccola che mai avevo visto in quel lasso di tempo. Naima diceva che badava bene a non mostrare né lei né la nuova arrivata in giro, forse per paura che potessero competerle.
A parer mio, anche una capra istruita avrebbe potuto avere la meglio su di lei.
Alzai gli occhi al cielo e sentii uno sguardo insistente sul mio corpo.
Non mi ci volle molto a capire a chi appartenesse.
“Edward! Mio caro!” cominciò lei, reggendosi il vestito azzurro con una mano. “La domestica mi ha detto che non volevi alzarti, quindi sono venuta io. Spero non sia un disturbo”.
Và via. “Nessun problema, Mary”.
“E lo credo! Te ne stai qui tutto solo!”.
Ci sarà mai un motivo? “Già… solo soletto”.
Si autorizzò da sola a sedersi accanto a me e la vidi sorridere con la coda dell’occhio.
“Allora… che dici? Oggi vieni di là con me e Lucas? Suvvia, non farti pregare”.
“No, grazie. Ho tanto da fare”.
Non ne parve affatto contenta; si alzò, calciò via un sasso e –fingendo una sorta di sorriso di cortesia simile ad una smorfia- cominciò ad allontanarsi.
Le donne… mai una risposta adatta al loro umore!
Mi dispiacque per lei, provai quasi un senso di pena e tenerezza insieme. Insomma… non avevo mai accettato un suo invito, prima o poi avrei dovuto farlo. Almeno per mio padre, almeno per l’onore del mio cognome.
Ancora di più mi dispiacque accorgermi di essere in piedi con una mano protesa in sua direzione.
Diamine. “Aspetta!”.
E lei, come se non desiderasse altro al mondo, si girò con il viso carico d’emozione.
“Ti dispiacerebbe chiedere a Naima di prepararmi un bel the? Ai mirtilli magari, ne avrei proprio una gran voglia”.
 
Verso le sette, ancora seduto sul prato e ancora con il cielo a fungere da tetto, vidi mio fratello rientrare alla villa sorridente. La cosa non mi stupì granchè; il motivo di tanta allegria parvero conoscerlo anche i cani di casa. Katie, appollaiata sull’altalena al lato opposto dell’albero che mi aveva fatto ombra tutta la giornata, alzò gli occhi al cielo e ridacchiò.
“Quel ragazzo è ridicolo. Fortuna che non abbiamo la stessa madre o non sarei stata per niente felice di dover condividerne il seno con lui!”.
Scoppiai a ridere e l’aria fu invasa dalle nostre risate cristalline. Mi scrollai un po’ di terreno dai pantaloni nuovi e passai una mano tra i capelli; “Sei matta.” le dissi. “Ma hai ragione”.
“Ho sempre ragione. E pensare di aver condiviso la nascita con quell’altro stolto!”.
“Essere gemelli non è poi così male”.
“No, se sono così diversi da non sembrare neanche fratelli!”.
Le feci l’occhiolino e tornai a stendermi. La sentii dondolarsi e un leggero vento la spinse di poco più in su.
Pensai che, infondo, stare stesi senza far nulla tutta la giornata non era scocciante come avevo pensato. Si poteva riflettere, organizzare le giornate a seguire… si potevano fare tante cose. Cose inutili, ma pur sempre tante. Riuscivo a vedere finalmente il punto di vista di Lucas, anche se preferivo di gran lunga darmi da fare in giro per casa.
“Mi sento un idiota”.
“Forse perché lo sei”.
“Sei crudele, sai, Katie? Prima te la prendi con Luc, poi con me… hai qualcosa da dire anche su Adam, scommetto!”.
“Certo che sì! Quel bambino è in assoluto il più brutto e puzzolente essere sulla faccia del pianeta!”.
Risi ancora e mi venne da tossire. Mi misi a sedere e poggiai una mano sul petto, cercando di dare colpi leggeri e regolari.
Quando vidi che la situazione non migliorava, “Chiama Naima, ora”.
Poi svenni.
 
Aprii gli occhi in una stanza che ritenni subito non di mia proprietà.
Era rosa, c’era un letto con il baldacchino bianco ricoperto di seta, e alla parete erano appesi quadri… di Mary.
“Che ci faccio qui?” chiesi, pur non sapendo se qualcuno fosse in stanza.
Poiché di risposte non ne ottenni, dedussi di essere solo. Provai ad alzarmi ma una fitta al petto mi riportò sdraiato tra i cuscini e le lenzuola profumate.
Osservando la stanza, decisamente di Mary Beth, notai quando squallida e demenziale fosse la sua persona. Non che non lo sapessi già… ma avere conferme non fa male a nessuno.
Anche lei, come Katie, aveva un armadio con mensole piene di bambole di pezza di ogni genere. Ma Katie aveva sette anni… lei sedici. Una ragazza adatta a mio fratello; non avrei mai smesso di dirlo e ripeterlo.
Sperai, per la sua dignità più che per altro, che fossero solo dei dolci ricordi d’infanzia.
“Neanche a me piacciono”.
Sobbalzai e mi portai una mano al petto per lo spavento. “Buondio, non si usa bussare da queste parti?”.
Una ragazzina dai lunghi capelli castani pieni di boccoli e gli occhi blu se ne stava immobile sulla soglia con un vassoio tra le mani.
“Mi spiace, signorino Edward. Non credevo di poterla spaventare”.
“Fa niente…ad ogni modo, tu chi sei?”.
“Sono la sorella di Mary; il mio nome è Anna”.
Avrei dovuto immaginarlo, ma mi sarebbe stato troppo difficile: lei, della sorella, aveva solo il cognome.
Cercai di ricompormi e mi misi a sedere, reggendomi con le braccia sul materasso.
Un leggero brivido mi pervase la schiena.
Abbassai lo sguardo al di sotto del lenzuolo e mi accorsi, alquanto imbarazzato, di essere senza camicia.
La vidi arrossire e sorrisi; aveva contegno, a differenza dell’altra.
“Mi spiace per l’accoglienza non degna del suo rango, signorina. Sono Edward Sandmore, il suo vicino di casa. Mi rincresce anche per le condizioni in cui mi trova ma devo informarla che non ero a conoscenza del mio stato”.
Lei accennò una risata, senza però guardarmi negl’occhi. “So chi è lei, mia sorella me ne parla spesso. Non si preoccupi per le condizioni… il medico mi aveva informata” disse, muovendosi verso un tavolino accanto allo specchio. Ci poggiò sopra il vassoio, lasciando che il vestito rosa e rosso si sollevasse leggermente.
Lei sì che era carina e con bei modi. Peccato fosse più piccola di… quanto? Tre, quattro anni?
“A proposito delle condizioni…” continuò. “ha avuto un attacco d’asma. Naima ha detto che ne ha avuti altri, quindi il dottore si è limitato a prescriverle riposo ed aria fresca. E’qui perché, al momento del fatto, in casa non c’era nessuno; e’ stata la piccola Katie ad avvisarci”.
“Aria fresca? Ci sono stato tutta la giornata… strano, ma magari c’era troppa polvere o troppo terreno”.
Lei annuì distrattamente e si mise in piedi accanto al letto, con una mano pronta a chiudere la porta.
“Il cibo è lì, se le va di mangiare qualcosa. Io… ora vado, ho un bagno che mi aspetta. Lei è libero di restare quanto vuole, si senta padrone; Mary Beth ci tiene tanto”.
Ma non fece neanche in tempo ad uscire che Katie entrò in stanza lanciandosi sul letto e sulla mia pancia.
“Ti conosco meglio io, ho dunque chiesto al dottore di affidare a me le tue cure” disse, e notai che ci tenne a scandire per bene ogni parola. “Tu non sei più di alcun ausilio qui, grazie!” aggiunse poi, guardando Anna come se fosse una povera storpia.
Lei non sembrò troppo offesa dalle parole della piccola ed io fui così preso dal guardarla uscire che non mi resi neanche conto del gesto in sé. Avevo davvero lasciato che mia sorella la trattasse in quel modo?
“Kitty! Per la miseria, ma che hai fatto?”.
“Uno stufato di pollo e verdure, vuoi provarlo?” rispose sorridente, indicando il vassoio di Anna.
“No, stupida. Intendevo dire con Anna… perché l’hai fatto?”.
“Ma che domande!” mi urlò di risposta, senza aggiungere altro. Si alzò dal letto e si aggiustò soddisfatta il vestito che la madre le aveva fatto cucire giusto una settimana prima.
Decisi di lasciar perdere, pienamente consapevole del fatto che la situazione non sarebbe cambiata poi tanto. Tentai anche di riappisolarmi, ma gli occhi insistenti di Katie esigevano risposte a domande mute che bene conoscevo.
Sbuffai, che rottura. “No, Kat, non ho intenzione di sposarmi quella ragazza. E’ piccola, avrà si e no quindici anni, ed io già ne ho quasi diciotto. Che ne sarebbe della mia dignità una volta maggiorenne? Prenderei possesso di parte delle terre di nostro padre, proprio come Lucas ha fatto dispari mesi  fa, e non sarei comunque in grado di sostenere un matrimonio. E poi…”.
“…e poi nulla, caro fratellastro. Non mi avresti esposto codesti pensieri se prima tu stesso non ci avessi pensato, no?”.
Ed uscì sorridente, lasciandomi con un punto di domanda bello grosso e leggibile sulla fronte.
 
Più tardi mi svegliai con un panno umido sulla fronte, pantaloni slacciati ed un sospetto di febbre.
O di stupro, dipende dai punti di vista del tempo.
Trovai Adam accanto a me, più assonnato che mai, con la testa che per poco non cascava nel secchio d’acqua in cui avrebbe dovuto intingere il mio panno di tanto in tanto.
“Ehi ometto, sorgi e risplendi” gli sussurrai, ma per poco non scoppiai a ridere.
Lui si limitò a sbadigliare e a far pendere la testa ancora di più verso l’acqua. Non avevo idea di che ore fossero ma, a giudicare dal buio quasi totale, doveva decisamente essere notte fonda.
Povero piccolo, neanche un letto in cui dormire.
Mi alzai ed allacciai i pantaloni, poi decisi di tirarlo su con me nel letto matrimoniale. Era pesante e sudaticcio, ma cercai di acconciarlo al mio meglio, togliendogli per prima cosa gli abiti inzozzati. Evitai di metterlo sotto le coperte, troppo afosa quella serata primaverile; avrei rischiato di trovarmi bagnato insieme a lui e l’idea di un bagno di sudore non mi allettava granchè.
Mi chiesi dove stesse dormendo Mary quella notte. E dove Anna.
Anna aveva la sua stanza… ma no, dormire sarebbe stato molto meglio. Steso sul letto, accaldato, con un bambino russante accanto era la giusta decisione.
“Sto delirando”.
Mi alzai ed andai alla finestra. Da lì, come da altre ville della zona, si vedeva il giardino perfettamente curato della mia defunta madre. Era pieno di cespugli di rose bianche e rosse, alberi di ciliegio (ricchi in quel periodo di fiori profumati e vivaci) e altri grossi tipi di alberi vari. Mio padre chiamava una volta ogni due settimane il giardiniere scelto al tempo da mia madre per tenere tutto vivo e memorabile anche se, a detta della nuova moglie –la madre di Katie ed Adam-, sarebbe stato meglio fare del giardino un luogo in cui prendere il the. Assurdo, le avevo detto, ma per poco mio padre non le aveva dato ragione.
Avvertii un senso di malinconia al petto e mi mancò il fiato.
Mi mancava mia madre. O meglio, mi mancavo i ricordi che avevo di lei da piccolo; morì quando avevo appena sei anni e quei giorni, a mio malincuore, erano fin troppo confusi.
Mio padre diceva che lei viveva in ogni nostro gesto, dal più piccolo al più grande, ma l’unica cosa che ricordavo di lei erano gli occhi; gli stessi di mio fratello, ambrati e verdognoli sui contorni.
Sorrisi alla luna, piena e arancione: sapevo che lei mi stava guardando.
Nonostante questo, nonostante il momento triste, mi fu facile tornare alla realtà. Non ero mai stata una persona malinconica, ero anzi degno dei migliori giullari di corte. Mi divertiva far ridere la gente, vedere spuntare un sorriso sulle loro facce, o anche solo farle sentire a loro agio. Forse era per questo che mio padre voleva lo accompagnassi in città per i suoi affare, credeva che sarei riuscito ad incantare tutti. Ma la verità era che, semplicemente, sapevo di non poterci riuscire. Quando una persona è seria di indole, che non si lascia mai trasportare dall’allegria di un dolce momento… ecco, era lì che fallivo. Potevo provarci anche cento, mille –ma che dico!-, tremila volte; il risultato non sarebbe mai cambiato. Sarebbero restate le solite persone dal muso lungo ed i piedi dritti e rigidi, con o senza di me.
Ma questo a mio padre mi ero ben guardato dal dirlo.
Credevo si sarebbe offeso, in un certo senso; quello era anche il suo lavoro. Sì, lui era diverso… ma quanto può essere diverso un padre da un figlio? Quel poco che cambia le cose, che permette di distinguere chi è uno e chi un altro, ma lui era come suo padre, e suo padre come suo nonno, e mio fratello come loro.
Nonostante gli sforzi, i bei momenti, le risate di un attimo tranquillo… sarebbero sempre tornati sui loro passi, e la cosa a volte mi rattristava.
Fortuna che ero come mia madre, saggia donna! Lei sì che aveva un sorriso paragonabile alla volta celeste!
Scossi la testa e mi voltai verso Adam.
Il giorno in cui seppi della loro nascita non fu uno dei più belli; pioveva a dirotto, fuori era buio, ed in casa c’era un gran silenzio. Però, quando vidi la dolce boccuccia di Katie aprirsi in un tenero e spontaneo sorriso, parve di colpo spuntare il sole. Avevo sempre desiderato una sorellina, tanto che con lei passai la maggior parte del mio tempo per i successivi quattro anni - nonostante le continue proteste della madre.
Sbadigliai e tornai a guardare fuori dalla finestra; ettari di terre coltivate si estendevano per chilometri attorno a noi. Case, capanne, vigneti, alberi… ed un’ombra.
Un’ombra strana, piccola ed agile, che si muoveva lesta tra un cespuglio e l’altro.
Aveva qualcosa tra le braccia.
Saltai giù dal legno e spalancai la finestra con entrambe le mani in un unico colpo. Sarebbe stato un salto di almeno tre metri, ma non potevo permettere ad un ladro di lasciare il mio giardino con qualcosa di mia proprietà.
Chiusi gli occhi e saltai alla cieca, per poi atterrare in ginocchio dietro un piccolo melo.
La vidi correre ancora, da destra a sinistra; poi più avanti, da sinistra a destra.
Ma che sta facendo?
Di stare ancora a guardare non se ne parlava, e chi meglio di me poteva conoscere quel posto?
Le corsi incontro, tagliando da una stradina fatta interamente di ciottoli, e le arrivai avanti.
Per poco non mi finii addosso.
“Fermo! Chi sei, cosa vuoi? Che hai tra le mani?” le domandai, allargando le braccia per non farla scappare.
Il suo volto era coperto da un cappuccio di stoffa vecchia, simile a quello che si usava nei pellegrinaggi, ma una ciocca di capelli castani era ancora visibile sul lato destro.
“La prego signore, non mi faccia del male” disse, chinandosi verso terra.
Mio padre una volta mi aveva detto che le persone più candide sono quelle che riconoscono da subito i propri errori; lei lo stava facendo, no?
“Non voglio farti del male, ma alzati e dimmi chi sei. Soprattutto, mostrati, e mostrami le tue mani”.
Lei –perché di una lei si parlava- si alzò e si tolse il cappuccio senza alcuna esitazione.
Non riuscii, come con Anna, a giudicare il suo aspetto; era magra, decisamente mal nutrita, ed aveva profonde fosse sotto gli occhi scuri. I capelli, del medesimo colore, sembravano crespi e sporchi. Gli abiti, coperti in parte dal mantello, rivelavano il suo ceto sociale: plebe.
“Mi chiamo Julie, signore;” un nome strano per una povera. “ vengo dalla cittadina a pochi chilometri da qui, ma non è la prima volta”.
“Ed hai anche il coraggio di dire che non è la prima volta che vieni a derubarmi?”.
“Oh no signore,” disse scuotendo vigorosamente la testa. “non avrei mai potuto. Cerco solo del cibo, avanzi o quel che ne resta”.
Lasciai ricadere le braccia lungo i fianchi e la vidi sospirare; “Dunque ora puoi mostrarmi le mani, vero?”.
E lei, ancora una volta, lo fece senza esitazione: stringeva, tra la pelle screpolata, due mele ancora acerbe e piccole; erano rosse, le mani, come sporche di sangue. “Hai mangiato anche le ciliegie?”.
“Era la fame, altrimenti giammai mi sarei permessa. Ne avete così tante… tre in più, ho pensato, non avrebbero potuto fare molta differenza per voi”.
“Ed hai pensato bene, ma anche se avessi bussato alla porta ti avremmo offerto aiuto”.
Lei annuì, senza però alzare lo sguardo dai piedi nudi. “Qualcosa non va? C’è altro che dovrei sapere?”.
“Oh no, è stato così clemente con questa povera sciagurata…”.
“E allora perché non alzi lo sguardo?”.
La vidi indugiare stavolta; “Vede, lei è quasi nudo… non vorrei sembrarle indiscreta o sfacciata o quel che so di non essere. Brava gente la mia, mi ha insegnato il rispetto, spero lei intenda…”.
Sorrisi: “Certo, intendo. Ma seguimi, per stanotte sei mia ospite”.
 
La villa era buia, le candele per la maggiore spente. “Naima, sei sveglia?” urlai dall’ingresso, ma non ebbi cuore di svegliare quella povera donna per servire una sconosciuta.
“Entra, siediti pure sul divano. Ora accendo il fuoco, così potrai scaldarti”.
“No signore, la prego, no. Niente fuoco, io… preferirei una coperta invece, ne avete?”.
Di certo non mi aspettavo una simile richiesta, ma “si, te la vado a prendere”.
Nonostante la grandezza della casa, nonostante le cinque camere da letto, i tre bagni, la camera di Naima, la cucina, il salotto, la sala da pranzo e lo studio… di posti in cui farla dormire non avevo. Pensai di lasciarla davvero sul divano, ma almeno mi sarei coperto con una maglia di pigiama in sua presenza.
Tornai di sotto con l’unica coperta rimovibile, quella del mio letto, e gliela porsi gentilmente. Questa volta alzò lo sguardo e mi sorrise; vidi negl’occhi la gratitudine di una bestia che viene salvata da un potente.
“Non aver paura di chiedere quello che vuoi, sono a tua completa disposizione”.
Le andai a prendere una ciotola d’argilla in cui avrebbe potuto mettere le due mele che aveva raccolto più mezzo pezzo di pane da me offerto. Le misi avanti anche del formaggio fresco ed un bicchiere di latte di capra tiepido, il minimo che avrei potuto darle.
“E’ gentile”.
“Dammi del tu. Te ne sorprendi?”.
“A dire il vero, sì. E’ il primo -sei il primo- a trattarmi così. Sono vista come una zecca, un qualcosa da evitare, ma la realtà è che sono semplicemente più sfortunata”.
“Capisco… e come mai non lavori?”.
“Lavoro? Non ce ne è mica da queste parti”.
“Trasferisciti, va via, trova un nuovo posto. Che ti costa?”.
“Costa la casa, il mezzo di trasporto… e costa di salute a mio fratello”.
“Hai un fratello più piccolo?”.
“Diciotto anni”.
“E tu quanti ne hai?” chiesi, improvvisamente colto dalla curiosità di sapere.
“Quindici appena… posso chiedere di te?”.
“Diciassette. Ho un fratello più grande, dell’età del tuo, e due più piccoli di sette anni”.
Lei annuì e bevve un sorso dal bicchiere.
“Non hai fame?” le chiesi, vedendo il piatto ancora immacolato.
“Sai… quando non mangi molto, prima o poi il corpo si adatta. Se adesso mangiassi tutto questo, domani avrei più fame di oggi, ma nessuno mi sazierebbe”.
Provai pena nel vederla così combattuta. Si capiva che, mentre da una parte avrebbe voluto guastare quelle pietanze, dall’altra sapeva di non poterlo fare. Mi immaginai nella sua situazione e sospirai, sicuro che non sarei sopravvissuto neanche una settimana.
Col passare del tempo, tra una domanda ed un’altra, capii di quella ragazza più di quanto avevo capito di mio fratello in diciassette anni. Era orfana da un paio d’anni e suo fratello si era ammalato da poco più di un mese di non sapeva quale malattia, troppo poveri per chiedere un parere medico, e pregava ogni notte che lo ritrovasse vivo al mattino; vivevano in una vecchia capanna di legno, costruita dal padre ed usata in principio come stalla per una vacca ed una pecora che avevano poi dovuto cedere per denaro. Avevano un cane, Belle, una sorta di guardiana; era lei che restava con il fratello in sua assenza e, in caso di pericolo, era addestrata ad abbaiare. Lei usciva di notte per cercare cibo e di giorno si offriva di aiutare negozianti ed altri uomini in cambio di pochi spicci; ma, da come mi aveva detto, non sempre tutti rispettavano gli accordi e lei si trovava a lavorare gratuitamente.
“E’ orrendo” le confessai. “Non credevo che la situazione fosse così disperata qui accanto”.
“Non per tutti però… c’è anche chi sta bene”.
Annuii ed in testa mi ripromisi di aiutarla. “Pensi di potermi mostrare dove vivi?”.
“Certo, ma magari un altro giorno…tra poco sarà l’alba, non vorrei che Nathan si preoccupasse”.
E lasciai che se ne andasse via proprio come era arrivata, lasciandomi solo ad osservare il formaggio che si scioglieva sotto i dolci raggi del sole mattutino. 
   
 
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