Premessa. Questa
storia è suddivisa in due one-shot ed è stata scritta
per l’iniziativa “Ready, Set, Prompt!” indetta dal gruppo facebook
“The Capitol”.
Il prompt che ho utilizzato è la canzone “A pugni col mondo” degli Articolo 31. Entrambe le one-shot sono ambientate dopo la rivolta, durante il
periodo che Gale trascorre nel Distretto 2. I protagonisti di questa prima
parte sono Gale, il suo futuro migliore amico Quinn
e Aris,
il figlio di nove anni del Comandante dell’Accademia frequentata da Gale nel
mio head-canon, già comparsi rispettivamente in “Goodbye, my lover” e “Guerriero”.
Il War-R!ot
(R!ot) è un locale localizzato, come già accennato
nelle storie appena citate, di fianco all’Accademia di aeronautica militare e
durante il suo periodo di addestramento Gale vi ha bazzicato parecchio, proprio
assieme a Quinn e Aris. Dietro il locale si organizzavano tornei clandestini di
pugilato e Gale, qualche volta, vi ha partecipato: la prima one-shot
racconta proprio uno di questi incontri.
A Pugni col Mondo
«Certe
sere tiene il fiato tanto che
la fine
sembra lì a un secondo
e non
crede più alle favole perché
ora fa a
pugni con il mondo.»
A pugni col mondo – Articolo 31
Non fa nulla per evitarlo.
Le nocche del suo avversario colpiscono di sbieco, spaccando l’angolo
sinistro del labbro superiore.
Gale sbatte la schiena contro qualcuno dietro di lui, ma un paio di braccia
più scure delle sue tornano a spingerlo al centro del ring.
Non è la prima volta che partecipa a un incontro di boxe, e nemmeno la
seconda; sono ormai settimane che, con una scusa o l’altra, Quinn e Aris lo
trascinano sul retro del R!ot – il pub di fianco
all’Accademia – per assistere a qualche
incontro clandestino di pugilato. Il
primo a buttarlo nella mischia era stato proprio Aris, quando ancora si
conoscevano poco o niente. Gli aveva alzato il braccio nel momento in cui
l’arbitro cercava volontari e l’ultima cosa che ricorda dopo quel momento sono
i suoi pugni che mulinavano senza regole né schemi e il dolore che si
diffondeva nel suo corpo, azionato da colpi ben assestati.
E poi la rabbia, la frustrazione. E infine la pace. Il dolore gli aveva
ribollito in corpo fino a evaporare, trascinandosi dietro la collera e il senso
di colpa.
Così era tornato, torneo dopo torneo.
Quinn aveva incominciato ad allenarlo, a dargli qualche dritta perché
imparasse a combattere di testa e non solo guidato dalla rabbia e
dall’impulsività.
Quella sera, tuttavia, la sua mente è altrove e il suo corpo è vulnerabile,
così l’avversario ne approfitta.
Un fischio di scherno si mescola alle incitazioni dei presenti e Gale
intuisce all’istante che non è indirizzato a lui, perché la persona che l’ha
emesso è la stessa che l’ha ributtato sul ring, stringendogli incoraggiante le
spalle prima di lasciarlo andare: Quinn ha i denti digrignati come sempre,
quando è nervoso, e i suoi pugni si agitano nell’aria in un vano tentativo di
incoraggiare quelli dell’amico a fare altrettanto.
Al terzo pugno che Gale incassa senza ribattere, le mani dell’ex-soldato si
uniscono a formare una T.
“Basta così” esclama, scuotendo una spalla dell’arbitro. L’altro si
divincola con fare seccato e lo spinge indietro.
“Vuoi fare il mio lavoro, Gancio? L’ultima volta che ho controllato a decidere
quando interrompere ero io” lo rimbrotta, seccato.
“L’ultima volta potresti anche esserti controllato quanti peli avevi sul
culo, per quanto mi riguarda, me ne fregherebbe allo stesso modo. Fuoco[1]
ha qualcosa che non va, c’è bisogno di una pausa.”
L’arbitro sbuffa seccato e scuote la testa, prima di approvare la
sospensione dell’incontro; Quinn potrà anche comportarsi da rompipalle la
maggior parte delle volte, ma Gale sa bene che è difficile trovare qualcuno da
quelle parti che abbia voglia di attaccar briga con lui: in fondo negli
incontri di pugilato Quinn “Gancio” Damienson resta il
campione indiscusso.
Gale si lascia cadere su una sedia, subito circondato da un gruppetto di
spettatori infastiditi – gente che probabilmente ha scommesso su di lui.
Strizza gli occhi e si passa il guantone sul labbro spaccato, sperando che, a
palpebre riaperte, la folla sarà scomparsa; non ha alcuna voglia di starsene in
Time-Out. Si sentiva meglio prima, tra le grinfie del muscoloso coinquilino di
ring.
Riapre gli occhi e quasi sbatte contro la testa riccioluta di Quinn. Lui e
Aris sono chini sulla sua sedia e gli gridano all’orecchio qualcosa che per
l’irritazione non riesce ad afferrare.
“Beh?” esclama il più grande dei due dopo un po’, facendo ciondolare la
testa dell’amico. “Hai finito di fare la donnicciola?”
“Ancora non l’hai capito?”
Questa è la voce più acuta e leggermente grattata di Aris, che pianta gli
occhi scuri e brucianti di rabbia dentro quelli di Gale. “Lo sta facendo
apposta; vuole farsi fare il culo, per
sentirsi a posto con se stesso.”
Le parole di Aris suonano talmente ridicole che Gale non può fare a meno di
ridere.
“Perché mai dovrei farmi picchiare?” chiede, prima di chiudere gli occhi di
scatto, trafitto dal male alla testa.
Trattiene il fiato, concentrandosi sul labbro che pulsa e il dolore che
avverte in tutto il corpo. E intanto pensa: pensa a tutto ciò che ha cercato di
spingersi via di dosso con i pugni, ma che è radicato in lui così in profondità
da non poter essere estirpato. Pensa ad Aris, che è così piccolo quanto sveglio
e alla rabbia, al senso di colpa che prova verso se stesso.
Pensa che quel giorno non è in Accademia, perché è passato un anno esatto
dalla fine della Rivolta: dal giorno del disastro a Capitol
City e dalla morte di più di duecento bambini, tutti al di sotto dei quindici
anni.
Pensa ai suoi compagni soldati che festeggiano il giorno di esonero dalle
lezioni e tutto a un tratto la voglia di tornare sul Ring è più forte di prima.
Vuole colpire e avanzare fino a sfogare ogni tizzone di rabbia contro le
ossa del suo avversario; ma vuole anche essere lui a spezzarsi.
Perché ogni pugno è un esplosione e ogni lamento è il pianto di un bambino
la cui vita è finita in brandelli per causa sua. Ciascun urlo è il grido disperato
di una donna – una madre, una sorella –che ha visto suo figlio prendere fuoco
di fronte ai suoi occhi senza poter fare nulla per accorrere in aiuto.
Per questo, Gale incassa i pugni e fa male e fa bene.
Ma potrebbe fare più male; vorrebbe sentire più male.
Concentrare il dolore all’esterno, per strapparsi via da dentro quella
tenaglia che lo punge a sorpresa ogni volta che il suo sguardo incrocia quello
di un ragazzino. Ogni volta che intravede qualcuno con una treccia. Ogni volta
che parla con suo fratello Rory al telefono e non può fare a meno di notare che
i suoi modi scherzosi sono solo l’ombra un po’ fievole di ciò che erano stati
in passato.
Ma poi i pugni arrivano, lui cade a terra. E fa male, e sta meglio.
Si graffia via dalla pelle quelle favole in cui credeva da bambino; quei
racconti di libertà e ribellione con cui è cresciuto, ma che non ha saputo
coltivare a dovere.
Uno schiaffo leggero lo distrae da quei pensieri. Quinn gli è di fronte, le
mani appoggiate poco sopra il suo collo.
“Che ti succede?” domanda. I suoi occhi verdi, generalmente facili da
guardare, si fanno impegnativi, perché accompagnati da un’espressione seria, da
uno sguardo insolitamente apprensivo. Gale volta la testa e fissa il ring,
sfuggendo a quell’occhiata. “Vedi di tirare fuori un po’ di grinta, va bene?”
Gli dà un buffetto su una guancia e Aris si fa avanti per imitarlo; solo,
che il ragazzino lo schiaffeggia più forte, come se stesse cercando di
svegliarlo.
Gli occhi scuri di Aris tornano a cercare i suoi con rabbia e, leggendo la
delusione nel suo sguardo, Gale non può fare a meno di riscuotersi. Guardando
Aris, lo scenario di guerra nella Capitale torna a farsi vivido e il frastuono
dei presenti si fa ovattato, per lasciare il posto al boato delle esplosioni. Il
sangue che gli sporca la parte inferiore del volto diventa quello di qualcun
altro, qualcuno non più grande del bambino che ha di fronte. La vergogna e la
rabbia mettono la colla sulle ferite che si è provocato grattandosi via di
dosso le vecchie favole di ribellione che l’hanno ridotto così.
Poi si alza, annuisce a Quinn. Arruffa i capelli di Aris.
A quelle favole lui non ci crede più, ma è nato per muoversi e generare
burrasca, così ancora una volta si fa avanti verso l’avversario.
Non trattene più il fiato in attesa della fine: colpisce e basta, anche se
ha male dentro e ogni gancio è una miniera che si sgretola e lui è sulla punta,
in attesa che il polverone sollevato soffochi i minatori al suo interno.
E fa male, lo uccide, ma continua a farsi avanti.
E a fare a pugni con il mondo.
[1] “Fuoco” è il soprannome che Quinn ha
affibbiato a Gale quando erano entrambi allievi all’Accademia di aeronautica
militare. Quinn si è poi fatto espellere dopo qualche mese per cattiva
condotta.