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Autore: iRy921    13/01/2009    0 recensioni
Angeli dei mondi. Esseri diversi, eletti in un certo senso, che custodiscono nel cuore la chiave per aprire le Porte dei mondi.
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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angelo dei mondi

Un breve racconto, la mia prima (e sperando che non sia l'ultima) opera compiuta.

 

Alla mia dolce Mel,

mia preziosa compagna

di avventure reali e fantastiche.

Mi hai ispirato questo racconto

in un giorno grigio

e apparentemente

senza importanza.

 

 

Melanie guardò fuori dal finestrino dell’aereo. Il cielo infinito era colorato d’arancio verso l’orizzonte e le nuvole soffici avevano tinte rosa e violette che stemperavano nel bianco. Già il tramonto. Già un giorno intero era passato. E il dolore non si era ancora affievolito, la sensazione di sentirsi in trappola non l’aveva lasciata nemmeno per un secondo. Combatté testarda contro le lacrime che le pungevano gli occhi. In realtà una battaglia persa in partenza dato che prima o poi le piccole gocce salate avrebbero avuto di nuovo la meglio, ma solo allora si sarebbe crogiolata nella sua sofferenza. Non ora. Adesso si doveva concentrare sulla sua determinazione – si rifiutava di definirla vigliaccheria –, la stessa che l’aveva indotta ad andarsene.

    Melanie è immobile. Il suo respiro è sicuro, leggerissimo. È una missione semplice, quasi banale. Ne ha affrontate talmente tante di simili a questa che quasi non sente più l’ormai familiare adrenalina che circola nel sangue. La luce arancio del tramonto illumina la scena: una ragazza sui diciotto anni, minuta e con lunghi capelli castani legati in una coda di cavallo, apparentemente in attesa di qualcosa, la schiena contro un muro, lo sguardo fisso sulla strada deserta dietro l’angolo. Un pugnale nel suo fodero le pende dalla cintura. Aspetta un segnale dalla sua compagna, Marina. Quando Marina avrebbe apertola Porta, i demoni non avrebbero tardato ad arrivare. E allora li avrebbero eliminati, impedendo loro di chiudere il prezioso passaggio.

    Un bagliore comincia a brillare a mezz’aria, in mezzo alla strada. È iniziata. Melanie chiude e riapre le mani per tre volte, pronta a scattare. Passano i secondi, ma non accade nulla. L’inquietudine si fa strada nel suo cervello, annebbiando i suoi pensieri. Perché non arrivano?, si chiede. È strano. Molto strano.

    Ad un tratto qualcosa di scuro e inerte viene scagliato da un tetto di una casa vicina proprio davanti alla Porta ormai completamente aperta, un ovale luminoso, fluttuante qualche centimetro da terra. L’odore di morte e una sensazione di gelo invadono Melanie. Ha un brutto presentimento. Si concentra sulla sagoma immobile e capisce all’istante che è un corpo umano, probabilmente morto. Una voce lapidaria dentro di lei le suggerisce l’identità dell’uomo, ma non vuole crederci. Muove un passo insicuro fuori dal suo nascondiglio, poi un altro e un altro ancora. Ogni metro percorso non fa che confermare la conclusione cui il suo subconscio è già arrivato. Quando ne è certa, si mette a correre. La sua prudenza è nulla, come la voce della sua compagna che le urla di fermarsi, che è una trappola. Il mondo è solo un involucro vuoto. Si getta con foga sul corpo, su Luca, il suo migliore amico di sempre. Gli cerca con foga il battito del cuore, ma non sente nulla, nemmeno il più debole fremito vitale. Si sente la terra crollare sotto i piedi, mentre guarda con gli occhi pieni di lacrime il viso senza vita di Luca, pallido nella luce morta del crepuscolo. Non le importa di Marina che sta combattendo contro cinque demoni da sola, non le importa se quelli riusciranno a chiudere la Porta per sempre. Ciò che conta è solo che non potrà mai più parlare con Luca, perché gliel’avevano portato via e lei, imprigionata nella gabbia della sua esistenza e della sua ignoranza, non era stata in grado di impedirlo.

    Per questo se n’era andata. Per quello e un centinaio di altri motivi, un migliaio di dubbi che ogni giorno della sua vita le avevano attraversato la mente come secchiate di acqua gelida e che lei aveva ignorato con tanta ostinazione. Domande destinate a rimanere senza una risposta, come per esempio il perché della sua missione, il perché del suo stesso esistere. Melanie era un angelo dei mondi; un essere diverso, eletto in un certo senso, che custodisce nel cuore la chiave per aprire le Porte dei mondi. Anche Marina era un angelo e insieme avevano il compito di preservare le Porte, di proteggerle, e di eliminare i demoni il cui intento era di chiudere i passaggi tra un mondo e l’altro. Il tutto senza sapere il motivo del loro agire, senza sapere quali sarebbero stati i frutti delle loro fatiche. Semplicemente un giorno avevano capito cos’erano e imparato con l’esperienza ciò che la loro stessa natura si aspettava dagli angeli. Dovevano anche rispettare una miriade di regole, istinti innati a esseri uguali a loro: non oltrepassare le Porte, non fraternizzare coi demoni, non parlare a nessuno della propria vera natura… Più che regole, divieti in realtà. E Melanie aveva disobbedito ad uno di questi in particolare. Aveva confidato ogni cosa della sua missione e della sua esistenza segnata al suo migliore amico. E i demoni l’avevano ucciso e usato come esca sapendo che così l’avrebbero ferita a morte. Melanie non l’aveva sopportato. Non era riuscita a tollerare l’idea di non sapere se la morte di Luca fosse valsa a qualcosa, se la sua perdita avrebbe portato ad un risultato. Era stanca di combattere per l’incertezza. Si sarebbe costruita una nuova vita, lontana dai dubbi e dal dolore.

    Arrivò a Tokyo quando era tarda sera, dopo circa una ventina di ore di volo ed era sfinita. In Italia erano più o meno le tre del pomeriggio, ma non aveva la minima intenzione di chiamare a casa. I ponti andavano recisi completamente se si volevano evitare i ripensamenti.

    Per quanto Melanie fosse stanchissima il suo viaggio non era ancora terminato: le restava da raggiungere il piccolo appartamento che aveva affittato in periferia. Chiamò un taxi perché non se la sentiva proprio di affronta i mezzi pubblici; avrebbe rimandato l’incontro al mattino seguente, quando si sarebbe recata alla ricerca di un lavoro.

    Quando giunse all’appartamento era ormai mezzanotte passata. Entrò nel piccolo bilocale al terzo piano di un condominio, si diresse immediatamente verso il minuscolo bagno, abbandonando i bagagli nel salotto-cucina – una poltrona sgualcita di fronte a una TV il cui funzionamento era alquanto dubbio, affiancate ad un piano cucina in un angolo – e si tuffò sotto la doccia, impaziente di essere investita dal getto bollente. Uscita dalla doccia si infilò della biancheria pulita e una vecchia maglietta e si abbandonò sul letto, esausta. Infine scivolò in un sonno ristoratore e senza sogni.

    Il giorno seguente Melanie si svegliò piuttosto tardi. Si sentiva ancora tutta indolenzita. Si stiracchiò pigramente e poi si rannicchiò stringendosi le ginocchia al petto, cercando di contenere il dolore che minacciava di bruciarla e di sfociare in un incendio. Le lacrime le pizzicarono nuovamente gli occhi e questa volta non le fermò. Permise a se stessa di sfogarsi, di riversare una minima parte della sua sofferenza all’esterno. In quel momento ebbe la certezza che i seguenti sarebbero stati giorni lunghi.

    Non aveva la minima idea di dove poter trovare lavoro. Tokyo era una città del tutto simile a quelle occidentali a lei familiari: palazzi moderni torreggiavano ovunque e sembravano quasi voler soffocare la miriade di persone che si muoveva indaffarata, incurante di ogni cosa esclusi i loro lavori e le loro piccole preoccupazioni di tutti i giorni. Tutti avevano fretta e fortunatamente nessuno mostrava interesse per lei, per quanto i suoi tratti somatici fossero palesemente differenti da quelli della maggior parte della gente. Tanto meglio. Melanie voleva nascondersi, in un certo senso sparire, annullarsi nella foga di adattarsi a una nuova vita il più in fretta possibile e smettere di soffrire. Non doveva essere troppo difficile.

    Non sapeva nemmeno una parola in giapponese, fatta eccezione per qualche frase banale e i numeri. Forse poteva sperare di trovare un impiego come commessa in un supermercato, ma ne dubitava. Era più probabile trovare un posto come addetta alle pulizie: pochi contatti con la gente e nessuna necessità di interagire. In ogni caso si sarebbe accontentata; non era esattamente il momento per fare gli schizzinosi perché i risparmi che aveva con sé non sarebbero durati in eterno. Perciò quando quella sera ritornò al suo appartamento con un impiego in un piccolo supermercato era più che soddisfatta. Aveva passato tutta la giornata a girovagare a caso per le strade affollate e afose (era piena estate), entrando in supermercati e bar, presentando la sua situazione nel miglior inglese di cui era capace e alla fine la sua ricerca era stata premiata.

    Ma si sentiva sola. Tremendamente sola. Marina e Luca non erano gli unici amici che aveva in Italia. C’erano tante persone a cui voleva bene e che proprio in quel momento probabilmente si stavano chiedendo dove fosse finita. Se n’era andata senza dire niente a nessuno, né alla sua famiglia né ai suoi amici. Non che dei parenti le importasse molto. Non era mai stata attaccata a loro in particolar modo. Certo, provava l’affetto incondizionato che accomuna quasi ogni famiglia, ma non erano i parenti che le mancavano terribilmente. Molte volte ne avrebbe fatto volentieri a meno. No. Erano i suoi amici. Fin da quando era piccola aveva imparato ad appoggiarsi a loro, a voler loro un bene enorme, a confidarsi e a quasi dipendere da loro. Gli amici erano sempre stati una presenza fondamentale nella sua vita e ora non erano con lei. Le mancavano terribilmente. Era quasi come sentirsi fuori dal mondo, completamente ignara di ciò che stava succedendo alle persone che amava. E il fatto di trovarsi in una città straniera, nuova, in un certo senso esotica e quasi ostile, non faceva che aumentare il senso di solitudine. Non conosceva nessuno, non aveva niente di vagamente familiare e conosciuto cui aggrapparsi. Costruirsi una nuova vita partendo solo dalla consapevolezza della propria esistenza nell’immenso mondo non era per niente un’impresa facile. Avrebbe dovuto cominciare da zero, senza l’aiuto di nessuno. Non sapeva se poteva farcela, se era in grado di creare qualcosa dal nulla, di ambientarsi in una città e in uno stato completamente estranei e diversi. La cultura era diversa, la mentalità e l’ordinamento giuridico ed economico erano diversi. C’erano così tante cose che ignorava. Si sentiva piccola e insignificante in un mondo altero e impassibile. E mentre il tempo scorreva lei si trovava ancora ferma al punto di partenza, incapace di muovere anche un solo passo utile, incapace di fare qualsiasi cosa avrebbe potuto migliorare la sua condizione. Semplicemente se ne stava lì, inerte, ad aspettare che lo stesso mondo la degnasse di una piccola occhiata o di un’insignificante attenzione.

    Appena cominciò a lavorare la sua vita assunse un ritmo costante e monotono, in cui affogava i ricordi, la tristezza e la nostalgia, la solitudine e la sua stessa natura di angelo.

Un giorno però un ragazzo circa dell’età di Melanie decise di rompere la sua preziosa monotonia. Non che l’avesse stabilito consapevolmente, ma in ogni caso lo fece. Aveva giusto finito di pagare ciò che aveva comprato al supermercato quando lesse il nome sul cartellino di Melanie e le chiese in inglese:

    «Vieni dall’Inghilterra?».

    «No, dall’Italia», rispose Melanie, sempre in inglese e conscia del fatto che il suo nome non era molto comune nel suo paese.

    «Wow!», esclamò il ragazzo con un guizzo negli occhi verde scuro, «Qui a Tokyo non si vedono molte italiane!».

    Era un ragazzo alto, i tratti del volto tipicamente giapponesi, occhi a mandorla, una carnagione molto chiara e capelli scurissimi e lucidi.

    «Ho sempre desiderato imparare l’italiano», continuò, «non è che ti andrebbe di darmi qualche lezione? Sempre se non è un disturbo».

    Melanie non seppe cosa rispondere. Rimase un attimo a guardarlo, senza parole. Da quando un ragazzo che nemmeno conosci ti chiede di dargli lezioni di italiano? Doveva essere un tipo particolare.

    «Ho intenzione di pagarti», aggiunse come per cercare di convincerla. In realtà non era quello che dava da pensare a Melanie. Era che quel ragazzo con neri capelli lucenti, il viso gentile e denti bianchissimi l’attirava.

    «Be’… se proprio insisti… sarò felice di darti delle lezioni», acconsentì.

    «Io sono Kai, comunque», si presentò il ragazzo prima di spostarsi: aveva formato una fila piuttosto lunga dietro di lui.

    Kai aspettò finché Melanie non ebbe un momento libero in modo che potessero scambiarsi i numeri di telefono e accordarsi sulle lezioni.

    Quella sera Melanie, seduta davanti al televisore, si sentì un po’ meno sola.

    Dal giorno seguente la vita di Melanie cominciò ad assumere una monotonia un poco diversa dalla precedente. Ogni giorno era uguale all’altro, ma passava nell’attesa delle lezioni che avrebbe dato a Kai. Lui era un ragazzo brillante e intelligente e Melanie adorava parlare con lui. E parlavano tanto. Alla fine di ogni lezione rimanevano insieme ancora per parecchio tempo e ben presto scoprirono di avere molto in comune. Amavano entrambi il mondo del fantastico e trascorrevano ore a fare congetture sul prossimo episodio del loro anime preferito. Melanie era affascinata da Kai anche perché lui era molto sicuro di sé, sapeva esattamente cosa voleva dalla vita e non perdeva mai la speranza di riuscire ad avverare i suoi sogni. Che fosse la carriera che aveva sempre sognato oppure ciò che avrebbe mangiato il giorno seguente, poco importava. Cercava sempre di fare diventare realtà ciò che desiderava.

    Un paio di volte Kai aveva cercato di sapere qualcosa di più sul passato di Melanie, in particolare, com’era prevedibile, era interessato ai motivi che l’avevano spinta a emigrare in Giappone.

    «È così insolito che una ragazza italiana decida di trasferirsi a Tokyo così, di punto in bianco», diceva. «Devi avere avuto dei motivi più che validi, no?». Puntualmente Melanie schivava l’argomento dando qualche risposta vaga e breve e poi cambiava velocemente discorso. Dopo un po’ Kai aveva capito che Melanie non voleva parlare di quel particolare momento del suo passato e non le aveva più fatto quelle domande. Melanie le era grata per questo. Non sopportava di soffermarsi sui tristi ricordi se non quando era da sola e non voleva assolutamente sfogarsi con Kai e costringerlo ad ascoltare tutti i suoi infelici piagnistei. Non lo riteneva giusto.

    Un giorno Kai le propose di andare a una festa: «Più che altro è una manifestazione. È una celebrazione tipicamente giapponese. Ci si riunisce nel centro di Tokyo dove ci saranno bancarelle con prodotti tipici e la sera tutto sarà illuminato da torce. E ci saranno anche i fuochi d’artificio!». Era palesemente su di giri.

    «Va bene, ci sto», aveva acconsentito Melanie alla fine, dopo l’insistenza pressante di Kai.

    «E… se vuoi ti posso accompagnare a prendere un vestito, un kimono, l’abito tipico giapponese. Lo indosseranno tutte le donne», aveva proposto con un’espressione sdolcinata, fatta apposta per riuscire a convincere Melanie, che dopo vane e deboli resistenze aveva assentito. In realtà la incuriosiva l’idea di vestirsi con abiti tradizionalmente giapponesi e per una volta non venire guardata come “la straniera” o “la diversa”. Semplicemente confondersi nella folla e assaporare qualche ora in modo spensierato, come non faceva da molto tempo. Forse troppo.

    Qualche giorno dopo Melanie si ritrovò davanti alle porte di un negozio di kimono. Kai era al suo fianco e sorrideva sornione al pensiero di ciò che le avrebbe visto indosso qualche minuto dopo. Melanie non sapeva davvero da che parte cominciare. C’erano kimoni di molti tipi e fogge diversi. Negli anime di solito apparivano tutti uguali, a parte le fantasie colorate. Invece ne esistevano di lunghi e corti, alcuni più larghi e alcuni più stretti, con nastri e fasce che si allacciavano in mille modi e posti diversi. Alla fine Melanie decise di scegliere basandosi sui colori e poi avrebbe chiesto un parere a Kai. Scelse un kimono color azzurro cielo, con un unico, grande fiore rosso ricamato sul davanti. A lei appariva molto bello. Si girò e cominciò a cercare Kai con lo sguardo, per chiedergli un’opinione. Ma non furono gli occhi verde scuro del ragazzo che incontrò. Fu un paio di occhi grigio-azzurri, infiammati e stanchi. Gli occhi di Marina. Cosa ci faceva lì? Come aveva fatto a trovarla? Era impossibile. Eppure lei era lì, la sua figura alta e un po’ gracile, i suoi capelli corti e biondi, i lineamenti che l’avevano sempre guardata con affetto ora sembravano volerle dare fuoco. Era arrabbiata. Molto. Ed era estremamente difficile farla arrabbiare, Melanie lo sapeva bene. E se c’era riuscita, voleva dire che senza accorgersene aveva ferito Marina nel profondo, nei suoi ideali e nelle sue convinzioni.

    Kai intanto aveva visto che Melanie aveva in mano un kimono e si era avvicinato per dare un’occhiata.

    «Questo è molto bello. Perché non lo provi?», commentò, incurante del fatto che Melanie in quel momento aveva tutt’altro per la testa.

    «Ehi, ma che ti prende?», chiese quando si accorse che Melanie stava guardando fisso negli occhi Marina. Si fermò a guardare la nuova arrivata con espressione interrogativa e poi sibilò: «La conosci?». Melanie si limitò ad annuire. «Okay. Allora chiamami», disse e se ne andò. Melanie apprezzò il suo tatto. Ripose il kimono che aveva fra le mani e si avvicinò a Marina.

    «Cosa ci fai qui?», sbottò senza nemmeno salutarla. Non voleva essere così aggressiva, ma era un po’ il suo modo di difendersi dallo sguardo furioso dell’amica.

    «Ti sembra la domanda più giusta, Mel? Io direi piuttosto: che cosa ci fai tu qui?», rispose Marina con altrettanto sgarbo. Doveva essere proprio furibonda.

    «Io vivo la mia vita come meglio credo e tu dovresti lasciarmi in pace, Mary».

    «Lasciarti in pace? Lasciarti in pace?». Sembrava che urlasse, solo che stava sussurrando. Vibrava di furia repressa. «Ti rendi conto di cosa mi hai fatto passare? Hai una vaga idea di quanto mi sia preoccupata per te? Hai mai pensato anche solo per un nanosecondo a cosa hai fatto passare a tutte le persone che ti vogliono bene e che hai lasciato in Italia quando sei partita senza nessuna spiegazione?».

    Forse aveva ragione. Per quanto tempo ancora pensava di poter continuare a nascondersi in Giappone? Probabilmente più di così.

    «Se vuoi possiamo andare a casa mia a parlare», disse Melanie in un sussurro. Magari lungo il tragitto Marina si sarebbe calmata.

    Arrivarono fin troppo presto, o almeno così parve a Melanie. Non era pronta ad affrontare le accuse di Marina, soprattutto perché sentiva che in parte l’amica aveva ragione e che non avrebbe avuto argomenti a favore del suo viaggio. Appena entrate in casa cominciarono a discutere. Non si sedettero nemmeno.

    «Che cosa ti è saltato in mente?». Questa volta Marina urlava davvero. «Ci ho messo un mese, un mese, per riuscire a trovarti. Giorni e giorni passati a spremermi i cervello per riuscire a captare un minimo segnale e avere il più piccolo indizio sulla tua posizione. Sono arrivata anche a pensare che fossi morta, visto che non sentivo il contatto con te. Non pensavo che avessi potuto davvero andare così lontano. Sei semplicemente incredibile. Non avrei mai creduto che fossi capace di tanta vigliaccheria…».

    «Vigliaccheria?», Melanie la interruppe. La sua intenzione era di fare sfogare Marina, ma non voleva che tutti i suoi sforzi per integrarsi in uno stato diverso dal suo fossero definiti “vigliaccheria”. «Tu non hai la minima idea di ciò che ho passato, non hai la minima idea della solitudine e degli sforzi che ho fatto per ritagliarmi un piccolo spazio in questa maledetta città. Un piccolo angolo in cui poter stare in pace, senza più obblighi da affrontare, senza più demoni da uccidere, senza più combattimenti per un risultato incerto. Ero stanca! Non ce la facevo più!».

    «Prova per un secondo a pensare a come sarebbe stato difficile se invece che nasconderti all’altro capo del mondo fossi rimasta, affrontando la situazione che avevi davanti. Metti a confronto ciò che avresti sopportato e quello che invece hai sofferto qui e chiediti quale delle due opzioni sarebbe stata più ardua». Rimase qualche attimo in silenzio per dare a Melanie il tempo di riflettere. Questa non rispose, conscia del fatto che probabilmente rimanere in Italia e fare i conti con la morte di Luca e tutto il dolore che comportava sarebbe stato come tentare di spostare una montagna, per lei.

    «Lo sapevo. Hai scelto di andartene solo perché sapevi che il dolore che avresti affrontato qui sarebbe stato più facile». L’affermazione colpì Melanie come una pugnalata. Era vero? Aveva davvero scelto di soffrire per il minore dei due mali?

    Intanto Marina si era un po’ calmata e aveva ricominciato a parlare con un tono che non sfiorava il limite con l’ultrasuono.

    «Io non sono venuta qui per riportarti a casa. Questa è e resterà una tua scelta personale. Sono semplicemente venuta a dirti ciò che penso, perché credo sia giusto che tu lo sappia.

    «Scappare, nascondersi… non sono soluzioni. Sono solo un rimandare il problema. Prima o poi dovrai affrontare ciò che è successo e non farà meno male di prima. La vita è fatta di tristezza e felicità, ma non puoi scappare se sembra che tutto stia andando male. La felicità uno se la crea e bisogna semplicemente alzarsi la mattina e pensare: oggi sarà un giorno migliore! e fare di tutto per renderlo tale, spendendo tutte le proprie energie. Soffrire e nascondersi sono facili scelte: è sufficiente crogiolarsi nel proprio dolore, rintanandosi nel proprio piccolo mondo privato, senza dover fare i conti tutti i giorni con la dura lotta per il mantenimento della propria felicità e della propria integrità.

    «E non puoi nemmeno aspettare che tutto finisca, che la tristezza ti lasci stare e se ne vada a importunare qualcun altro. Non succederà finché non ti opponi, finché non decidi che è ora di finirla e di ricominciare alla luce del nuovo giorno che ti attende. L’unico modo che finisca definitivamente e senza fatica è morire, ma mi rifiuto di pensare che tu possa ucciderti per qualcosa di così inutile, quando tutti i giorni della tua vita hai lottato contro demoni schifosi per la tua stessa sopravvivenza. E se aspetti docilmente che la morte ti colga per porre fine alla tua vita che reputi inutile è come se fossi già morta, è come se avessi già smesso di vivere e lottare».

    Melanie era colpita. Folgorata. Ogni parola di Marina aveva scavato un piccolo solco nel suo cuore dal quale era scaturita prepotente la voglia di non arrendersi e reagire, insieme alla rabbia e alla frustrazione di non essersene accorta prima. Era così frastornata che nemmeno si era accorta che l’amica le si era avvicinata e l’aveva abbracciata.

    «Ti voglio tanto bene stupida. Ricordatelo sempre. E te ne vorrò anche se deciderai di restare qua a marcire per il resto dei tuoi giorni». E Melanie seppe che era vero e che non sarebbe stata mai più sola, nemmeno se avesse dovuto affrontare la più grande disgrazia del mondo.

 

***

 

    Melanie si trovava faccia a faccia con l’ennesimo demone. L’ennesimo corpo deforme, l’ennesima faccia dai lineamenti deformati, l’ennesimo paio d’occhi malvagi e iniettati di sangue. La pelle era squamosa e rossastra, dall’aspetto malsano. Sentiva di odiarlo per quello che lui e i suoi simili le avevano fatto, per la vita segnata che le avevano donato come semplice conseguenza della loro esistenza. Lo colpì forte con un pugno allo stomaco e mentre l’avversario si chinava in preda al dolore gli trafisse la gola con un fendente preciso e sicuro del pugnale. Un gioco da ragazzi. Si sentì libera e sicura di sé, come solo chi asseconda la sua vera natura può fare. Girò su se stessa e si preparò ad affrontare un altro demone. Forse davvero il destino non esisteva, come diceva Marina. Forse era proprio lei la padrona della sua vita e della sua missione. In fondo lei aveva deciso di assecondare nuovamente la propria vocazione, nessuno l’aveva obbligata. Era rimasta in Giappone, perché voleva schiarirsi ancora un po’ le idee, ma sapeva che alla fine sarebbe tornata in Italia. E nel frattempo aveva ricominciato a uccidere i demoni e a proteggere le Porte, da sola. Un giorno si sarebbe ricongiunta con Marina e allora sarebbero state invincibili. La coppia di angeli che fanno tremare di paura i demoni.

    Colpì il demone che le stava di fronte alla testa e continuò nella sua danza mortale, elegante e bellissima. I demoni non avevano scampo. Avrebbe protetto anche questa Porta, non più sotto la pressione del richiamo irresistibile della sua natura, ma perché lo desiderava. Un giorno avrebbe capito perché combatteva. Lo sentiva. E fino a quel giorno avrebbe continuato a lottare, fiera e spavalda, inarrestabile. Una furia nera nella notte di Tokyo. Non era che un passo verso qualcosa di migliore. Ma era pur sempre qualcosa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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