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Autore: Wild imagination    24/06/2015    1 recensioni
Quanto vale la vita di un uomo? si chiede sempre, nel momento in cui il rinculo dell'arma gli fa scattare indietro la spalla. 
Non abbastanza, è la risposta. 
Un istante dopo il proiettile penetra la carne del nemico. No, non nemico. Avversario. Uomo. Ragazzo. 
Questa volta è diverso. Lo giura davanti a Dio.
La sagoma viene colpita in pieno petto, butta fuori l'aria in un rantolo e poi cade sulle ginocchia incrostate di sangue. 
Lo fa con lentezza, come se si stesse chinando per cogliere un papavero.
Nel momento in cui quel povero cumulo di ossa vestite sfiora il terreno, tutto tace.
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E comunque il vento soffia
 
​Fango.
E' tutto ciò che riesce a vedere. Che riesce a respirare.
Lo immerge, lo affoga, e gli scivola nei polmoni con la sua sudicia viscosità. 
Tutto attorno a lui, dalle dune alle conche, dagli stivali agli occhi, è  coperto da una patina marrone-grigiastra, a volte secca e screpolata, altre umida e argillosa. 
Vicino ai cadaveri lividi essa sciaguatta assieme al sangue, formando una melma gorgogliante tanto macabra da fargli sussultare e rivoltare lo stomaco.
Il soldato stringe tra le mani scivolose e rigide un fucile ancor più lordo, ed impreca quando la pioggia che bombarda il suo elmetto non accenna a dargli tregua. Gli sembra di essere sotto il costante getto di un idrante rotto, gelato e caotico. Ormai l'uniforme è talmente incrostata al suo corpo a causa del sangue e del fango secco, che se mai riuscisse a toglierla si porterebbe via brandelli di carne bianca e molliccia.
Lancia una breve occhiata di scherno al cielo, tanto grigio e compatto che non si sorprenderebbe di sentir risuonare le sette trombe dell'Apocalisse.
Forse nemmeno si sentirebbero, in quell'Inferno di grida, clangori, scoppi e pianti. 
Le labbra screpolate e secche dell'uomo si sollevano verso l'alto, tremanti e disabituate, come se avessero uno spasmo: qualcuno lassù, pensa, non dev'essere felice. 
Continua a scivolare sul campo di battaglia, muovendo alternativamente le gambe nella macabra imitazione di un rospo. Ogni scatto del ginocchio smuove due palmi di terra e fango, così da creare due profondi solchi al suo passaggio. 
Pochi metri più in là, una mina esplode.
Il rumore è tanto forte da squassargli i timpani e stordirlo per trenta secondi buoni. E' quasi impossibile da descrivere.
E' quasi come... uno strappo. Sì, proprio uno strappo. Come se sette milioni di uomini si mettessero d'accordo e, nello stesso momento, dilaniassero sette milioni di cuscini a mani nude. 
Il soldato geme e affonda il naso nell'avambraccio, aspettando che il cervello si stacchi dalla parete destra della sua testa e ritorni nella posizione originale. Stringe i denti e le palpebre, mentre il lampo che gli ha appena attraversato le tempie si riduce ad un'ombra lancinante.
Mentre striscia come un verme tra sangue e morte, supera decine, dozzine, migliaia, milioni di cadaveri. 
Non sa se siano stati conoscenti, avversari, nemici, amici, o parenti. Ormai sono solo gusci vuoti che, a Dio piacendo, hanno trovato pace nella loro tomba di fango. Ognuno è riverso a modo suo nel Sonno Eterno.
C'è chi è supino, chi prono, chi è rannicchiato in posizione fetale sperando, forse, di scoprire l'innocenza nel massacro.
C'è chi l'ha vista in faccia, la morte, e ha gli occhi vitrei, le braccia e le gambe spalancati. I bulbi spenti sembrano ancora stillare terrore, ma c'è qualcosa sul fondo di essi: una gelida speranza di resa.     
C'è chi è stato colto di sorpresa, ed è stato scagliato via da una bomba come un palloncino da una raffica di vento; la pace non ha fatto in tempo a raggiungere i suoi lineamenti, ancora contorti e tirati dal dolore.
Il soldato vede una sagoma scura traballare in mezzo al fumo e alle grida indistinte. 
Ferma immediatamente quel suo arrancare animalesco, e attende. Il cuore gli batte faticosamente tra la spina dorsale ed il terreno, duro e gelido.
Il respiro gli esce a sbuffi dalle narici, dilatate e slabbrate come quelle di un cavallo da tiro.
La sagoma continua ad avanzare, a trascinarsi e a zoppicare, l'uniforme immersa nel fango fino alle ginocchia, la testa coperta alla bell'e meglio da un elmetto che sembra essere stato colpito ripetutamente dal calcio di una pistola. Si guarda attorno con aria strematamente vigile, tentando di mettere a fuoco ciò che può con quei pozzi di ombra e disperazione che si ritrova in mezzo alla faccia. 
Il nostro soldato osserva l'arma nelle mani del nuovo arrivato.
Non la riconosce come simile alla propria. 
Accosta l'occhio, dalle ciglia incollate dal sudore, al mirino. L'indice della mano destra si posizione dove deve, sul grilletto, con una naturalezza che ha del terrificante. L'uomo inspira profondamente, spolverando i polmoni di terreno, e, poco prima di sparare, ha un fremito. 
Quanto vale la vita di un uomo? si chiede sempre, nel momento in cui il rinculo dell'arma gli fa scattare indietro la spalla. 
Non abbastanza, è  la risposta. 
Un istante dopo il proiettile penetra la carne del nemico. No, non nemico. Avversario. Uomo. Ragazzo. 
Questa volta è diverso. Lo giura davanti a Dio.
La sagoma viene colpita in pieno petto, butta fuori l'aria in un rantolo e poi cade sulle ginocchia incrostate di sangue. 
Lo fa con lentezza, come se si stesse chinando per cogliere un papavero.
Nel momento in cui quel povero cumulo di ossa vestite sfiora il terreno, tutto tace.
Per prima la pioggia, che smette di cadere.
E' straordinario: persino le gocce a mezz'aria si fermano in un battito di ciglia, rimangono sospese come per magia in quella loro forma caratteristica. Sono come lucciole semi-trasparenti che gravitano attorno ad una lampada.
Poi si ferma il vento. Il soldato se ne accorge perché i vessilli scuciti e sudici si afflosciano, attorcigliandosi impauriti ciascuno attorno alla propria asta. 
Il suo naso non è più frustato dal puzzo acido, umido e pungente di sangue, fango, paura e sudore. 
Poi si fermano gli uomini. A centinaia, a migliaia, a milioni sul campo abbassano la armi e le lasciano pendere verso l'Inferno, come se non sapessero più che farsene. Le loro giunture cedono come quelle di malconce marionette lasciate a se stesse.
Il sangue ha lo stesso colore su tutte le uniformi che imbratta. 
Migliaia di volti, identici nella loro umana angoscia, nel loro pallore, nella loro stanchezza, si girano verso il cadavere, leggermente inclinati sulla spalla destra. Lo guardano con un dolore consapevole, che sembra durato millenni, così profondo che deve per forza essere risalito dal centro del petto fino agli occhi; è il dolore di una madre romana, di un padre persiano, di un amico americano, di una moglie vietnamita, di un nipote coreano, di un fratello europeo...
Poi si ferma il cielo.
I nuvoloni neri e densi come mattoni smettono di correre follemente lontano dal campo di battaglia. Si arrestano uno dopo l'altro, come se si richiamassero a vicenda, si tirassero e si dessero di gomito, e si zittissero e indicassero giù, giù.
Il soldato rabbrividisce sotto quegli sguardi; qualcosa di viscido e freddo che non è il fango gli si è appena depositato nello stomaco.
Si sente il protagonista di una tragedia a cui non ha mai voluto partecipare. No, non il protagonista: l'antagonista. 
Ha appena ucciso il suo rivale, forse dovrebbe gettare il capo all'indietro ed eruttare una risata malvagia.
Proprio non lo sa, ma fortunatamente non deve decidere.
Un battito di ciglia dopo e tutto è ripartito.
Le bocche urlano, la pioggia cade, il sangue bagna, le armi sparano, le nuvole scappano.
Una mina esplode accanto a lui. 
E comunque il vento soffia.
  
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