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Autore: Ave Cesarea    25/06/2015    0 recensioni
E faceva freddo, sì, ma lei non accennava ad abbandondare il piccolo territorio che le avevano assegnato: un posto tutto suo, un ciglio di strada in cui le sembrava di muoversi come un animale in gabbia. "Ma che ci vuoi fare", mi diceva, "la fame è il miglior condimento".
[rivista e corretta dopo anni, cambia la forma non la sostanza]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'I Racconti della Vecchia Città'
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La chiamavano Alice La Bella.
Aveva il petto pieno e la pelle che sembrava di latte. Era quello il suo colore, le aveva detto Babilonia un giorno. "Sei bianca, tesoro mio, le tue cosce stonano in questo lerciume". Non se ne vedevano, come lei, perché Babilonia si circondava di donne sempre diverse, sempre bellissime, sempre singolari. Ma Babilonia era stata bella come Alice, tempo addietro, e nutriva una certa invidia per le sue membra toniche, giovani, che sembravano averle rubato tutte le attenzioni che le erano riservate prima del suo arrivo. 
"Babilonia-Vecchia-Gloria", era così che la chiamavano tra i sussurri. 
Alice era stata mandata da lei a battere il Confine. "Dai il benvenuto agli stranieri", le aveva raccomandato con un sorriso caustico, sinistro, che le aveva bruciato l'anima. 
Così Alice s'era messa a vendersi tra qualche fischio e qualche applauso, fasciata dalle calze a rete nere che Mimì le aveva prestato. Mimì era una mora di qualche anno in più di lei, il cui corpo era invecchiato lasciandosi indietro la testa: ragionava con la frivolezza delle ragazzine pur avendo trent'anni e un figlio sulle spalle. 
Alice aveva sempre preferito non pensarci a quegli sprazzi di cameratismo tra prostitute di bassa lega: erano false cortesi, "pensano unicamente ai propri interessi" si ripeteva ondeggiando sulle gambe giovani che le regalavano un incedere da gazzella. Ogni tanto passava qualche macchina che sollevava folate di vento capaci di farle accapponare ogni poro della pelle. E faceva freddo, sì, ma lei non accennava ad abbandondare il piccolo territorio che le avevano assegnato: un posto tutto suo, un ciglio di strada in cui le sembrava di muoversi come un animale in gabbia. "Ma che ci vuoi fare", mi diceva, "la fame è il miglior condimento".

La chiamavano Alice-Senza-Volto, perché nessuno era mai riuscito a vedere cosa si nascondesse davvero dietro i suoi occhi grandi e tristi. C'erano le sue labbra, anche, da qualche parte sotto quel naso dritto, ma nessuno l'aveva mai sentita parlare perché lei, quando lavorava, restava in silenzio. Insomma, Alice era un'esistenza fantasma, ed era per questo che Babilonia l'aveva scelta: lo sapevano tutti. "Tenere la bocca chiusa è una virtù di pochi" era il monito che le rivolgeva ogni giorno prima che lei si allontanasse per andare a faticarsi il suo pezzo di pane. Dalla finestra della casa la vedevo alzare il braccio e salutarci tutti indistintamente, con una specie di sorriso che mi aveva sempre colpito. Eravamo in sei, lì dentro: io, Cecilia, Veronica, Mimì, Alice e Giona, tutti stivati in un buco a due piani che si affacciava su una stretta via della Vecchia Città. Avevamo delle bellissime lanterne appese vicino alla porta d'ingresso, le accendevamo noi stessi, a turno, quando calava la notte. Era il nostro rito al quale Alice non partecipava mai, anche se si affacciava dal balcone per vederci. Sono certo che in quei momenti sorridesse, ma forse era troppo spaventata dalla nostra felicità per prendervi parte come se nulla fosse. "No, Efrem, stasera no" mugolava. 
Noi non l'abbiamo mai dimenticata, e così quando se ne andò iniziammo ad accendere tanto le lanterne quanto le candele della Grande Chiesa, sperando che Dio la portasse in Paradiso e le trovasse magari un posto caldo in cui dormire, o delle braccia ad accoglierla nei momenti di tristezza. Mimì era sempre riluttante: "non se lo merita, quella stronza dalla lingua mozza: quella stava zitta perché si credeva superiore, mica perché voleva piacere a Babilonia! Giuro, Efrem, se le avesse leccato il culo ne sarei stata molto più felice." 
Io non davo peso alle parole di Mimì, che pensavo fossero dettate dall'invidia, ma ogni tanto la rimproveravo con toni severi che mai si sarebbe aspettata da me, più piccolo ed inesperto. Poi una sera la vidi piangere sul letto che era stato di Alice, e allora capii la sua rabbia e il suo dolore. Non mi permisi più di alzare la voce per i suoi modi, ma accusai me per non aver capito prima quel che Mimì nascondeva agli occhi di tutti. 
Eravamo ciechi, ecco cosa eravamo: cieche esistenze che si scontravano contro ancor più ciechi destini.
Alice-Gambe-Aperte, Babilonia la chiamava così e ne andava fiera. Spesso, con ironia, le ricordava che "le brutte abitudini non muoiono con noi" giusto per il piacere di vederla farsi triste e con le lacrime agli occhi; ma Babilonia non aveva torto, era quello il dramma che ci tratteneva dal ridere. Allora piegavamo la testa, come fanno i fedeli nelle chiese quando si pentono dei propri peccati, e incassavamo quei colpi lisergici senza riuscire a rispondere. 
In quei momenti eravamo tutti come Alice-Senza-Parola. 

Un giorno lei mi confessò di non riuscire a guardare la strada; -è infinita, Efrem, come i cuori che sanno amare, e se io l'amore non l'ho compreso come potrei mai riuscirci con l'infinito? Io aspetto, sai? Aspetto che venga qualcuno a prendermi e a portarmi via dal buco nero che sta al Confine,- mi disse.
Io le risposi con sincerità, dicendole che era improbabile che succedesse, che alla fine noi eravamo oggetti un po' rotti e un po' vecchi, "ed è noto che questi non piacciano mai a nessuno", aggiunsi. Ma lei insistette.
-Ti dico che posso!- fece a gran voce.
-Babilonia non ti perdonerebbe.-
-Troverà un sostituto, così come ha fatto per Isaia tempo fa.-
Quella di Isaia era una storia diversa, perché lui si era ucciso e non si era innamorato, anche se spesso Babilonia ci aveva ripetuto di come le due cose potessero equivalersi. Glielo feci notare e la discussione si chiuse lì, con Alice seduta sul letto a gambe incrociate, nella penombra di una stanza in cui galleggiavano gli effluvi di muschio e tabacco bruciato. 
Aveva una coperta alla quale era molto legata, noi dormivamo insieme e ne conoscevo a memoria il profumo indefinito di cui era impregnata; sapeva di tanta gente, gente che Alice aveva visto per una sola notte o che aveva incontrato più spesso. 
-Qual è il tuo, tra questi?- le chiesi una volta, mentre si riposava accanto a me.
-Oh, non so più quale sia il mio odore: quando ti mischi con l'umanità sei disposto a non riconoscerti più.-
Da quella sera, per me, lei divenne Alice-Senza-Odore, anche se mi ero accorto anche di come, assieme a quello, stesse iniziando a perdere tante altre cose. Si stava spegnendo di giorno in giorno, diventava sempre più distante (perfino con me, che ero il suo "Fratello-Senza-Legami") e sempre meno disposta a rivelarmi i suoi segreti. Io la osservavo di nascosto, ogni tanto le chiedevo come andasse con i clienti del Confine e lei mi diceva che sì, filava tutto liscio come l'olio, solo che iniziava a sentirsi un po' spossata da tutte quelle ore al freddo. 

-Ma l'hai vista, Efrem?- Babilonia non mi lasciava in pace, mi chiedeva sempre notizie di "Alice-Occhi-Bui", come aveva iniziato a chiamarla in quel periodo.
-Che ha che non va?-
-Ho il doppio dei suoi anni, so riconoscere una donna gravida, Santo Dio!-
In quell'occasione la dispotica Babilonia, da donna d'affari qual era, e da bestia qual era altrettanto, si precipitò a dargliele di santa ragione.
Noi altri eravamo al piano di sotto, tutti attorno al tavolo di legno che ci raccoglieva durante le ore dei pasti, mentre sopra le nostre teste Alice gridava che non ne sapeva niente, che non era colpa sua, che non l'avrebbe mai immaginato.
-Tu ne eri a conoscenza, Efrem?- mi domandò Veronica, scrutandomi con i grandi occhi da zingara.
-Eh, e glielo chiedi pure? Quello sapeva tutto, è che non dice niente ché altrimenti le piglia anche lui.- 
Le parole di Mimì mi ferirono molto: se mai avessi intuito qualcosa l'avrei tenuto per me non per proteggermi dalla rabbia di Babilonia, perché tanto al dolore ci ero avvezzo, quanto più per aiutare Alice che mi era fin troppo cara per lasciarla soffrire tanto. Ma non mi azzardai a rispondere; allora temevo il conflitto con le altre e temevo, soprattutto, di essere lasciato solo in un luogo che ormai definivo casa. Così alzai le spalle, che furono strette da Giona dietro la mia schiena. Lo ricordo bene, in quel momento: aveva la faccia scura e tentava di trattenere le lacrime. Non soffriva le urla e i litigi. Era insicuro, il minore tra tutti, ed era da poco arrivato dopo la scomparsa di Isaia. Credo che si sentisse in dovere di essere all'altezza del suo predecessore (d'altra parte insostituibile perché il preferito di Babilonia), nonostante fosse di una bellezza ed ingenuità disarmanti.
-Mimì, stai esagerando- biascicò lui, immediatamente.
-Finirà che Babilonia le farà bere infusi di prezzemolo almeno cinque volte al giorno- si intromise Veronica la quale mi confessò, in seguito, che di prezzemolo lei stessa ne aveva abusato; pareva mettesse fine alle gravidanze e che gliel'avesse insegnato sua nonna, una vecchina dell'Andalusia ormai ridotta a quattro mucchi di ossa sotto terra.
Cecilia ci guardava tutti con una tazza di caffè nero in mano, una vecchio regalo che qualcuno (non disse mai chi) le aveva fatto per i suoi diciotto anni. Era la più riflessiva tra tutti, ed era l'unica a saper fronteggiare situazioni difficili con una calma che mi lasciava sempre basito. Era rimasta in silenzio dall'inizio della nostra conversazione, ma sentivo il suo sguardo trafiggermi il collo.
Grida e scalpitii di piedi ci fecero piombare nel mutismo. Alcune urla si attardarono tra le pareti e a me sembrò tanto che dovesse scoppiare qualcosa, da un momento all'altro, sulle nostre teste. 
-Dimmelo, stupida cagna! È stato lui, vero?- 
La voce di Babilonia squarciava il silenzio con tenacia arrochita dalle venti sigarette che fumava ogni giorno, in più sforzata da una rabbia che non sembrava riuscire a contenere. 
Fu allora che gli occhi degli altri si puntarono su di me: d'un tratto mi fu chiaro quanto sospettassero del rapporto tra me e Alice. 
Ma io non avevo mai provato a sfiorarla, e tra me e lei non c'era mai stato nulla che andasse oltre un abbraccio, o un bacio scambiato a fior di labbra. Certo, questo gli altri non potevano saperlo e, mio malgrado, non potevo dimostrare la mia innocenza. Nel nostro mondo era meglio non fidarsi, era una regola basilare, ma più volte avevo creduto che noi fossimo l'eccezione. 
Si sentirono mormorii indistinti, poi un nome che mi scagionò nella stesso lasso di tempo in cui, poco prima, ero stato tacciato di colpevolezza.
"Augusto", disse Alice. Solo questo. Niente di più. 
Ricordo bene quegli attimi. 
Credo lo fece per difendermi, ma ad oggi non ne sono sicuro. 

C'era sempre stato qualcuno ad avere dei piani per Alice. Prima sua madre, poi Babilonia. Forse oggi, per lei, li ha Dio. Nelle mie preghiere la raccomando ogni notte, la rammento nei momenti in cui, dopo quel giorno, si specchiava per guardare il suo ventre lievitare.
Alice-Senza-Meta, il Confine scema. 
Alice-Sotto-Terra, è lì che siamo tutti uguali.
Dove sei, Sorella mia? Dove sei ora che le lanterne sono spente? 
Dove sei ora che la vita ci ha consumati uno ad uno?
La storia si rivive, le brutte abitudini non muoiono con noi.
Starai ancora aprendo le gambe.
Starai ancora aprendo le gambe, Alice mia.








  
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