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Autore: miseichan    25/06/2015    3 recensioni
“Stanza 58, quinto piano.”
Giacomo sospirò. Ecco, pensò, cosa avrebbe inciso sulla lapide del fratello.
Storia partecipante al contest "It's too cliché" indetto da rhys89 sul forum di EFP.
Genere: Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Svizzera

 

 

 

“Sasso, carta, forbice?”
“Oh, no. Non se ne parla e basta. È compito tuo.”
“Lanciamo una moneta?”
“No.”
“Giacomo, ti prego. Parliamo di tre miseri giorni, niente di più.”
“No.”
“Non ti chiederò più niente fino all’anno nuovo. Sarà il tuo regalo di Natale per me.”
“Ho detto no. No significa no.”

 

~

 

 

Erano in due ed erano contro di lui. 
Giacomo spostò lentamente lo sguardo dall’uno all’altra e sospirò. Diamine. 
“Siamo mortificati, signor Iannelli,” ripeté per l’ennesima volta la ragazza. 
“Purtroppo non vi è soluzione, ci creda,” aggiunse il ragazzo, l’espressione contrita. 
“Lo ripeterò un’ultima volta: non ho alcuna intenzione di dividere una suite matrimoniale con Giannelli, sono stato chiaro?”
I due si scambiarono una veloce occhiata, quindi gli sorrisero in contemporanea. 
Giacomo arretrò di un passo. 
“Signor Caputo,” mormorò lei a denti stretti, il sorriso congelato sulle labbra. “Data l’ora tarda siamo tutti un po’ stanchi, perciò mi permetta di spiegarle ancora una volta la situazione.”
“Nadia,” sussurrò il ragazzo a mezza voce. “Così spaventi i clienti.”
“Zitto, Al,” ringhiò lei. Al chiuse la bocca. 
“Come stavo dicendo,” continuò Nadia, le mani saldamente piantate sul bancone. “Il convegno comincia domani e, malauguratamente, siamo al completo. Non ci sono altre camere disponibili. Non ci sono altri posti letto disponibili. Non abbiamo neanche divani disponibili. Il suo cognome e quello del signor Giannelli sono molto simili ed è stato commesso un terribile errore, lo so, mi creda. Come le ho spiegato, tuttavia, non posso al momento porvi rimedio.”
“Vuole la suite, sì o no?” intervenne Al, inarcando placidamente un sopracciglio. 
Giacomo prese un bel respiro e spostò lo sguardo su di lui. 
“Sono il capo del capo del suo capo,” gemette, ignorando l’occhiata di fuoco con cui Nadia lo stava trafiggendo. “C’è un conflitto d’interessi o qualcosa del genere, ne sono sicuro.”
“Ha intenzione di molestarlo?”
“Cosa?”
“A meno che non lo molesti, corrompa o diffami, no, non ci saranno problemi.”
Nadia passò una chiave ad Al e Al la porse a Giacomo. 
Giacomo la prese con estrema cautela, quasi aspettandosi che la chiave lo mordesse. 
“Stanza 58, quinto piano.”
“Il signor Giannelli è salito circa un’ora fa.”

 

 

 

Prima notte

 

 

“Uh!”
Avrei dovuto bussare, pensò senza troppa convinzione. 
Giannelli ruotò su se stesso, una mano sul cuore. “Mi hai spaventato!”
Giacomo annuì meccanicamente, squadrandolo da capo a piedi: i calzini a pois, i pantaloni di tuta logori e cascanti, il petto nudo e ancora umido, l’asciugamano bianco attorno al collo. Per qualche inspiegabile motivo era l’assenza della maglietta a dargli più problemi. Seguì con lo sguardo una goccia d’acqua scendere dalla spalla verso l’ombelico e deglutì.
Uh. 
“Avrei dovuto bussare,” mormorò, la gola secca. 
“Nessun problema,” rispose Giannelli, il tono divertito. Giacomo tornò in sé e sollevò di scatto la testa. Cazzo. 
“Scusa,” farfugliò, chiudendosi la porta alle spalle. “Non volevo spaventarti, davvero.”
Giannelli scosse la testa e sorrise. “Luca Giannelli,” si presentò, porgendo la mano. 
“Giacomo Iannelli.”
“Ovvero, se non erro, il capo del capo del capo del mio capo?”
“Mi sa che c’è un ‘capo’ di troppo, ma sì, il succo è quello.”
“Nessuna pressione, insomma.”
Giacomo forzò le labbra in un sorriso, imbarazzato. “Ho tentato di tutto, ma...”
“Oh, no, figurati!” lo interruppe l’altro. “Ci ho provato anch’io, credimi. C’era una rossa alla reception quando sono arrivato che per poco non mi ha mangiato vivo.”
“Nadia,” rabbrividì Giacomo, togliendosi la giacca. “A un certo punto temevo mi avrebbe accoltellato con il tagliacarte.”
“Tipo tosto, eh?” 
“Inflessibile.”
“Terrificante,” ridacchiò Luca. “Quando anche il ragazzo che era lì con lei ha cominciato a sudare, ho afferrato la chiave e me la sono data a gambe.”
“Saggia decisione,” approvò Giacomo, guardandosi attorno. La stanza era enorme: calda, lussuosa e confortevole al punto giusto. Un camino a muro illuminava l’angolo più lontano a sinistra e dal lato opposto una luce soffusa filtrava da sotto l’unica altra porta: il bagno, sicuramente. Un letto matrimoniale, un divano e diverse poltroncine erano gli ultimi arredi presenti. 
“Niente armadi?” si ritrovò a chiedere, sorpreso. Tutto pur di non pensare al letto. 
Luca, il viso nascosto dall’asciugamano mentre si frizionava i capelli, mugugnò: “Alle tue spalle, porta laterale: è un armadio a muro. Si dice così? ‘Armadio a muro’?”
Giacomo annuì, notando solo in quel momento le ante perfettamente mimetizzate. 
“Sai...”
“Cosa?” chiese, girandosi nuovamente per vedere perché l’altro si fosse bloccato. 
“Dovrei darti del lei,” mormorò Luca, l’espressione attonita. 
“Cosa? Perché?”
“Perché sei il capo del capo di non so quanti capi!” scattò Luca, agitando una mano verso di lui. “Non dovrei darti del tu. Non così, a primo acchito. Il fatto è che quando giù mi hanno detto ‘Iannelli’ ero convinto si trattasse di Ugo. Invece sei tu e...”
“Il tu va benissimo,” lo zittì prontamente Giacomo, un sorriso a piegargli le labbra. Si lasciò cadere sulla poltrona più vicina e allungò le gambe, sciogliendo i muscoli tesi. Ugo?
“Conosci mio fratello?”
“Passa sempre nel nostro reparto,” annuì Luca, gli occhi puntati sul tappeto. 
“È da voi allora che viene a nascondersi!” esclamò Giacomo, incredulo. “Quel bastardo,” borbottò. “Una riunione su due diventa introvabile, come svanito nell’etere e...” assottigliò lo sguardo, “di che reparto stiamo parlando esattamente?”
Luca scosse la testa, gli angoli della bocca piegati verso l’altro. “Ah, no.”
“Devi dirmelo.”
“Non se ne parla,” sogghignò Luca scivolando a sedere sul tappeto, le gambe incrociate. “Io non faccio la spia ai capi.”
“Anche lui è un capo.”
“Sì, ma un capo a cui non va di fare sempre il capo.”
“E a chi è che va?” mugugnò Giacomo, reprimendo uno sbadiglio. “Questo, comunque, è il mio regalo di Natale per lui.”
“Dormire con me per tre notti?” sussurrò Luca, un luccichio malizioso negli occhi. Blu, notò Giacomo. Un bellissimo paio di occhi blu. 
Di colpo si ritrovò a corto di parole: era inappropriato? Avrebbe dovuto insistere di più alla reception? Un rapido pensiero a Nadia e no, non era il caso. Ci teneva alla vita, grazie tante. Dormire sul tappeto? Diavolo no, non per tre notti. Restava il divano. 
“Posso dormire sul divano.”
“Cosa?” Luca aggrottò le sopracciglia, l’espressione improvvisamente tesa. “No, perché?”
“Non dobbiamo per forza condividere il letto, mi va benissimo anche il divano.”
“Perché?”
“Oh, signore. Come, perché? Se ti infastidisce l’idea di dormire nello stesso letto!”
“Non ho mai detto una cosa del genere!”
Stavano alzando la voce? Cazzo, stavano alzando la voce. 
Prese un bel respiro e vide Luca fare lo stesso, l’asciugamano dimenticato in grembo. Era ancora senza maglia; asciutto, certo. Nessuno goccia a percorrergli il petto o... chiuse gli occhi, una sfilza di imprecazioni sulla punta della lingua. 
“Senti,” mormorò Luca. “Non ho nessun problema a condividere il letto.”
Prima che Giacomo potesse anche solo provare ad aprir bocca continuò, deciso. 
“Non ci sono altre stanze, il pavimento è gelido e il divano una scomodità inutile. Il letto è grande abbastanza per entrambi.”
“Sicuro?”
“Potremmo entrarci in tre. Tre me, certo, non tre te,” cominciò a farfugliare. “E con questo voglio dire che, lo sai sei...” allargò impacciatamente le braccia “pieno di muscoli,” finì con un filo di voce prima di nascondere il viso fra le mani. “Dio.”
Giacomo si morse il labbro per trattenere un sorriso idiota, il volto in fiamme. Muscoli.
“Cancella tutta quest’ultima parte,” gemette Luca senza guardarlo. “Torniamo a ‘è grande abbastanza per entrambi’. Sì, ci entriamo tutti e due. Punto.”
“Okay.”
“Okay anche al cancellare l’ultima parte del discorso?”
“No.” Sorrise all’occhiata di pura incredulità che gli lanciò Luca e si strinse nelle spalle. “Sono pieno di muscoli, mi piace. Fa bene al mio ego.”
“Oh, magnifico. Sbruffone come tuo fratello.”
“Ehi, stai parlando al grande capo.”
“No, sto parlando a Giacomo. Niente capo e capo una volta varcata la soglia,” indicò la porta. “Questo è campo neutro. Casa. Tana. La Svizzera.”
“Svizzera?”
“Con tanto di cioccolata.”
“Orologi no?”
“Non sono un fan delle sveglie, no.”
“Svizzera,” annuì Giacomo. “Dov’è la cioccolata?”
Luca sollevò un dito e gattonò fino al telefono. “Chiamo Nadia.” Compose il numero e si sdraiò sul tappeto, un ghignò malefico a piegargli le labbra. 
“Salve! Posso parlare con Nadia?” Qualche secondo di silenzio. “Latente desiderio di morte? Non saprei, io... Nadia! Cercavo proprio te.”
Giacomo ridacchiò e calciò via le scarpe. 
“No,” stava dicendo Luca. “No non mi ha molestato. Non ancora, almeno.”
Alzò gli occhi al cielo e lo colpì senza forza sulla spalla con il piede. 
“Ahi! Mi ha colpito! Mi ha appena colpito e... no, non attaccare! Vorremmo della cioccolata. Avete della cioccolata? Perché, vedi, ora siamo in Svizzera e... oh, grazie.”
“Ti ha chiuso il telefono in faccia?”
“Sì,” confermò serio Luca. “Ma mi ha anche detto che ci sono delle tavolette omaggio sotto i cuscini e nei comodini.”
Giacomo guardò il letto, poi i comodini, quindi scosse la testa. “Troppo lontani.”
Un nuovo sbadiglio gli premette contro le labbra e questa volta non riuscì a trattenerlo. “Che ore sono?”
Luca si strinse nelle spalle. “Niente orologi, ricordi?”
Cellulare. Nella valigia. Valigia? Troppo lontana. Diamine. 
“Dovrei farmi una doccia veloce.”
“Mmm?”
“Ti stai addormento sul tappeto?”
“No,” mugugnò Luca. “Certo che no. Ho solo chiuso un attimo gli occhi.”
Giacomo lo pungolò: prima nel fianco, poi sulla spalla e di nuovo nel fianco. 
“Oi, oi, smettila! Stai cercando di uccidermi?”
“Tirati su.”
“Prepotente,” borbottò, mettendosi a sedere. “Cosa? Che c’è?”
Giacomo si soffermò un attimo a guardargli i capelli, piegati tutti da un lato e gonfi nei punti più sbagliati; semplicemente adorabili. “Dammi una mano, dai.”
“Tutto questo perché non ce la fai ad alzarti da solo? Abuso di potere, sia chiaro.”
“Grazie,” sospirò Giacomo, afferrando la mano tesa per poi barcollare fino alla porta del bagno. 
“Cerca di non affogare nella doccia.”
“Farò del mio meglio.”
“Se muori ci sarà più cioccolata per me.”
“Lo terrò presente.”
Uscì dalla doccia un indeterminato tempo dopo. Siamo in Svizzera, niente orologi.
L’unica luce nella stanza era quella proveniente dal camino: arrancò fino alla valigia e con uno sforzo disumano la trascinò fino al bagno. Silenziosamente. 
Indossò il primo paio di boxer che gli capitò sotto mano e una canotta di cotone; richiuse il tutto e in punta di piedi si avvicinò al letto. Luca aveva scelto il lato sinistro, quello più lontano dal camino: completamente nascosto sotto le coperte, era visibile solo dal naso in su. Giacomo sentì l’aggettivo adorabile attraversargli di nuovo la mente e sospirò. 
Maledisse Ugo, se stesso, Nadia, Al e Luca. Maledisse la Svizzera. Poi notò la tavoletta di cioccolata lasciata al suo posto e dimenticò ogni cosa. 
Si addormentò con il sorriso sulle labbra e il fondente sulla lingua. 

 

 

Seconda notte

 

 

“Iannelli!”
Giacomo si sforzò di trattenere un sospiro, le dita che malinconicamente sfioravano la maniglia. Ce l’aveva quasi fatta, pensò amaramente. Cinque secondi in più e sarebbe stato al riparo, nella sua stanza, nascosto dal resto del mondo. In Svizzera. 

“Rispoli,” salutò invece, dando le spalle alla porta. “Anche lei su questo piano?”
“Oh, sì; giusto dietro l’angolo.”
Giacomo annuì. Tutto qui?, si chiese con un briciolo di speranza. 
“Sa, mi ha sorpreso vederla qui. Non che mi dispiaccia, sia ben chiaro. Suo fratello, certo, è più portato per questo tipo di situazioni.”
“Che tipo, mi scusi?” domandò Giacomo, il sorriso di cortesia che si congelava sulle labbra. 
“Sa, il tipo sociale.”
Il sorriso divenne un ghigno. “Sociale. Lasci che le spieghi una cosa...”
“Signor Iannelli!” lo bloccò una voce, cogliendo entrambi di sorpresa. “Mi perdoni l’interruzione, ma ci tenevo a farle i complimenti.”
Giacomo inarcò un sopracciglio.
“Discorso eccellente. Davvero illuminante. Incredibilmente appassionante.”
“Professor Rispoli,” sospirò Giacomo. “Luca Giannelli, un mio caro collega. Giannelli, il professor Rispoli.”
“Lusingato,” mormorò serio Luca, stringendogli la mano. Giacomo serrò le labbra.
Ridere non stava bene, rifletté. Avrebbe rovinato la messinscena, come minimo. 
“Cose ne ha pensato del mio intervento?” chiese Rispoli.
L’espressione di Luca non vacillò un secondo. “Magnifico.”
“Quale parte ha apprezzato di più?”
Giacomo si accarezzò la cravatta. Luca impallidì. 
“Oh, scelta ben ardua. Erano tutte eccellenti, sa, e... vediamo...”
Giacomo si spostò leggermente: il necessario a sollevare la cravatta alle spalle di Rispoli. 
Luca fissò lui, quindi la cravatta; alzando gli occhi al cielo borbottò: “Quella sulle impiccagioni è stata particolarmente... inaspettata.”
Giacomo chiuse gli occhi e si accasciò contro il muro.  
“Impiccagioni?” ripeté Rispoli con voce strozzata; e Giacomo scoppiò a ridere, arrendendosi all’inevitabile. 
Era ancora piegato in due e con le lacrime agli occhi, quando Luca lo guidò nella stanza. 
“Che grandissimo stronzo,” sibilò chiudendosi la porta alle spalle. 
“Concordo,” ansimò Giacomo. “Non l’ho mai sopportato.”
“Guarda che ce l’avevo con te.”
“No,” si raddrizzò, concentrandosi. “Che dici? Cosa c’entro io?”
“Impiccagioni?”
Giacomo soppresse il nuovo attacco di risa. “Mmm. Puoi incolpare solo te stesso.”
“Starai scherzando!” sbottò Luca, incredulo. “Mi sono sacrificato per te! Ti ho salvato il culo, caro mio, e tu sei il peggior suggeritore della storia.”
“Ti stavo mostrando la cravatta. La cravatta. Non mi stavo impiccando, idiota.”
“E cosa c’entrava la cravatta con la conferenza?”
“L’importanza di un adeguato vestiario nell’ambiente di lavoro.”
Luca si lasciò cadere sul letto e usò le braccia a mo’ di cuscino. “Insensato.”
“Oh, certo. Perché le impiccagioni hanno molto più senso.”
“Ad ogni modo, sarebbe sicuramente stato più interessante,” borbottò Luca, alzando gli occhi al cielo. 
Giacomo sospirò e si sdraiò accanto a lui. “Non posso darti torto.”
“Sembri sfinito.”
“Perché lo sono. Ho sempre odiato queste... cose.”
“Sociali?” Luca fece il verso al professore. 
“Sì. Troppe persone, troppa falsità; non fanno per me.”
“Ci si può anche divertire, sai?”
Giacomo sbuffò e lo colpì senza forza col gomito. “Balle.”
“Io mi sono divertito,” si strinse nelle spalle Luca, l’espressione placida. Giacomo voltò la testa per guardarlo, scettico. 
“Balle,” ripeté. Poi aggrottò le sopracciglia. “Oggi non ti ho mai visto.”
“Dipende da dove mi hai cercato,” sorrise Luca. “Ehi,” spalancò gli occhi, “hai cercato me?”
“Ho solo dato un’occhiata in giro,” fece Giacomo, distogliendo veloce lo sguardo. 
“Non hai provato in piscina?”
“C’è una piscina?”
“Sei senza speranza,” mormorò afflitto Luca. 
“No, sul serio, c’è una piscina? Dove?”
“Nella direzione opposta alle sale conferenza.”
“E tu... non ti sei seduto in sala nemmeno per dieci minuti, non è così?”
“Mi offendi!”
“Non hai neanche messo il naso in sala, ci scommetto.”
“Ho seguito un intero intervento, che tu ci creda o no.”
“Quello sulle impiccagioni?”
Luca aprì la bocca per rispondere, ma tutto ciò che ne uscì fu una risata incontrollabile. 
Giacomo chiuse gli occhi, cercando inutilmente di trattenere il sorriso. Era una gran bella risata, pensò, abbandonando ogni pretesa. Calda, contagiosa, irresistibile. 
“Com’era la piscina?” chiese dopo un po’, la voce più roca di quanto si aspettasse. 
“Eccezionale,” rispose Luca, girandosi su un fianco. 
Aveva gli occhi lucidi, se possibile ancora più blu di quanto già non fossero. 
“Mmm.”
“Dovresti venire a provarla.”
“Non ho nemmeno la forza di svestirmi, come ti aspetti che mi alzi?”
Luca sbuffò, pungolandolo nel fianco. 
“E poi rischiamo di incontrare di nuovo Rispoli,” continuò Giacomo. “O qualcun altro. Non sopravvivrei, capisci? Lo so già. Deciderei di farla finita e lasciarmi morire e...”
“Domani, allora.”
“Mmm?”
“Domani dovrei venire a provare la piscina.”
“Domani ci saranno altre conferenze.”
“Conferenze che puoi tranquillamente saltare.”
“No che non posso.”
“Neanche una sarà sulle impiccagioni, ne sei consapevole, sì?”
“Purtroppo sì,” ridacchiò suo malgrado Giacomo.
“Quindi, come avrebbe sicuramente fatto anche Ugo...”
“Ugo. La smetti di paragonarmi a mio fratello, per cortesia?”
“Ugo avrebbe giocato a pallanuoto con noi, oggi.”
“Io non sono Ugo.”
“Vero,” approvò Luca. “Che ne pensi, allora, della pallacanestro? Sembri il tipo a cui piace la pallacanestro. Sei alto, largo, praticamente un armadio a due ante.”
Giacomo ruotò su se stesso e inarcò un sopracciglio. Uno solo. Per entrambi sarebbe stato necessario uno sforzo troppo grande. 
“C’è anche un campo da basket?”
“Oh, sì.”
“Perché organizzare una cosa tanto noiosa in un posto pieno di tali distrazioni? Va contro il comune buonsenso. Se devi costringere un gruppo di persone a fare qualcosa non puoi dar loro alcun modo di scansarsela. Giusto?”
“Giustissimo. L’errore è stato loro.”
“Sei una pessima, pessima compagnia,” sorrise Giacomo, sfilandosi la cravatta.
“Lo prendo come un complimento.”
“Dì un po’, anche oggi c’è la cioccolata omaggio?”
Luca frugò sotto il cuscino più vicino ed emise un verso di giubilo. “Gianduia!”
Giacomo chiuse gli occhi, lasciando che i mormorii di Luca e il crepitio del fuoco fossero gli unici rumori a raggiungerlo. 
“Apri la bocca,” sussurrò una voce vicino al suo orecchio. 
Giacomo, senza pensarci due volte, obbedì. 

 

 

Terza notte

 

“Ti sei preso una cotta per Giannelli?!”
Giacomo sospirò, il viso affondato nel cuscino. Lanciò una veloce occhiata alla porta della camera e strinse i denti. 
“Non ho mai detto una cosa del genere,” ringhiò, le dita serrate attorno al cellulare. 
“Una cotte per Giannelli,” ripeté Ugo. 
Giacomo gemette. Ugo scoppiò a ridere. 
“Smettila,” piagnucolò Giacomo. “Non mi sei di nessuna utilità. Non so perché diavolo ho pensato che chiamarti sarebbe stata una buona...”
“Gioca nella tua squadra,” lo interruppe Ugo. 
“Cosa?”
“Usciva con Matteo di contabilità.”
“Oh.” 
“Come ti ha conquistato?” domandò Ugo, smettendo improvvisamente di essere utile. “La notte dorme come mamma lo ha fatto? Sì, è stato quello? Oppure...”
“Ho saltato la conferenza.”
Ugo si zittì.
Giacomo si chiese se per caso avesse anche smesso di respirare. 
“Tu cosa? Hai fatto sega?”
Fatto sega?” scosse il capo Giacomo. “Non siamo a scuola, per l’amore del cielo!”
“Hai fatto sega! Oh, signore. Hai bigiato. Proprio tu!”
“Non è questo il punto.”
“Certo che è il punto; non c’è nessun altro punto. Cosa hai fatto?”
“Una nuotata in piscina, una passeggiata in città e una partita a pallacanestro.”
“Sono sconvolto.”
“Ma non senza parole.”
“Giannelli ti ha portato sulla cattiva strada. Sei passato al lato oscuro.”
“Se avessi saputo prima che era così divertente lo avrei fatto anni fa.”
“Non so più con chi sto parlando.”
“Ha gli occhi blu. E una risata bellissima. Lo hai mai sentito ridere?”“Sì, e non mi...”
“Una risata bellissima. Ha detto che sono pieno di muscoli.”
“Sto alzando gli occhi al cielo. Non puoi vedermi, perciò mi sento in dovere di dirtelo: sto roteando gli occhi. Tanto. Con sentimento.”
“Devo andarmene, non è vero?”
“Cosa? Perché? Lui dov’è?”
“L’ho perso di vista dopo la partita, non ne ho idea.”
“Giacomo...”
“Era tutto sudato. Aveva la maglietta che praticamente era una seconda pelle, okay? E deve essersi accorto che non facevo altro che fissarlo, non può non essersene reso conto. E gli sono andato contro; nel senso di sbattergli addosso; nel senso che l’ho buttato per terra e sono rimasto sdraiato sopra di lui per... per molto più tempo di quanto fosse appropriato e... e, mio dio, è completamente inappropriato. Del tutto fuori luogo. Non so cosa mi è preso. Devo aver perso totalmente la testa. Non c’è altra spiegazione.”
“Respira.”
“Lui ha riso. Ha riso mentre ero sdraiato sopra di lui. Non ho idea di come faccia ad essere ancora vivo, per poco non mi è scoppiata una coronaria. Devo andarmene.”
“Non stai respirando.”
“Stamattina mi sono svegliato con lui avvinghiato attorno, capisci? Mi teneva stretto in stile koala. Per poco non l’ho buttato giù dal letto nella foga di scappare in bagno e...”
“Devi. Assolutamente. Respirare.”
Giacomo prese un bel respiro. 
“Sono un suo superiore. Devo andarmene.”
La porta della stanza si aprì di colpo e Giacomo chiuse la chiamata.
“Ehi,” salutò Luca. “Che fine avevi fatto?”
La giacca di Luca abbaiò. 
Giacomo si alzò e lo raggiunse in tre passi. “La tua giacca abbaia.”
“Ultimo modello,” annuì Luca. “Puoi scegliere se farla abbaiare, miagolare, gracidare...”
Giacomo aprì la zip. “Un cane?”
“Un cucciolo.”
“Di cane.”
“Un cucciolo di cane; è un cane più piccolo.”
“So cos’è un cucciolo. Perché hai un cucciolo di cane nella giacca?”
Luca inclinò la testa e arricciò le labbra. “Perché non è permesso avere animali in quest’albergo?”
Giacomo sospirò. “Non puoi tenerlo.”
“Sarà solo per stanotte,” piagnucolò Luca. “Per favore?”
“Non sono io a dirti di no. Sono le regole.”
Luca sollevò il cucciolo verso di lui. “Tieni,” fece, lasciando la presa sull’animale. 
Giacomo lo afferrò di riflesso. “Ehi!”
“Non è adorabile? Morbidissimo, eh? Vuoi davvero cacciarlo via? Farlo tornare lì fuori al freddo e al gelo? Sotto la pioggia, la neve, la grandine, i lampi...”
“Non possiamo tenerlo.”
Luca sgranò gli occhi e lo fissò. Il cucciolo fece altrettanto. 
“Oh, per l’amor del cielo,” borbottò, accoccolandosi sul tappeto. “Ti perdo di vista per meno di venti minuti e torni con un cane?”
“Gli piaci,” rispose Luca, inginocchiandosi di fronte a lui, un sorriso enorme sulle labbra. 
“I cani abbaiano. Ci scopriranno in men che non si dica.”
“Nadia non ci darà problemi.”
“Nadia sa del cucciolo?” 
“Oh, sì. Lo ha trovato lei, ma Al è allergico, così mi sono offerto volontario e ho salvato la situazione. Che ne dici di Briciola?”
“Orribile. Hannibal?” propose Giacomo prima di accorgersi di star discutendo nomi per il cucciolo. Nomi. Per. Cani. 
“Hannibal? Sul serio? Se è poco più grande di un pugno?”
Un cane che non era suo. Un cane che non...
Il telefono cominciò a suonare. 
“Ti dispiace...” borbottò, facendo cenno in direzione del cellulare. 
Luca annuì e rispose. Giacomo pietrificò.
“Passarmelo!,” sibilò. “Ti dispiace passarmi il telefono, non rispondere per me!”
“Ugo, quanto tempo! Sì, tutto a meraviglia. Abbiamo preso un cane.”
Giacomo uggiolò. 
“Oh, sì, stavamo giusto decidendo come chiamarlo e... come hai detto?”
“Devo andare,” scattò Giacomo, depositando Hannibal sul letto. 
Luca lasciò il telefono sul tappeto e gli afferrò il polso. “Ehi.”
“Devo andare, davvero. Sto sbagliando tutto e non va bene. Io non sono così. Non faccio errori del genere e tu sei un errore e...”
“Prenderò anche questo come un complimento.”
“Smettila di fare così.”
“Cosa?”
“Smettila e basta, va bene? Ricordi quando hai detto che forse dovevi darmi del lei? Mi sa che è meglio così. Qualsiasi cosa sia che stiamo facendo non va bene.”
Luca gli poggiò una mano sul collo e Giacomo sentì il cervello incepparsi. Cazzo. 
“Nadia lo ha fatto anche a te il discorsetto, la prima sera?”
“Cosa?”
“Il discorsetto sul ‘non si molesta, non si approfitta’, hai presente?”
“Sì, credo di sì.”
“Non sta succedendo niente del genere.”
“Luca, ascoltami.”
“Siamo in Svizzera.”
“Adesso. Per qualche altra ora. Poi non sarà più così e tutto questo sarà incredibilmente inappropriato, okay? E avresti tutte le carte in regola per farmi causa e...”
“La Svizzera è uno stato mentale.”
Giacomo aprì la bocca e non ne uscì nulla. 
“Siamo noi a crearla, noi a tenerla in vita. Pensa alla Svizzera, eccola qui.”
“Stai delirando.”
“Possiamo portarla con noi.”
Giacomo poggiò una mano sulla fronte di Luca. “Non scotti.”
“Dovrai smetterla di portare un orologio, però. Ricordi? Niente orologi.”
Luca inclinò la testa verso il letto. “Hannibal fa parte della Svizzera, cittadino onorario.”
“Mmm.”
“La cioccolata, ovviamente, è d’obbligo.”
“Non lo sai che il troppo stroppia?”
Luca si strinse nelle spalle. “Abbiamo l’assicurazione odontoiatrica.”
Giacomo sospirò esasperato e decise che baciarlo era l’unica cosa da fare. 
Hannibal abbaiò la sua approvazione. 

 

 

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