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Autore: SkyEventide    14/01/2009    6 recensioni
Raccolta di one-shot distinte tra loro dedicata interamente al meraviglioso personaggio di Orochimaru ed alle sue infinite sfumature caratteriali che, io credo, non possono essere catturate in una sola fanfiction e che meritano un'introspezione più profonda di quanto spesso viene loro data, banalizzando questa articolata e misteriosa figura. Orochimaru è qui affiancato ai più disparati personaggi, dai più classici ai più improbabili, ed è descritto attraverso il loro punto di vista o attraverso una visuale esterna. E' un regalo per tutti i fan del personaggio, spero davvero che apprezziate! Buona lettura a tutti!
2. "Non Eva, ma il Serpente colse per primo la mela dell'Eden" [Orochimaru/Tsunade] Terza classificata al contest "Orochimaru's Pairings" di compagniescu e Ainsel.
3. "Il cuore d'inchiostro" [Orochimaru/Sai] Terza classificata al contest "Sai in Pairing" di princess21ssj.
Genere: Malinconico, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Orochimaru
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1.
Sotto un ciliegio, un peccatore



La casa era grande, spaziosa, ed era tremendamente, falsamente vuota.
Restavano gli echi di risate, le reminescenze delle favole sussurrate alla notte, languivano i baci d’amore, cozzavano ancora le pentole nella cucina, ma ora in quella casa c’era solo un bambino, disteso in un letto matrimoniale, le coperte rimboccate, e portava in volto uno sguardo troppo lontano e profondo per un fanciullo.
Era un letto troppo ampio per quel solo corpicino, era un letto per adulti, ed il bambino si perdeva nelle pieghe della flanella e della seta. Nelle nottate solitarie, dormiva appallottolato nei risvolti della coperta, le mani sottili e magre la stringevano vicino al viso; giaceva fra due corpi fantasma ora sdraiati dentro il freddo legno di un giaciglio due metri profondo e largo uno.
«Dovresti riposare ora, Orochimaru».
Il bambino voltò i suoi occhi verso l’uomo che sedeva sul letto dei suoi genitori defunti, sgualcendo le coperte e scaldando il bordo del materasso.
«Non ho sonno, Sarutobi-sensei» rispose, con tono basso, sfuggevole e perso.
Si smarrì nel rimirare il giardino immobile e addormentato fuori dalle pareti spalancate della camera, si identificò coi fiori di loto chiusi sull’acqua placida, e i suoi occhi guardarono oltre quel giardino, si sciolsero nell’acqua ed immaginarono cosa poteva significare essere la carpa che albergava fra le pietre del laghetto, se forse allora il fresco blu del cielo tremulo l’avrebbe fatto assopire; si sgretolarono nella terra e vagheggiarono su cosa avrebbe potuto insegnargli l’essere il ciliegio che fioriva vicino al muro di cinta e che ogni anno perdeva i petali e l’anno successivo li ritrovava ancora più meravigliosi.
Solo il sospiro stanco del suo insegnante lo strappò a quelle fervide e disperate fantasie.
«Orochimaru, lo so che preferiresti stare sveglio. Lo so che è difficile ma, per favore…».
Furono gli occhi del bambino a smorzare quell’accorato consiglio. Occhi immensi, nascondevano mari e tempeste, celavano battaglie contro forze divine, narravano la sfida del naufrago contro i marosi, l’euforica sfida per un obbiettivo cieco ed entusiasta, erano l’epigrafe di un pianto non ancora terminato.
«…per favore, riposati» completò con coraggio Sarutobi, conscio e timoroso di non essere ascoltato.
Il bambino, suo promettente allievo di giorno e smarrita creatura di notte, abbandonò la schiena contro i cuscini bianchi imbottiti morbidamente, lasciò cadere la testa e abbassò appena le palpebre.
«Non ho sonno».
Un sussurro, una supplica. Muta, pudica preghiera di essere sottratto alla notte.
Sarutobi sospirò, rassegnato a dover guardare ad ogni nuovo vespro le pene di quel fanciullo e ad arrendersi davanti all’evidenza di non riuscire mai ad alleviarle del tutto, di non essere competente a rimpiazzare la figura di un padre e di una madre, due spettri ancora troppo vividi negli occhi del suo allievo, ancora impressi nei profili dei mobili della casa, costanti come ombre cinesi dietro ai pannelli di carta dipinta.
Orochimaru non se ne poteva liberare e non voleva, si aggrappava a quei ricordi come ad un’ancora e, pian piano, saliva la catena scivolosa di quell’approdo, piombando infine in una nave dalle vele spezzate, aliena alle sue conoscenze.
«Avanti» gli sussurrò attirando su di sé quegli occhi insoliti e stupendi, profondi ed inquietanti. «Non ti fa bene passare in bianco le nottate» lo rimproverò con tono saggio, arrochito dal fumo della pipa, con occhio assottigliato e increspato dalle rughe premature. Una benevolenza scherzosa celava abilmente la profonda preoccupazione e accorata paura per quell’anomalo, pericoloso attaccamento ad un passato che il suo gracile pupillo conservava con reverenziale cura, in attesa di poterlo riesumare. Troppo scosso, troppo assuefatto, il suo cuore non accettava di lasciar cadere nello scrigno delle memorie la più dolce e innamorata di tutte: quella della tenera infanzia, sottrattagli con crudele celerità assieme a coloro che soli fra tutti adorava.
Sarutobi tentava ogni sera di mostrare ad Orochimaru nuovi appigli per salvarlo.
L’accompagnò mentre scivolava arrendevole con distaccato volto sotto la coltre ricamata che avvolgeva il materasso, dove perse il suo viso diafano nel cuscino gonfio, ispirandone il profumo e giocando a indovinare quale fragranza eterea scaturisse dalle fibre. Se era noce moscata erano i capelli di suo padre, se era giglio di campo era il collo chiaro di sua madre.
Sarutobi tese le ruvide mani e rimboccò la coperta sul suo corpicino rannicchiato. Indugiò sul suo viso inespressivo, che così mal si addiceva a quell’aria fragile che pareva avere, lo scrutò, così calato in profondità abissali, e si preoccupò per quali incubi e sogni avrebbero potuto avvolgerlo in un torpido e temibile abbraccio.
«Vuoi… che ti racconti qualcosa?» gli chiese allora, sentendosi un po’ ridicolo nella sua schiettezza per quella fanciullesca proposta, fuori luogo sulla sua persona e sulle sue labbra. Non sarebbe dovuto essere lui, semplice insegnante di arti di assassinio, a narrargli favole al lume della lanterna quando calava la sera.
Quegli occhi grandi da bambino, già assottigliati per la concentrazione di leggere jutsu su rotoli sbiaditi e corrugati per la perenne espressione che da solo si scolpiva nell’alabastro della sua pelle, mostrarono un accenno di macchinosa meditazione. «Le volevo chiedere di quella tecnica che oggi Jiraiya provava ad usare…».
«Oh, no, Orochimaru» scattò Sarutobi, le sopracciglia folte che l’ammonivano, sfiorate da una punta di esasperata rabbia. «Kami, no, non chiedermi di jutsu! Non ci sono solo quelle al mondo, sai?».
Il bambino, rimproverato da quel tono roco che placava i suoi istinti con la sua autorità, tacque e non si pronunciò, forse temendo di sbagliare ancora, ma più probabilmente ritirandosi in una muta protesta che privava il suo maestro di ogni appiglio, sottraendogli anche i più scivolosi ed impervi.
Sarutobi abbandonò la schiena e soffiò impercettibilmente, forse pentendosi della sua durezza, scavando ancora più a fondo per recuperare la presa sul fumo inafferrabile che gli sfuggiva fra le dita e, beffardo, lo derideva per i suoi tentativi.
«Sono uno sfogo, lo capisco, ma ne parli da mattina a sera». Provò a ironizzare bonariamente e con l’accenno di un sorriso, in un tentativo coraggioso di risollevare un’atmosfera troppo pregna e pesante che permeava l’aria: «Poi lo credo bene che Jiraiya ti dice che sei noioso».
E il gracile fanciullo alzò appena il volto con uno sguardo capace di farti sentire inadeguato in qualunque circostanza nonostante lui si trovasse dentro ad un letto, disperatamente artigliato ad un cuscino. «Lui non fa altro che parlare di donne e di ragazze. Non sono io quello noioso».
Un sorriso fu strappato dalle labbra di Sarutobi, nonostante tutto. «Si, beh… E’ un po’ precoce».
«Tsk». Lo sguardo del bambino si adombrò e Sarutobi rifletté che non solo Jiraiya era precoce; lo era anche Orochimaru, solo su ben altri fronti, molto più utili ma anche molto più oscuri. Con un’orribile ironia, queste ultime due cose arrivavano quasi sempre a coincidere.
In onestà, Sarutobi avrebbe forse rinunciato al giovane genio che allenava, per crescerne un altro senza talento ma ancora capace di distrarsi, ancora capace di sorridere davanti a qualcosa che non fosse un rotolo di jutsu. Alle volte desiderava che Orochimaru fosse un bambino come tutti gli altri, che non si distinguesse, che non avesse quello straordinario talento che lo malediceva.
Anche ora, quando placidamente il suo viso pallido ed efebico si rilassava sul cuscino bianco, gli occhi si socchiudevano appena e le ciglia oscuravano la vista delle sue paglierine pupille, Sarutobi non vedeva pace nella sua giovane mente.
Il ninja sospirò, lentamente soffiò aria dai polmoni, guardando la camera buia e vuota, cogliendo per un attimo tra le spire dell’oscurità quel desiderio di riempirla di nuovo che Orochimaru perpetrava incessantemente.
Lo intravide, il suo desiderio, guardando la stanza ed il suo mobilio, il giardino fuori dal portico che friniva del verso delle cicale, e lo comprese. E di quel desiderio ne ebbe, nel profondo dell’animo, un’irrazionale paura.
Si voltò di scatto, colto da un’allarmata frenesia, come se temesse che il fanciullo fosse sparito, rapito dalle sue stesse fantasie.
«Orochim…».
Non ne completò il nome perché Orochimaru era già addormentato.
Adombrato ed irrequieto, lo osservò e si limitò a rivoltare le coperte sul suo fragile corpo.

Per innumerevoli notti future le mani callose di quel vecchio guerriero carezzarono al buio i fluidi e neri capelli del bambino, allietandogli il solitario riposo degli orfani.
Innumerevoli altre volte gli occhi del futuro Terzo Hokage guardarono quelli del suo geniale allievo, scorgendovi cose che sapeva marce e sbagliate, ma limitandosi solo ad aggrapparsi alle proprie speranze, confidando nel futuro e nella ragionevolezza.
Sarutobi confidò ed aspettò, e Orochimaru, giorno dopo giorno, tramonto dopo tramonto, gli sfuggiva via come grigio fumo tra le dita tese ad artigliare l’aria.

La primavera posava sui giunchi dello stagno come una farfalla leggiadra e sgargiante, friniva fra l’erba curata quando un grillo mandava il suo richiamo, e cantava dalla gola di un fringuello posato su un cornicione.
Nell’aria fresca danzava un profumo leggero di fiori sbocciati, di regali tra innamorati e di rosati petali di ciliegio, volati via dai rami, turbinanti in mulinelli rasenti terra.
Nella festa dei ciliegi si erano festeggiate le piante e le loro fioriture, se n’era decantata la bellezza, ammirandola nei curati giardini delle signore dove i boccioli avevano colorato di una macchia di incanto ipnotizzante le chiome secche sfuggite all’inverno.
In quella grande casa elegante la carpa del laghetto schizzava acqua ai suoi salti, facendo frangere la luce sulle scaglie cangianti della sua pelle, e Orochimaru trovava ammaliante lo spettro iridescente che si rifletteva nei suoi occhi ogniqualvolta il pesce si godeva la sua libertà, saltando, giocando, guizzando, senza curarsi del sole e della pioggia, dell’ora o della stagione.
Ma l’enigmatico fanciullo reputava ancora più meraviglioso l’incantevole colore del ciliegio che sorgeva nel suo giardino rinato, col profumo appena rintracciabile nell’aria ed i rametti rossastri che si snodavano tra le camme bianche e rosate.
Sedeva sulla veranda di legno scuro che correva attorno a casa sua, lasciando pendere i piedi pallidi sopra lo specchio dello stagno, e alternava uno sguardo senza espressione dai rotoli sulle sue ginocchia al ciliegio nel pieno della sua fioritura, sviluppando man mano un pensiero sempre più elaborato, sempre più fascinoso e sempre più letale.
Il sole gli balenò negli occhi dorati per un attimo, rischiarando la nitidezza della giornata, una di quelle giornate in cui bisognerebbe vagare senza meta per le strade scherzando con gli amici, una di quelle in cui si sorride per niente e si gioisce per tutto.
Sarutobi immaginava Tsunade con le amiche mentre passeggiava nel centro, e si figurava, con un piccolo e malizioso sorriso, Jiraiya dedicarsi alle sue attività preferite nei pressi dei fumi termali. Non gli era occorsa fatica per determinare le loro occupazioni, né gliene era occorsa per comprendere che Orochimaru non era uscito, probabilmente molto più attratto dai segreti dei jutsu che dalla vita mondana. Così si era recato a fargli visita, ammirando per la strada assolata il colore dei fiori e sorridendone per la bellezza e perché quegli alberi così rigogliosi nascevano proprio lì, proprio a Konoha, il suo villaggio che amava così tanto. Con una fioritura così magnifica, quell’anno più di una bambina sarebbe stata chiamata Sakura.
E sperando di poter convincere il suo pallido allievo a seguirlo fuori dalla sua grande villa, fino alla montagna degli Hokage, o fino al campo d’allenamento, o in qualunque luogo avesse desiderato visitare, era andato da lui, trovandolo adagiato nel portico esterno di legno ed incantato dallo spettacolo offertogli dal proprio giardino. Sarutobi trovò incredibile che la sua attenzione fosse stata distolta dal rotolo di tecniche che giaceva abbandonato sulle sue sottili gambe.
«Orochimaru?» lo chiamò, senza far rumore sul legno dove, scalzo, camminava avvicinandosi alla figura del bambino.
«Sensei» rispose il ragazzino, voltandosi e mostrando sul viso liscio una parvenza di sorpresa per quell’apparizione inaspettata e, forse, involuta.
«Studi?» gli domandò Sarutobi, sostando al suo fianco e rivolgendo un sorriso caldo al fanciullo ed uno sguardo ammirato allo spettacolo del giardino brillante.
Ma intanto quell’inquietudine e quell’allarme che avvertiva in sé, come un cancro erano cresciuti, si erano diffusi con angosciante perizia. Erano cresciuti come era maturato Orochimaru, divenendo un po’ più alto rispetto all’efebico bambino che era, un po’ più robusto, se possibile un po’ più altezzoso nei confronti dei suoi compagni di squadra, nei confronti del suo stesso maestro e di tutta Konoha.
«Leggevo» precisò il giovane ninja, ancora inconsapevole di essere destinato a divenire una leggenda e l’anatema di cui più il suo villaggio avrebbe avuto paura.
Ma ora che è bambino ancora può camminare in quelle strade, fantasticando in una strana, vaga e preannunciata immagine di quel che sarà un giorno, seguito da occhi troppo ciechi di fiducia, o tropo timorosi per vedere e dover così infrangere sentimenti friabili coltivati nel cuore.
Orochimaru, ancora ignaro, o purtroppo consapevole del viaggio che avrebbe deciso di intraprendere in quegli oscuri lidi, spostò gli occhi di serpe sul ciliegio oltre lo stagno, inducendo Sarutobi a cercare la direzione del suo sguardo.
«Vuoi venire al campo d’allenamento?» azzardò il ninja, già alzando le difese, già arreso davanti ad un rifiuto; ma deciso, almeno per una volta, ad insistere, incoraggiato dal sole e dalla giornata, determinato a non voltare le spalle.
Il ragazzino non si lasciò sfuggire parola dalle labbra sottili, appena dischiuse come in procinto di dire qualcosa, parve quasi ignorare la proposta del suo sensei. Concentrò i propri occhi brillanti sul giardino davanti a sé, catturando nelle iridi d’oro sottili scaglie di luce strappate ai raggi del sole.
«Non è bellissimo, Sarutobi-sensei?».
«Mh? Il giardino?».
Il bambino annuì, rapito. «Sì. Non lo trova meraviglioso?» ripeté, la voce limpida che lasciava trasparire il suo stato d’animo ammaliato, calato nella contemplazione.
Sarutobi, sorpreso da simili affermazioni e ormai disabituato a quella romantica meraviglia entusiasta dei bambini, rise involontariamente, richiamando gli occhi d’oro del suo allievo. «Sì, hai ragione» convenne il Jonin col sorriso sulle labbra e una sollevata serenità nelle pupille. «Quest’anno c’è stata una bellissima fioritura, anche meglio rispetto agli anni passati». Ed il giardino di quella casa era stupendo nelle sue colorazioni, era curato sin nei minimi particolari, seguiva i precetti della filosofia zen, era piacevole allo sguardo e rilassante nei suoi suoni. Sarutobi scorgeva ancora, impressa in quegli anfratti verdi, una figura di donna che curava le orchidee e puliva il laghetto dalle alghe, e vedeva ancora il sorriso tronfio e limpido sul viso di Orochimaru quando correva scalzo per il corridoio di legno e diceva a quella donna: “Mamma, ho preso trenta oggi, all’Accademia!” e lei che sorrideva d’orgoglio e tenerezza e sollevava il viso chiaro dai fiori, mormorando: “Bravo, tesoro mio”.
Sì, Sarutobi lo ricordava quel “bravo, tesoro mio”, come, era certo, lo ricordava anche Orochimaru, custodendolo gelosamente nello scrigno del suo cuore labirintico ed impenetrabile, forse carezzandolo ogni notte come una foto consumata dai troppi tocchi. Magari, pian piano, dimenticandolo.
Lui, da insegnante, era amaramente consapevole che quando erano le sue lodi a piovere sul fanciullo, quando era lui a elogiarlo, Orochimaru non sorrideva come a suo tempo aveva fatto con la madre. Quel tempo era perduto, costretto ad essere abbandonato alla corrente, o forse semplicemente lasciato affogare tra i flutti quando nessuno, neanche l’uomo più temerario, avrebbe potuto trascinarlo di nuovo in superficie.
«Una bellissima fioritura…» sussurrò ancora Sarutobi, accompagnando il ragazzino nella contemplazione, ammirando a sua volta le rughe del tronco del ciliegio, il movimento leggero dei giunchi, l’aria fresca che sfiorava l’acqua ed un petalo che vi si posava, epicentro di tanti piccoli cerchi, così delicato e discreto ma pur sempre scenografico nella sua semplicità.
Orochimaru congiunse le mani lisce e sottili sotto il viso, rilassò la schiena, o forse la chinò.
«E’ un peccato che questo momento debba passare».
Sarutobi si voltò verso il bambino.
«Vorrei che potesse durare per sempre».
I suoi occhi brillavano. Brillavano tanto, Sarutobi li avrebbe sempre ricordati. Dorati e bellissimi, brillavano come l’oro delle fate che ti rende l’uomo più ricco del mondo per una sera, e poi si dilegua alla mattina dopo in povere foglie morte.
«Orochimaru…» sussurrò fiocamente il ninja, suggestionato dalla luce di quegli occhi di serpe. «E’ perché questo momento è irripetibile che è così bello. Ti sarebbe piaciuto così tanto, il tuo ciliegio, se fosse sempre stato in fiore?». E la voce si fece più dura, vi scivolò un’ammonizione, si fece largo una paura.
Il bambino si voltò, alzò lo sguardo, lo sfidò. «No… credo di no. Ma adesso che è così splendido, sensei, è un peccato doverlo perdere».
Senza parole gli occhi contornati di rughe fissavano sbalorditi quelli di quel bambino che era il suo pupillo, il suo allievo prediletto, senza sapere se sperare serviva poi ancora a qualcosa. Non le poteva più denominare come fantasie di un fanciullo brillante. In verità temeva di dare un nome a quello che vedeva.
«Le cose non si perdono. Si custodiscono nel proprio cuore» rispose con la voce che tradiva ciò che il suo animo sconvolto provava. E ripeteva in sé quelle parole, le ripeteva come una lezione difficile non ben recepita. «Esattamente come il Fuoco del nostro paese, che tutti i ninja hanno dentro di sé e che il Primo ed il Secondo Hokage hanno lasciato a me, le cose passano di generazione in generazione, e vengono custodite nei cuori della più giovane».
Recitava, la voce di Sarutobi. Orochimaru avrebbe ricordato sempre come la voce del suo sensei recitasse gli insegnamenti, come se fossero quelli la sola spiegazione, come se le lettere dettate dallo Shodai e dal Nidaime Hokage ai loro ninja, le lettere scritte sui rotoli consacrati delle leggi, le lettere usate come appello e giudizio per ogni malefatta, fossero l’unica risposta che quella terra e l’istituzione del loro villaggio concedesse.
E in quel giorno di primavera reputò sciocco, privo di ogni libertà di pensiero recitare quei dogmi.
L’interruppe, perché le regole che la sua bocca pronunciava le conosceva bene. Era sbagliato contraddirle, perché volevano il bene di ogni shinobi ed erano ideate per la personale salvaguardia di ognuno. Era sbagliato infrangerle, perché sarebbe stato pericoloso per tutti. Era sbagliato aggirarle, perché bisognava pensare al bene del villaggio, che era il bene di ogni suo ninja.
Ma…
«Ma non le piacerebbe?».
«Che cosa, Orochimaru? Che cosa mi piacerebbe?».
Ma tutti desiderano, e pochi osano, ma tutti vorrebbero, e pochi hanno il coraggio.
Orochimaru, ancora fanciullo e già condannato, seppe così che Sarutobi possedeva una morale radicata in principi che non gli permettevano di vedere oltre quella sua domanda, quel “non le piacerebbe?” ancora così ingenuo e già così pregno di nettare e veleno. Perché non era che quello la colpevole e consapevole conoscenza, non era che nettare della più dolce delle fonti e veleno del più velenoso dei serpenti.
Sarutobi non aveva compreso l’ardito, profondo e tentatore significato delle cristalline parole del bambino, non aveva compreso che gli domandava se non gli sarebbe piaciuto tutto, non gli sarebbe piaciuta l’eternità? Non gli sarebbe piaciuto avere di nuovo, non avrebbe gradito scoprire quello che in una sola vita non si poteva avere? Non avrebbe versato lacrime commosse rivedendo i propri cari perduti, non avrebbe fremuto per l’adrenalina di correre simili rischi?
E quegli occhi scuri e preoccupati narravano ad Orochimaru la paura infissa nell’anima del suo insegnante, gli chiarivano che non capiva, non capiva lui come non capiva Jiraiya che non poteva provare simili cose perché ancora calato nell’idillio di una fanciullezza con amici, famiglia e sorrisi, non capiva come chiunque altro che avesse imparato a recitare le regole dello Shodai e del Nidaime.
Non capiva, come tutti gli altri, che era lo scopo, così ambizioso, così unico, così meraviglioso, a fare paura.
Orochimaru ascoltò il cinguettio di un fringuello sulla grondaia, inspirò il profumo del legno incerato della sua casa. Fissò gli occhi serpentini, specchio di un’anima giunta su rive oscure ed esotiche, sul ciliegio in fiore, che non sarebbe rimasto per sempre così idilliaco nel suo ameno giardino, ma del quale, un giorno, avrebbe riportato in vita il ricordo.
Ma non le piacerebbe, sensei?
«Orochimaru?» lo chiamò il ninja dopo quella pausa di surreale silenzio. «Orochimaru, che cos’è che dovrebbe piacermi?». Con timore gli porgeva quella domanda, senza voler davvero avere la propria risposta.
Il bambino non lo guardò di nuovo, i suoi occhi non brillarono più fissandolo in viso.
«Niente, sensei».

***

Su un tetto, una danza di lame, uno spettacolo di arti segrete, luci e scintille che contornavano la battaglia di un guerriero stanco e piegato dal tempo contro l’allievo prediletto. Contro chi aveva allevato ed elogiato e che gli si era infine rivoltato contro.
«Tu… sei un mostro» gracchiò la voce affaticata.
Il viso di bambino che lo sfidava, il viso che non apparteneva a chi ora era conosciuto come il Sannin dei Serpenti, si deformò lentamente in una smorfia, beffeggiando il suo vecchio maestro, poi scoppiò a ridere; ed era una risata crudele, sregolata, nata e nutrita da un macabro e pazzo divertimento.
Gli occhi scuri del Sandaime, opachi per la vecchiaia che lo curvava e che gli affannava il respiro, guardarono corrugati Orochimaru mentre rideva gettando la testa all’indietro e rivolgendo il viso a quel cielo grigio e nuvoloso, con le pupille sbarrate, le spalle che sussultavano.
Sarutobi guardò ciò che quel fanciullo a cui aveva insegnato le tecniche dei ninja era diventato, guardò il risultato della trasformazione che aveva intravisto e che non era riuscito a fermare, a prevenire.
La sua stessa indulgenza aveva firmato la condanna di entrambi.

Acqua sciabordava sotto i suoi piedi, due ANBU correvano alle sue spalle, seguendo i suoi passi affannati, che tradivano ansia, incredulità, sbigottimento. Ma pian piano comprendeva di non errare, perché le complicate trappole che scattavano veloci nel buio, preparate con tanta previdenza e tanta cura, potevano essere opera solo sua, solo della persona a cui aveva insegnato ogni singola tecnica di cui disponesse.
E ad ogni scatto, ad ogni lama che tagliava l’aria fredda del sottosuolo, ad ogni invisibile filo che, infido, chiamava i loro piedi per farsi calpestare, sia i dubbi sia le speranze si frantumavano con sempre più crudeltà, mettendo a nudo una verità che sconvolgeva, eppure che si sarebbe dovuto aspettare, lui come tutti.
Oltre quei corridoi, oltre una porta blindata, oltre le luci gialle che illuminavano l’acqua gelida sul pavimento, Sarutobi ebbe la prova che avere quei dubbi era stato stupido, che avere quelle speranze era stato inutile.
Davanti al volto cianotico di Orochimaru che lo guardava, canzonatorio e sprezzante, in quel giorno in cui finalmente scoprì in quale luogo era approdata la fantasia di bambino del suo allievo, mutandosi in una scellerata ambizione, Sarutobi seppe di aver fallito, di aver fallito ancora prima di cominciare.
E Orochimaru, invece, che ancora vedeva coi suoi occhi visionari il profilo di un ciliegio in fiore contro il cielo limpido di primavera, confermò infine che lo sconcerto, la rabbia, l’incapacità di comprendere del suo maestro non erano che le conseguenze di una radicata paura. Paura di osare, paura dell’ignoto. Erano ristrette vedute, principi che soffocavano chi li ascoltava, in un claustrofobico attaccamento alla comodità di ciò che è giusto e di ciò che è certo che impediva di puntare un libero sguardo più oltre.
«A cosa punti, Orochimaru? Cos’è che ti ha fatto spingere a tanto?». La voce seria del Sandaime era risuonata con una nota di sconforto, la nota rassegnata della sconfitta.
«A tutto».
Un desiderio grandioso, un desiderio terribile, un desiderio che tanti maturano ma poi abbandonano, come una fantasia scaturita da menti troppo fervide.
E così, lì, in quella stanza che odorava di sangue secco e dalla carne putrida dei cadaveri, proprio come in passato in quel giardino nel procinto di esplodere nei colori estivi e infine, nell’ultimo atto, proprio come su quel tetto affogato tra gli ultimi rimpianti e le ultime stoccate di Enma e della Kusanagi no Tsurugi, l’uno contro l’altro in una lotta troppo a lungo rimandata, Orochimaru vide con chiarezza ed intima soddisfazione la paura.
Nella loro battaglia sui tetti rossi di Konoha, rossi del sangue dei suoi ninja, rossi del colore del tramonto prossimo e del fuoco negli occhi dei duellanti, quella consapevolezza appresa anni ed anni prima si concludeva e trovava ragione nel pensare che era proprio quella paura a decretare la sconfitta dell’ormai vecchio maestro da parte del suo corrotto allievo. Mentre gli occhi del Sandaime Hokage brillavano della determinazione di chi ormai non ha nulla da perdere, mentre impegnava gli ultimi minuti della sua vita per tentare di sottrarre ad Orochimaru quel sogno che aveva perpetrato con una determinazione che non conosceva pietà, morale o altruismo, il Sannin confermò a se stesso che il suo sensei non sarebbe mai stato in grado di toccare i confini che lui aveva addirittura sorpassato. La sua solida, inutile etica l’aveva ancorato da sempre al suo villaggio, e da lì non era mai stato capace di scrollarsi di dosso i pesi e volare via sulle ali dei falchi.
Allora lo compatì, lo derise dall’alto della sua scala di nuvole, che gli dava una prospettiva troppo diversa perché potesse essere condivisa dagli altri, perché chiunque potesse agognare di averla.

Tu sei un mostro. Il risultato del mio ultimo fallimento.
Io sono oltre ciò che tu potresti mai arrivare ad intravedere. Io rappresento per te tutti i peccati che non hai mai avuto il coraggio di commettere.

























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La prima one-shot della raccolta. =ç=

Sulla raccolta in generale, ho da dire che è stata un’idea postuma alla scrittura di questa fic, che prima era una storia a parte, ma poi ho avuto lo schizzo di inserirla qui e così ho modificato titolo, introduzione e cose varie per farcela incastrare come primo capitolo. XD Lo so, è una capperata, ma ne avevo bisogno. XD
Ed il tutto è dedicato a July, perché senza le sclerate che faccio con lei non potrei scrivere questa roba.
Come già detto nell’introduzione della raccolta, tutto ciò è dedicato solo e solamente al Dio Onnipotente del Cielo e della Terra nei secoli dei secoli amen. Che sarebbe Orochimaru. =ç= E qui lo descriverò attraverso aforismi, rapporti con i personaggi, con la sua visione delle cose, dedicandogli una serie di one-shot. Chiariamo che aggiornerò quando scriverò una shot su di lui, non ci sono aggiornamenti prestabiliti (che poi sennò mi metto nella merda da sola) o cose simili. Anche se ho già in testa un bel po’ di cosucce fighe. =ççç=
Quindi chiariamo che non è una fic dedicata ai pairing ma solo al personaggio ed, eventualmente, alle “coppie” che si potrebbero analizzare. Se avete idee o proposte propinatemele, non si sa mai che sono fighe e le uso. =ç=

Poi.
Andiamo con le note alla fic, che sostanzialmente restano quelle vecchie che avevo già inserito.
La qui presente fanfiction era inizialmente stata pensata per il contest "Aforismi di Oscar Wilde", indetto da Rory_chan, che purtroppo poi è stato annullato per i troppi ritiri. Mi è davvero dispiaciuto, ero quasi arrivata in fondo alla fic. L'aforisma che avevo scelto era "Io rappresento per te tutti i peccati che non hai mai avuto il coraggio di commettere", che campeggia anche in fondo alla fanfiction ed è un po' tutta la colonna portante della storia.
Siccome mi sarebbe piaciuto farla partecipare ad un concorso, l'ho voluta iscrivere successivamente al Contest Personaggi Secondari, scegliendo come personaggio il Sandaime, ma poi, da scema che sono, l’ho pubblicata giustamente in anticipo e non ha potuto partecipare. -__-

Ho voluto qui analizzare il rapporto presente tra Sarutobi e Orochimaru, prima quando quest’ultimo è bambino, poi cercando di cogliere il momento in cui il suo animo imbocca la strada che poi percorrerà fino a corrompere il suo animo. Ho provato a parlare in parte dei sentimenti che hanno spinto Orochimaru a comportarsi in tale modo, e soprattutto ciò che ha provato Sarutobi, ciò che l’uno ha pensato dell’altro. In generale la fic ruota sull’aforisma di Oscar Wilde che ho citato, come a dire che Orochi avrebbe forse accolto l’appoggio del suo maestro, ma non si sarebbe lasciato convincere nel cambiare strada. Orochimaru dice a Sarutobi “se solo avessi voluto avresti potuto ‘vedere’ quello che io ho ‘visto’”, e Sarutobi invece lo accusa di essere un mostro ed il suo fallimento, mostrando gli opposti punti di vista che i due personaggi hanno. Sarutobi non è esattamente il protagonista, piuttosto lo è lo scontrarsi delle idee di entrambi.

Infine aggiungo che la frase "Per innumerevoli notti future le mani callose di quel vecchio guerriero carezzarono al buio i fluidi e neri capelli del bambino, allietandogli il solitario riposo degli orfani" appartiene alla bravissima autrice satsuki (non presente su EFP), che mi ha concesso di inserirla. Codesto è il suo blog. La ringrazio di nuovo per il favore che mi ha concesso! (Chiunque passi di qui, sappia che è così che si fa. Si chiede il permesso per usare qualcosa di un'altra fic, anche se è una sola frase. Se no si chiama plagio, pravi pimpi).
Inoltre mi hanno pure lasciato una recensione esterna su un blog, che mi ha gasata tanto e della quale ringrazio immensamente l’autrice. =ç= La potete leggere qui

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-Tra poco pubblicherò un prologo di una fic a quattro mani che scriverò assieme a Cira (che ringrazio anche perchè le rompo sempre e quella cara ragazza mi sopporta ogni volta), una KimimaroJuugo, per la precisione. Ci sarà parte del prologo nel mio account, un'altra parte nel suo, e poi verranno ripubblicati entrambi in un account condiviso con la fic.
-Per quelli che seguono "Konoha- Eredi del Sangue". Non disperate. Quel capitolo arriverà, anche se con un certo immenso ritardo. Mi perdonino i lettori. ç_ç

Alla prossima, spero che vi sia piaciuta! Fatemi sapere. *-*

Kupò.
   
 
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