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Autore: Targaryen    28/06/2015    6 recensioni
E’ silenzio, il mare, pesante, profondo, senza tempo, e io sono ombra che attende il risveglio.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Amroth, Nimrodel
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Arda'
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Aear
 
 
Chi vedrà una nave bianca
lasciare l'ultima sponda,
i pallidi fantasmi
nel suo freddo petto
simili al lamento dei gabbiani?
Chi si accorgerà di una nave bianca,
vaga come una farfalla,
fra le correnti marine
su ali come di stelle,
quando il mare si gonfia,
la spuma irrompe,
le ali scintillano,
la luce scema?
(“Markirya” di J. R. R. Tolkien)
 



E’ silenzio, il mare, pesante, profondo, senza tempo.
Ricordo lo sciabordare calmo della risacca nei giorni in cui neppure un’onda disturbava il riflesso del cielo, e ricordo il galoppare violento della spuma quando l’acqua frustava la roccia, quando l’aria diveniva densa e le nubi nere scaricavano tempesta. Sopra di me anche ora i flutti ruggiscono furiosi sfidando legno e vele, ma questo è il regno del silenzio che guida le correnti. E’ calmo il ventre del mare in tempesta, e non ha pietà, come il tempo.
Può piangere un morto?
Sto piangendo, mentre scivolo oltre il mondo attraverso questa tenebra fredda come la mano del destino. Lacrime invisibili, silenziose, gocce di mare che ritornano ad esso, ma il mare non se ne cura. Non può capire, il mare, e non possono farlo coloro che hanno soffiato nell’ainulindalë l’alito della vita. E’ una vita che non comprendono, la nostra, troppo intrecciata alle sorti di questa terra, troppo fragile dinanzi a un dolore che non colpisce attraverso il taglio della spada. Come potranno essi guarire il mio spirito, se ancora si domandano come possa uno spirito desiderare di non sentire più nulla?
Può un morto avere paura?
Ho paura. Sono memoria, ormai, il sospiro di ciò che è stato e il tremito della fiamma in bilico tra lo spegnersi e l’essere ancora. Era il sole che scaldava la mia pelle o eri tu, sdraiata sulle rive del fiume che attraverso la tua voce intesseva lodi alla libertà dell’oceano? Non c’è calore nel tocco del mare mentre mescola alle sue acque i miei ricordi e li accompagna verso occidente. Promisi di portarti all’ovest, ma lo raggiungerò per primo in guisa di spirito abbandonato sulla sabbia, una promessa infranta per ogni refolo che accompagna il ritorno dell’onda, finché tutto ciò che siamo stati avrà lasciato queste sponde e solamente chi non può parlare saprà che non fummo solo i tragici amanti celebrati da un canto.
Ho amato, sussurro all’abisso, ho amato il padre che mi ha insegnato a camminare da solo e ho amato il popolo che mi chiamava re, ma non ho amato nessuno più di quanto abbia amato Nimrodel. Per Nimrodel ho smesso di essere re, per amore ho messo da parte il dovere e ho soffocato la colpa.   
Non voglio andare, Nimrodel, non voglio la pietà di Mandos e il ristoro delle aule dell’attesa. Voglio tornare a quei giorni lontani in cui credevo che ogni cosa fosse per sempre, voglio respirarti ancora come la foresta respira la notte e sentire le foglie sfiorare la mia pelle attraverso le tue mani. Voglio rivedere la luce del giorno guidare la tua danza e voglio seguire il viaggio delle stelle, mentre le tue dita raccontano sogni di pace su di me e la notte invecchia insieme a noi.
“I nostri sogni passano come il vento e tramontano insieme alle luci nel cielo”, mi dicesti una sera, e mi parlasti di un desiderio di terre sicure che era nato nel tuo cuore e che si gonfiava insieme alla paura per ciò che strisciava nell’oscurità.
“Catturerò il vento per te,” ti risposi allora, “E gli domanderò di condurci dove le caverne non vomitano tenebra e dove potremo fermare quel sogno.” Ricordo il tuo sorriso e ricordo il tuo cenno di assenso dopo secoli di attesa, mentre l’alba incendiava gli alberi e regalava al bosco colori mai visti. Ricordo, Nimrodel, ma tutto è sbiadito nel grigio spento che ha sferzato lo scafo e che ha disperso i colori.   
Può avere sete l’acqua?
Ho sete, mentre piango tra le fronde, scorro cantando il canto del fiume e muto da foce in sorgente. E’ mio ciò che sento o appartiene a te? Sono io colui che si arrende al richiamo dell’ovest, o sei tu?
Corrode lo spirito il dolore, e io sono stanco, e la melodia che si leva da quelle lontane terre così invitante. Abbandonati a noi, sembrano mormorare le correnti, perché su queste rive la freccia scoccata dal tuo arco ha terminato la corsa. Un altro dardo partirà nel crepuscolo dell’occidente, e nuove promesse saranno plasmate se lo vorrai.
Nessuna scelta è a me concessa, mentre a te ne resta una. Cosa farò se tu dovessi scoprire un canto più dolce di quello dell’ovest nella musica che accompagna il lento fluire della linfa? Come potrebbe mai l’alba accendersi ancora se lo eleggessi a tuo sposo dimenticando me?
Tua è la nostra speranza, Nimrodel, e mia la preghiera che scende verso l'oblio.
E’ silenzio, il mare, pesante, profondo, senza tempo, e io sono ombra che attende il risveglio.


 
Nota:
Il poema “Markirya” è stato redatto da Tolkien in lingua quenya mentre Amroth è di origini sindar, ma la sua bellezza e la relativa vicinanza dei temi trattati spero giustifichino l’incongruenza. “Aear” significa “mare” in sindarin.




 
  
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