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Autore: RitaWhitlock99    28/06/2015    2 recensioni
Atena è fuggita dagli Stati Uniti, dall'Olimpo, è a Roma, sono gli anni Novanta e lei ha una storia lasciata a marcire nella sua testa sempre troppo razionale e troppo piena di pensieri. La cattedra nella facoltà di Scienze Archeologiche, l'appartamento con una sola stanza, quel poco di stabilità che aveva saputo crearsi nella Città eterna, voleranno via e lei sola con se stessa, con qualcosa che non le appartiene. E solo scuse da dare per amare.
«Io non posso combattere una guerra contro mio padre quando devo combattere una guerra con-tro me stessa.»
«Allora lo ammetti?»
«Sì, lo ammetto. Io sono innamorata di lei, di quella donna.»
Sorride, quasi tristemente: «E allora lascia la logica da parte, Atena.»
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Apollo, Atena, Ermes, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ehm salve, semidei *fa capolino dal Tartaro che ormai è diventato un rifugio attrezzato* Ho abbandonato la sezione PJ da un anno con una one shot su Ade che in pochi ricorderanno (meglio così, almeno non sapete dove cercarmi in caso vogliate farmi fuori dopo aver letto questa storia XD) ma ora ho deciso di ritornare ad infestare codesto fandom *abbiate pietà*. Allora, da dove cominciare... Forse troverete Atena un po' OOC in queste righe ma non è così: ho voluto tirare fuori questa divinità dal suo lato divino appunto e metterla di fronte a sentimenti umani, di fronte a cose che nemmeno la sua ragione è in grado di capire. Troverete un'Atena umana e in cui c'è molto di me, molto anche di Annabeth... Una storia di una donna, non di una dea, una storia vissuta. Metto il freno alla mia logorrea e vi lascio: se leggete, recensite, lasciate anche solo un righino; l'opinione è il profumo della vita :)


RitaWhitlock99





 
She's running out again, 
She's running out 
She's run run run running out...

Whatever makes you happy 
Whatever you want 
You're so fuckin' special

Creep|Radiohead 



Toccare. Toccare. Toccare. Pietra. Pietra. Pietra. Colonne. Colonne. Colonne. Tempio. Modellare la pietra con le dita come se fosse creta, argilla che si spezza, si ricompone, l’aria del Tevere nei pol-moni che sa di sale pur non essendo mare e sa di morto, di decadente. Ce dicono de vive da morti per poi resuscità… Nell’azzurro di Roma viva che balla ai nostri piedi e si alza ad ogni passo come un sole che volge a mezzogiorno, camminiamo. Toccare. Toccare. Toccare. Istinti domati e impauriti. Toccare. Toccare. Toccare. 
Le colonne del Pantheon sono grasse, lisce ma la pietra è aggrumata come pasta di mandorle. Lei ci poggia la mano, incantata, pensierosa con quei occhi di aria e fatti di menzogne, per me nudi e ubriachi, sinceri e alcolici che con uno sguardo accendono sigarette e poi le spengono a carezze di sensi di colpa. Toccare. Toccare. Toccare. 
Ho fatto l’archeologa per anni. In teoria, pur non avendo una laurea, pur non avendo  un diploma, ho sempre fatto l’archeologa. Recupero pezzi di verità e di buono in metri e metri di inutile e fetida terra che nasconde e protegge e corrompe ma pur sempre protegge dal demone del tempo e degli occhi azzurri indagatori. Ora non so se sapete come si ritorna da uno scavo… Con le ossa rotte, le braccia graffiate e doloranti, i piedi fatti pesanti dagli scarponi e una sensazione di vuoto assurdo allo stomaco, lo stesso vuoto di quando si mangia troppo e in fondo lo stomaco è solo teso come un tamburo ed è vuoto perché quei denti fremono per riempire ben altro buco che non è affatto l’esofago. La mia vita è un ritorno da uno scavo. La voglia di tornare tra la terra fetida e trovare un altro pezzetto di verità e allo stesso tempo il ribrezzo dello schifo che si accumula addosso, la puzza di museo che nemmeno cento docce laverebbero via. La mia vita è un ritorno da uno scavo. La stanchezza che invece di coperte fredde e morbide per essere placata vorrebbe trovare pelle in fiamme, una piega sul collo, bisogno di sangue. Toccare. Toccare. Toccare.




Traccio una grande “X” sul paragrafo appena scritto: non mi convince, sembra falso, sembra disperato. 
«Che scrivi?»
«Non so scrivere, dovresti saperlo.»
«In un’eternità ti ho visto scrivere un sacco di cose, ti ho visto ispirare le menti, fonderle col tuo pensiero, rialzarle o ucciderle con la sola forza degli sguardi. Ho visto le penne esaurirsi nel giro di una settimana, ti ho vista sveglia fino all’alba, prima che io e Eos aggiogassimo il carro tu eri lì curva, a farti sfottere dai venti e da Efesto che ti chiamava figa di legn... »
Gli lancio un dizionario di francese in piena faccia ma lo afferra con una prontezza di riflessi assur-da: «Sei violenta, sorellona.»
«Apollo, sparisci. Ritorna da Artemide, potrebbe sentirsi sola e staccare le palle a tutti gli uomini nel giro di un kilometro.»
Apollo sbuffa, uno zefiro leggero di maggio gli scompiglia i capelli biondi tagliati lunghi: «Ma Arte-mide è così noiosa…»
«Anche io so esserlo.» Ribatto, gelida. Per essere il prologo dell’estate, è una notte troppo calda, sembra luglio inoltrato, la finestra della mia stanza è spalancata e come elemento decorativo sul davanzale c’è seduto il cretino più figo del mondo, mio fratello Apollo. «Ora mi guarderai con uno di quelle tue occhiate assassine, scommetto.»
«Sì.» Ci squadriamo per due minuti buoni, poi scoppio a ridere. «Ma lo vedi quanto sei incoeren-te?» Mi prende in giro lui. Per tutta risposta gli lancio il cuscino, si scansa e l’ammasso di piume finisce direttamente fuori dalla finestra. «Buci de culo! Mortacci!» È Cesco, il barbone che tutte le sere viene ad accamparsi sotto questi appartamenti, ubriaco come una spugna.  Lancio un’occhiata a metà tra il divertito e l’aria di chi l’ha fatta grossa ad Apollo: lui mi fa un cenno tipo cameriere Prego, affacciati. Tocca a te. «Cesco!» Esordisco. Il barbone alza gli occhi neri offuscati dal liquore verso la finestra: «Chi è?»
«’A professoressa, Cesco.»
«Oh signorì! Voi siete?» Il suo tono si addolcisce subito, diventa quasi educato, professionale.
«Sì. Scusate tanto Cesco ma stavo scrivendo sul davanzale, mi sono appisolata e il cuscino…»
«Ma no, voi siete bella, siete intelligente. Non ve preoccupate! Me tengo io er cuscino, se non le dispiace però… Non fa male, sa, abbandonare un cartone per un ‘ggiorno e… »
«Va bene, allora buonanotte Cesco.»
Ritorno dentro e per poco Apollo non crepa dalle risate, accasciato sul letto: «”Voi siete bella”, po-vero scemo.» 
«Invidioso, fratello?» Mi piace provocare, concedetemelo. Devo pur sfogare la mia frustrazione in qualche modo.
«No affatto. Ma devo ammettere che in pantaloncini e reggiseno non sei male, Atena.» 
«Ma sei venuto per sfottere e basta?»
«Sì.»
«Preferisco Ermes.»
«Se vuoi ti mando lui.»
«Voglio stare da sola ora. Nessuno ti ha chiamato.»
«Ogni volta che qualcuno scrive, inconsapevolmente mi chiama e…»
«Addio, Apollo, porta un cazzo in culo a papà Zeus che ne ha bisogno sempre.» Gli butto una gi-nocchiata nel fianco, facendolo cadere dal letto. Si alza di scatto, in fondo ai suoi occhi comincia a bruciare il fuoco dell’ira e il suo sguardo si imbatte nel mio, lo incateno nel ghiaccio e nella tempesta, sfugge, si divincola, è una battaglia muta. Alla fine capisce di aver perso in partenza una guerra così: «Addio, stronza.» Sorrido: «Cià.»
Ritorno tra il groviglio di lenzuola nell’angolo, con una lampadina portatile da libri accesa, la penna nera Bic, i fogli a righi rigorosamente coi margini. Le pareti sono librerie strapiene di cianfrusaglie, libri, armi, carte, scudi, penne, fotografie in bianco e nero, seppia, a colori, quadri e polvere, polvere su polvere: ogni volta che mi trasferisco mi porto dietro l’antiquario delle mie memorie, o almeno una piccola parte, quella a cui sono più affezionata, di tutta la Storia che ho vissuto. La camera è stretta, quasi soffocante, nell’angolo la cucina a gas, in questo alto angolo il letto e alle sue spalle un armadio, di fronte la finestra.
 È un monolocale al decimo piano della periferia Est di Roma, ci sono le siringhe sui marciapiedi, l’odore di canne e di sigarette, il tabacco nell’aria e il piscio agli angoli delle strade. Ma qui, lontano dai fasti di un centro storico ormai affogato nella propria ostentata superiorità, c’è il buio: i lampioni sono rari, le stelle sono tante e lontano, a sinistra, a destra, dappertutto l’orizzonte è arancione, brillante di illuminazione urbana e quella è Roma, Roma, Roma, la città eterna che sempre mi ha odiata e che più odio ma che alla fine amo alla follia come una parte di cuore.  Il cuore… Non dovrei nemmeno pronunciare questa parola. Ma non me ne frega un cazzo di essere la dea di sto gran cazzo e della strategia dei cazzi e della guerra tra cazzi. Ermes o Apollo direbbero che sono repressa a ripetere così  tante volte la parola CAZZO. Forse hanno ragione ma io “cazzo” lo dico quando cazzo mi pare. Cazzo. Ciclo? Non ho il ciclo, i miei sbalzi di umore sono ragionati, la mia collera è ragionata. Basta, sto divagando.  La logorrea. I complessi. Porco Zeus!
Mi alzo di scatto, faccio il giro del monolocale innumerevoli volte, come una belva in gabbia. Toc-care. Toccare. Toccare. La sua pelle, i suoi occhi, il suo odore ebbro, il suo calore, la sua profonda umanità… Sia maledetto il mondo perché l’ho incontrata, sia benedetto il cielo perché esiste, sia il fuoco quando parla, sia l’urgano quando tace. Sia lei dall’alto dell’inferno, sia lei dagli abissi dei venti. Possa morire se non crede che ciò che dico e spergiuro sia la verità e che a ucciderla possa essere io in tal caso.  
Tè. Sì, sia lodata Demetra per il sacrosanto Tè  e soprattutto per il tè turco e giapponese. Mi dirigo verso il fornello, sotto c’è la bombola del gas, giro la valvola, prendo l’accendino, basta una scintil-la e dovrebbe accendersi: il tè all’una di notte non concilia molto il sonno ma a volte è più impor-tante il bisogno in sé di qualcosa rispetto ai suoi effetti. Prima scintilla: niente. Seconda scintilla: niente. Terza scintilla: bestemmio tutti gli dei in ordine alfabetico. Mi sfugge un Vaffanculo! a denti stretti: la bombola è finita, non ho abbastanza soldi per ricomprarla almeno per tutta la settimana, il mese finisce tra un po’, lo stipendio è una lumaca ad arrivare e come le lumache in un boccone svanisce. Decido di tornarmene a letto, a chiudere gli occhi e ad aspettare, a pensare: entro domani mattina devo prendere una decisione e la ragione non c’entra, tutto è contraddittorio, semplice e stupidamente complicato, tutto è umano. Chiudo gli occhi e la memoria mi divora.
 
*

1.    La mano morta

«Il fatto che il Pantheon sia stato convertito in basilica cristiana nel 609 d.C. con il nome di Santa Maria ad Martyres, ci fa capire istantaneamente due cose: a)il 69 non è sicuramente un numero casuale perché i cristiani ormai erano scivolati nella frustrazione sessuale più assoluta e poteva sfogare la loro perversità soltanto indirettamente ma… » Dal fondo dell’aula le risatine maliziose dei ragazzi non tardano ad arrivare: «Ma parla proprio lei che nun c’ha manco un coglione che se la scopa…» Chissà perché ma mi aspettavo anche questo commento. 
«…Ma ciò non giustifica l’esistenza di individui come il signor Gallo Giuseppe nato il 13 maggio 1975, originario di Soriano nel Cimmino, viterbese, che infanga la propria intelligenza facendo commenti insulsi sulla sottoscritta e che rimpiangerà amaramente di essere entrato in quest’aula che d’ora in poi potrà vedere col binocolo soltanto dalla finestra del bagno qui di fronte.»
Gallo fa cadere i libri, gli sfugge un’imprecazione: «Vabbè mi deve scusà…» 
Insegno alla Sapienza da sei mesi, qui a Roma: Scienze archeologiche, ho una classe di teste calde, gente mandata a calci fuori da un liceo artistico, una maturità stentata con un sessanta, settanta nel migliore dei casi e test superati con aiuti soprannaturali. Hanno trovato me, fuggitiva dagli Stati Uniti, perfettamente camuffata tra gli umani, stanca, fragile, un metro e sessantacinque di una trentenne dai modi bruschi, coi neuroni bruciati ma che almeno quella storia l’ha vissuta, ne conosce il sapore, il calore, gli aneddoti, ne conosce le fila perché l’ha scritta. Ma io qui non sono una dea, sono solo la passione che incarno, sono solo la donna che deve aiutare questi ragazzi a vedere l’arte, a toccarla e a renderli partecipi. Ho deciso di staccare con tutto lo schifo dell’Olimpo, ho deciso di staccare con tutto e di venire qui a smaltire un po’ di quel fuoco che ho dentro, ad accendere le intelligenze di queste vite nel mezzo degli anni 90. È quello che so fare, il libro umano. I miei pochi sentimenti si limitano a questo. 
«Dicevo ci fa capire anche che ormai tutto ciò che riguardava la romanità, si trasformava in servi-zio di un solo dio, un unico dio che avrebbe tenuto le redini di un’intera Europa durante tutto l’arco del Medioevo. Ma questo ci interessa relativamente.»
«Appunto.» Sbuffa Caterina dal primo banco. È l’emblema del Grunge, questa ragazza. E ho detto tutto se alla parola grunge aggiungo “Nirvana”. Immaginatevela voi, perché è uno stereotipo vi-vente. Ma quel “appunto” mi è piaciuto. È una provocazione.
«Appunto.» Ci fissiamo. I suoi occhi neri e densi nei miei, grigi e duri. Non abbassa mai lo sguardo, le sorrido: «Appunto! Signori, siete futuri archeologi si o no? Vi voglio sul campo, alzate il culo da quelle panche: oggi lezione a Via della Minerva e a Via della Palombella.»
«Al Pantheon…» Sussurra la secchiona della classe, Francesca.
«Sì.»


Ai bambini di solito si insegna a non toccare nulla di ciò che si trovi a terra, soprattutto in strada: è sbagliato, tutte le regole tradizionali finiscono per diventare sbagliate nell’archeologia. L’archeologo deve toccare e si deve sporcare, si deve ammalare di quella strana malattia che è la storia, la puzza dei secoli. Questi ragazzi devono toccare il Pantheon, le sue colonne, rimanere in-namorati di quelle pietre grasse e grumose come pasta di mandorle per non doverle lasciare mai più. Ma questa non è soltanto una lezione, lei è là, là con tutte le sue preghiere taciute, è là, ma non potevo saperlo, non potevo evitarlo. Il cielo è azzurro, il sole spacca le pietre, martella, martella e noi camminiamo. Camminiamo. 
Gli artisti di strada sono tanti a Roma, ti circondano con le loro opere veloci e impressionanti, ven-dono la loro matita e la loro arte spesso per soli 5 euro, come se un pezzo della loro anima potesse valere così poco: lo fanno per sopravvivere in questi tempi di aria costosa, ogni respiro è denaro sonante. Come al solito la piazza antecedente al Pantheon è gremita di pittori, disegnatori, fumettisti, i musicisti sono più avanti, su Via del Corso, qui è il loro regno. Passiamo tra la calca di turisti a fatica, una classe universitaria di soli venti giovani (il restante 99% della gioventù evita saggiamente di iscriversi a Scienze archeologiche e non posso biasimarli, visto che sono soltanto accorti a non volere uno stipendio da fame) e io tra loro, più bambina di chiunque. Adoro i templi. Mi fanno sentire a casa, malinconicamente a casa, sono in pace, sono ad Atene, sono al cospetto di Pericle, di Socrate, dei Trenta Tiranni… Ma di tutto questo non rimane altro in me che una maschera da una commedia drammatica. 
 «Professorè, ma che ce semo venuti a fa’?»
«A toccare.»
«E cosa? ‘Na tetta de Venere?»
«Il Pantheon, stupido!» A volte apprezzo gli scatti da ragazzina mestruata di Francesca.
«Esatto, ragazzi. Voglio che tocchiate qualunque cosa possiate senza farvi denunciare o rapire dai cinesi all’interno della basilica. Tra mezz’ora ritornate qui e ne parliamo.» I ragazzi mi guardano scettici, li incoraggio a entrare dentro con un mezzo sorriso.
«E lei?»
«Io resto qua, queste pietre le conosco fin troppo bene.»
Resto all’esterno, seduta sulla base della colonna alla mia destra a godermi il caos della Roma delle undici del mattino, quel groviglio di gente che parla e parla, il loro brusìo incomprensibile perché è una cosa sola, la loro lingua, è la lingua degli uomini. Vorrei scrivere, vorrei gettare qualcosa fuori sulla carta vergine… Non ho una penna, cazzo, non ho una penna. Prof senza penna? Be’, sì. Mi guardo intorno, una ragazza è seduta sul muretto di fronte al lato sinistro del Pantheon, è china su se stessa, sta disegnando, ma lei non vende, non ha cartelli, non ha prezzi. Sta là e disegna. 
«Scusi, ce l’ha una penna?»
«Lei è un’insegnante e non si porta con sé nemmeno una Bic?»
«Come fa a…»
«Ho origliato. Semplice, no?» Alza lo sguardo dal foglio: i suoi occhi sono miele scuro, quasi casta-no, piatti, duri, mascherati, abituati a nascondere la loro anima nonostante le sopracciglia sottili, leggermente inarcate; i riccioli neri e fitti le scendono sulla fronte e sulle spalle, il sole riflette centinaia di sfumature rossicce tra le ciocche disordinate. 
«Interessata all’archeologia?» Ribatto con la mia solita freddezza compassata, un po’ ingenua.
«Uhm non del tutto.»
«Comunque… Elsa.» Offro la mano, è un esperimento che faccio sempre, farmi un’idea generale di una persona soltanto dall’intensità della sua stretta di mano.
Osserva la mia mano per un istante, come se le ricordasse qualcosa e le desse fastidio: «Natasha.» Stringe la mia mano e la sento appena: non è una vera stretta, si controlla, si nasconde. La sua è la stretta di una mano morta. Poi avrei capito che le ali non riescono a stringere le mani.


2.    Di libri ed altri grassi 

Siamo davanti al Pantheon, come sempre ormai. Da quella lezione è passato un mese, i ragazzi stanno migliorando, tra qualche settimana hanno il primo esame e Gallo forse ha detto la prima cosa intelligente della sua vita quel giorno: “Se nun tocco qualcosa de bello, me sembra de morì”. Io se non guardo qualcosa di bello, mi sembra di morire. Che sia un’opera d’arte, che siano libri, che sia il cielo, che sia il grano, l’erba, le sedie appoggiate ai bidoni dell’immondizia, le mani delle coppie incrociate come trame di una corda. Dicevo, comunque… Siamo davanti al Pantheon, io e Natasha. Siamo là tutti i giorni, perché se ci dobbiamo vedere in qualsiasi altro luogo è un casino per entrambe: lei abita in un appartamento nella periferia Ovest, io ad Est. Pantheon: metà strada. «”Ho diciannove anni, maturità classica. Odio la maggior parte di ciò che mi circonda perché è patetico, è finto, è fatto di solitudini. Ho fatto i test per medicina, ma col cazzo che ci entro con tutta quella matematica del cazzo…»
«Quanti “cazzi”.»
«Eh…»
«Se ti serve una mano…»
«Ma manco ti conosco e poi è una vita che i libri me li studio da sola.» Si è alzata e se ne è andata. Mi sono informata da un ambulante lì vicino, mi ha detto che lei ci ritorna tutti i giorni là. E io devo tornarci dove c’è lei, lei che stringe la mano come i morti. Io devo sapere. E come volevasi dimostrare lei è là il giorno dopo, con i suoi jeans strettissimi a macchie di colore sul blu, la maglietta fina col collo a barca, la marea di collane sul petto e la borsa di stoffa colorata, da gitana. 
Mi risiedo alla base di quella colonna, lei sul muretto. Silenzio. «Cammini sulle punte.» 
Lei si scioglie un po’, fa un mezzo sorriso: «Da piccola ho fatto danza.»
«E poi hai smesso?» Comincio a capire quanta arte ci fosse in lei, addirittura nel suo passo, nei suoi muscoli tesi e contratti sempre, pronti a scattare come se si aspettasse una coltellata ogni minuto. 
«Sì, ho smesso… Ma almeno mi hanno lasciato cantare.»
«Ho sempre voluto cantare…» Perché ho detto una cosa così stupida? Resta un mistero.
«Strano, di solito chiunque a questo punto mi avrebbe chiesto di ascoltare qualcosa.»
«Non si canta, non si scrive, non si ama a comando.»
«E nemmeno si legge a comando.» Mi fissa, ora, è quasi una sfida.
«Citazione Pennac?» La domanda è retorica, lei sa che io lo so e io so che lei lo sa. 
«Esatto.»
«Lo leggi?»
«Leggo di tutto. E leggo tutta la roba da vecchi.»
«Io sono la roba da vecchi.»
«Ahahahah ma dai! Perché, credi di essere un museo?»
«Mangio i libri.» Mi sfugge un mezzo sorriso.
«I libri sono grassi, si mettono sullo stomaco e alla fine scoppi. Sarebbe meglio non imparare mai a leggere.»
E di libri gliene porto sempre di nuovi da quel giorno, quel corpo troppo magro non mi piace, mi preoccupa. Le ho raccontato dell’università, le ho detto che vengo dall’America, da New York e che mi sono girata il mondo.
«Non dico che mi piaccia la mia vita, ma cioè a volte è facilitata, a volte ha delle responsabilità assurde, pesi troppo grandi e io che fuggo, fuggo, come una vigliacca…»
«Hai mai amato?» Mi chiede così, senza un perché.
«Non voglio parlarne.»
«Nemmeno io.»
«E perché me lo chiedi?»
«Perché ho altre priorità e so che magari non è giusto fermarsi su queste cose.»
«Un consiglio: non pensare mai troppo.» Esco dal bar di Piazza der Fico, le pago il conto, cammino senza voltarmi. Il mio pulpito è sempre quello sbagliato per i consigli.



3.    Distrazione


Il giorno dopo lei non c’è. Lei esiste ma non c’è. Nella vita impariamo a fare certe cose in un modo stabilito, sempre uguale e ci affezioniamo a quell’abitudine, a quel paletto che limita la frana dei nostri fallimenti e ci fornisce sicurezza, una piccola ed esigua sicurezza, ma pur sempre una sicu-rezza. Natasha è diventata il mio pomeriggio, una ragazza come tante altre a cui avevo insegnato come a tanti altri ma al loro contrario, sono io che imparo ogni giorno qualcosa dalla sua follia, dal suo eyeliner troppo marcato, dalla sua mascella squadrata, dalle sue risate esagerate e grasse, dal suo odio per la realtà che la circonda. Io e lei abbiamo ben poco in comune ma Vediamo, i nostri sono gli occhi dei secoli, io perché sono immortale, lei perché è profondamente umana, è così umana che si sente di non appartenere all’umanità. Una volta ci siamo fermate davanti ad un musicista, a Via del Corso, era un arpista: ci siamo fermate due ore e mezza, senza parlare, senza fiatare, quell’uomo aveva occhi di ghiaccio che non guardavano nessuno eppure dentro di noi sapevamo che si era accorto della nostra presenza e in fondo diceva Restate, voi sole sentite la mia anima, restate, non abbiate paura, restate.  Così alla fine, dopo i soliti tentennamenti decisi di dare una 1000 lire al tizio e avvolgerci intorno un fogliettino con un haiku scritto al momento: “Feel the chord/ playing the coldest fire/ Thanks, I see you. Mi inchinai davanti a lui, mi sussurrò un “Grazie”… Natasha lo guardò e basta, disse che si vergognava. La sua vergogna non l’ho mai capita, forse è solo paura del buono, delle cose naturali e soprattutto gentili. 
Mentre sono sola a girovagare all’interno del Pantheon, lei stavolta non c’è e io ripenso a lei, come una distrazione che mi concentra. E sento un vuoto, un vuoto assurdo che si va ad aggiungere al vuoto lasciato dal mio ennesimo errore… Frederick Chase. Ho sbagliato, grandemente e senza vergogna, ho sbagliato e per lo sbaglio sono fuggita fino in Italia. Non mi sto autocommiserando, sono solo realista, riconosco la mia fragilità. 
Mi siedo al banco in seconda fila, tra mezz’ora dovrebbe iniziare la messa, la messa in mezzo alla barbarie, a centinaia di turisti che si fermano a fare foto davanti alla tomba di Vittorio Emanuele e a fare foto a quel dannatissimo buco nella cupola. Osservo il tabernacolo. Cosa sto facendo della mia fuga? Cosa sto facendo della mia vita? Ah, giusto. Io non ho una vita. Sono solo immortale. Immortale. Immortale. Immortale. Immortale. Immortale.  Immortale. Immortale. Immortale. Im-mortale. Immortale.  Immortale. Immortale. Immortale. Immortale. Immortale.  Immortale. Im-mortale. Immortale. Immortale. Immortale.  Immortale. Immortale. Immortale. Immortale. Im-mortale.  Immortale. Immortale. Immortale. Immortale. Immortale.  Immortale. Immortale. Im-mortale. Immortale. Immortale.  Immortale. Immortale. Immortale. Immortale. Immortale. Im-mortale. Immortale. Immortale. Immortale. Immortale.    Immortale. Immortale. Immortale. Im-mortale. Immortale. 

E tutta questa mia
contraddizione, 
cosa mortale, 
cosa letale,
veleno e fiele, 
chi sono, chi 
creo, una pagina
al vento, rose sono
sangue e petali
volo e volo 
affossando 
nella terra 
nera e sterile.
E tutto questo mio
essere condannata
ad avere e a non voler
possedere.
Immortale.

Lei non c’è. Forse è scappata. Forse non la merito. Forse non la merito proprio perché sto facendo questo discorso. Mi alzo di scatto, gli occhi fissi sul tabernacolo e sussurro: «Dove sei, dove sei, dove sei…»


4.    Nessuno

Non ricordo quasi mai quello che sogno e questo mi permette di dormire nel 99% dei casi, mi ren-de estremamente più forte rispetto alle altre divinità quando sono in forma umana. Il trucco è semplice: prima di addormentarmi immagino sempre uno sfondo nero piatto e cerco di pensare una cosa alla volta che appare come una macchia di colore al centro di questo sfondo. Appena la macchia si espande, la comprimo e la butto all’angolo, anche se parlando di un nero infinito non si possono considerare né angoli e né pareti. Se non adottassi questo sistema, rischierei di entrare nella testa delle persone a cui penso, anche a centinaia di kilometri di distanza: vivrei il sonno at-traverso di loro, con loro, per loro, con le loro forze e debolezze. Le loro idee, arte, amore, sesso, musica, incubi, follie, mi entrerebbero nella testa amplificate di dieci volte e mi ucciderei, cioè uc-ciderei la mia forma umana. Stanotte ho perso il controllo dello sfondo nero e sono entrata nella testa di una donna, non ho capito chi fosse, non era chiarissimo, ma per intuito era la testa di Na-tasha: stava chiedendo aiuto, chiedeva aiuto a qualunque divinità l’ascoltasse in quel momento, o si sarebbe lacerata, portava con sé un dolore soffocante e acuto. Non potevo fare nulla. Assoluta-mente nulla. Era un sogno manovrato dalle Parche o da qualcosa di molto potente perché non riu-scivo a “staccare” la mia coscienza dalla sua e intervenire nel sogno stesso ed è stato orrendo, or-rendo oltre ogni misura soffrire con lei e attraverso di lei, impotente… Forse dovrei parlarne con Ipno… Ma qui ci sono solo io, irraggiungibile.
Con la stanchezza della nottata passata, mi vesto con le prime cose che trovo davanti a me, non mi trucco nemmeno, sto per perdere l’autobus per l’Università… 
Arrivo lì davanti e mi accorgo che una figura sta correndo verso di me, corre con tutta la forza che ha nelle gambe, la forza della disperazione, capelli ricci al vento, ride, ride, ride… Mi si schianta contro, mi abbraccia, la sorreggo, stiamo per perdere l’equilibrio. «Ehi…» Riesco a dire, soffocata dall’impatto. Non mi risponde, sento il suo respiro a singhiozzo, sta piangendo. Lei, così orgogliosa, mi sta piangendo sulla spalle. La stringo più forte, forte come se volessi ammazzarla, quelle quat-tro ossa tra le mani mi sembrano sempre così lontane: «Che c’è? Che c’è, che c’è…»
«L’ho visto. Ho visto…»
«Chi?»
«Lui, era lui… Sembrava…Sembrava lui.»
Le prendo il viso tra le mani, la mia è una stretta di ferro, i miei occhi sono nei suoi, rossi e gonfi: «Nessuno, ascoltami bene, nessuno ha il diritto di farti così del male. Nessuno può abbatterti cos’, può abbattere questo guerriero, capito, nessuno! NESSUNO DEVE FARTI QUESTO MAI NESSUNO, NON LO DEVE FARE NESSUNO! CHI TI FA DEL MALE IN QUESTO MODO, NON MERITA DI VIVERE, NON MERITA! Ricordatelo, nessuno è autorizzato a farti male. Nessuno.» Annuisce piano, imper-cettibilmente e sussurra: «Anche i guerrieri muoiono.»
«L’importante è come si muore.»


5.    Spettri

Non seppi mai cosa davvero le era accaduto, sapevo solo che aveva amato e non mi aveva mai detto nulla di tutto ciò ma io sapevo, profondamente, nell’abisso della mia conoscenza io sapevo e sentivo ma non ho ascoltato il cuore, io devo fare sempre la mia bella e becera figura, la Ragione che mi divora. Quando una donna si innamora, ogni suo gesto ha un senso, ogni suo sorriso ha una luce e ogni sua lacrima brucia centro volte di più e la scava, le scava le guance come la barba agli uomini impedisce di fare. Quando una donna è violata, ogni suo gesto è spezzato, ogni suo sorriso è falso e ogni sua lacrima non brucia più ed è solo ghiaccio, ghiaccio che lentamente spacca la pelle e congela il sangue e lentamente ogni sentimento diventa solo veleno, fugge, fugge, in un mondo che conosce solo lei e che è il nulla. Per farla tornare nulla è necessario e scontato, solo il coraggio, il coraggio di andare a prenderla: il coraggio di mille battaglie non basta, non bastano pugnali, scudi, parole, urla, sguardi. Ci vogliono solo le mani, nude, crude, forti e calde di tutto il bene che puoi volere a quella donna per volerla riportare indietro. 
Natasha è diventata assente, Natasha sui libri non ci sta, con i piedi per terra non ci sta, con la te-sta non ci sta. Tuttavia, nella mia sconfinata mancanza di quel coraggio (sì, perché voler bene ren-de estremamente vili o estremamente coraggiosi), continuo a restarle accanto tutti i giorni, conti-nuiamo a vederci al Pantheon dove le colonne sono di pasta di mandorle e i turisti sono di granito. 
«Elsa, tu ci credi in Dio?»
«Dipende da cosa intendi: Dio come divinità in generale o il Dio cristiano?»
«Madonna, sempre questa pignoleria, che palle!»
«Ehi, era una precisazione lecita.»
«Sì va bene, hai ragione tu… Comunque dicevo divinità in generale.» Sì, è diventata così, scontrosa anche nelle piccole cose, le piccole cose che la fanno infuriare come una iena: e intanto taccio, quando dovrei dirle che mi dà un fastidio boia in quei momenti e che sarebbe stato molto più giu-sto e umano urlare, prendere a calci chi di dovere, invece di usare come sacco da box la prima fessa di turno. Ma so di andare solo a scontrarmi contro il suo muro di menzogne e ghiaccio che così abilmente aveva saputo creare durante la sua vita: la sua vera essenza è davanti ai miei occhi ma io non posso prenderla e lei è troppo orgogliosa per ammettere che io la vedo.  E la sua essenza è così diversa da tutto quello schifo, è così dannatamente bella e fugace, come i venti o come gli angeli, ti scivola tra le dita con un’eleganza e una fragilità profondamente umana, una dolcezza che cerca di dissimulare ad ogni costo... Sto divagando, mi sto perdendo. Concentrazione. Determinazione. 
«Sì, allora sì. Credo all’esistenza di una o più divinità.»
«Come gli antichi.»
«Come gli antichi.»
«E perché non ci sono, perché se li chiami non intervengono, perché se stai morendo non arriva-no? Perché anche se ci credi con tutta l’anima… No ma che discorsi faccio, io sono sola, il culo me lo sono sempre fatto da sola, non li voglio, non li voglio…»
«Tu stai pregando con tutta l’anima di essere salvata, Natasha, non dire bugie, mi danno fastidio le bugie.»
«Facci l’abitudine.»
«No.»
I suoi occhi sono vuoti in questo momento, maledettamente vuoti… «Sai, in fondo gli dei sono spettri del passato, il Caos li ha generati e pezzi di Caos essi rimangono. Sono invidiosi, molto invi-diosi degli uomini che invece sono stati fatti dalla terra e pur restando vincolati ad essa, hanno una stabilità e allo stesso tempo una capacità di volare più in alto dell’immortalità, più in alto del cielo. Mi capisci?»
«Sì sì, ovvio.»
«Gli dei sono limitati alle cose che non si possono toccare, gli dei sono deboli. Hanno bisogno di credere e di essere creduti come gli esseri umani: tu credi negli dei?»
«Sì.»
«Stiamo parlando di paganesimo in una chiesa, ora ci scomunicano.» Fa un mezzo sorriso, mi sem-bra che in quel momento il mondo abbia iniziato a girare mentre finora è stato morto. «Comun-que, dicevo… E credi in te stessa?»
«No.»
«E come pretendi che gli dei ti aiutino e che quindi credano in te, se sei la prima che non crede in te stessa?»


6.    Mafia e raccomandazioni

L’università dopo un po’ diventa un inferno, ti riempie le giornate soltanto di lezioni, ogni lezione dura anche due ore, cominci ad odiare il proiettore perché diavolo, vorresti che i tuoi studenti ve-dessero l’arte toccandola con mano e non contando i pixel su un telo… Il prossimo esame che Gal-lo e tutta la ciurma dovrà discutere sarà sull’Età tardo-antica: dal punto di vista storico è di una noiosità unica ma dal punto di vista archeologico, è il paradiso. Sì può scavare ovunque e trovare allo stesso tempo una varietà di oggetti diversissimi e dalla bellezza unica, barbara, non più roma-na: fu un periodo strano per l’Olimpo, il V e il VI secolo d.C., il momento del declino è sempre ma-linconico, ma mai propriamente doloroso… Sto camminando lungo la Via Tiburtina, dopo un po-meriggio di lezioni da incubo e una mezza lite col collega di Glottologia della facoltà di Lettere An-tiche. Un ragazzo è seduto sul marciapiede, non è il solito clandestino o barbone: ha un paio di Converse nere, jeans stretti a sigaretta, una maglietta un po’ stinta con qualche strappo, giacca di pelle, cappello alla Michael Jackson, lo zaino buttato sull’asfalto. Ha un’aria familiare, non è il soli-to studente, c’è qualcosa in lui… 
«Aspetti la circolare?» Oggi sono particolarmente loquace…
«Sì.»
«Numero?»
«Il tuo.»
«Mi prendi in giro?»
«No, cioè sì… Basta che sia un numero, basta che sia uno. L’importante è che mi porti lontano, più resto nel centro di questa città più mi salgono le memorie, i ricordi, lo schifo.»
Mi siedo accanto a lui, l’asfalto è caldo, sembra quasi un abbraccio: «Capisco.»
«No, non capisci. È un mio pensiero, perché dovresti capirlo, perché?»
«Mi ricordi qualcuno…» Mi ricorda Natasha, ovvio. Ormai il qualcuno è diventato lei, Roma è di-ventata lei, tutto mi ricorda lei, me la ripresenta nella memoria, vivida, come una cosa viva e non come semplice spettro elaborato dalla mente.
«Inizi con la retorica, sei brava con quelle cose, non lo nego.» Il suo sguardo è vuoto, mira a col-pirmi, a farmi male: ma io sono anni che non distinguo cosa mi faccia male e cosa mi faccia bene, questo lui non lo sa, non credo che lo capirebbe. Lui pensa di essere superiore, di aver sofferto il doppio e di conoscere qualcosa che nemmeno io oso immaginare.
«I piedi per terra. Sai cosa vuol dire averli?» Il mio sguardo lo trafigge, freddo.
«Cosa c’entra?»
«C’ENTRA CHE IO SOFFRO COME UN CANE, COME UN MALEDETTO CANE LA MIA SOLITUDINE, I MIEI SBAGLI CHE HO LASCIATO A SAN FRANCISCO E NON NE FACCIO UN DANNATO AFFARE DI STATO COME FATE VOI! EH VOI! TU E QUELLA DONNA MI VENITE A PARLARE DI INCOMPRENSIONI, DELLE VOSTRE COSE NELLA VOSTRA TESTA E BLA BLA BLA! CAZZO, SCENDETE COI PIEDI A TERRA, CAZZO, LA VITA, LA VITA, NON SFUGGITE DALLA VITA NEL VOSTRO EGOISMO, NELLA VOSTRA VOGLIA COSTANTE DI FARE DI QUALUNQUE STRONZATA UNA TRAGEDIA, EGOCENTRICI! Ve ne approfittate, ve ne approfittate della mia ricerca del buono, della mia ragione, di ogni mia debolezza, io ho una figlia, io non ho più nulla, io…»
Il ragazzo mi prende la testa fra le mani, mi costringe a guardarlo, è così giovane, così corrotto nell’anima ma bello, bello di un buono che c’è ma è nascosto, bello come i sorrisi: «Ammettilo.» Dice in tono fermo.
«Cosa, cosa c’è di più, cosa…»
«Ammettilo.»
Sto quasi per piangere, il mio orgoglio mi urla di non farlo, la mia forma umana si sta disgregan-do… Se rivelassi la mia vera forma esploderebbe mezza Roma, se non tutta: metto una mano sulla sua, mi ci aggrappo con tutta la mia forza, come se fosse un’ancora e allo stesso tempo mi pare rovente come fuoco liquido e ogni mia cellula mi urla di esplodere. I miei occhi di pura tempesta nei suoi, rossi e grigi come i colori delle armature, acciaio e sangue: «Io non ce la faccio, io non sono più io. Ti prego per il bene di quella donna, supplica Zeus, che le dia giustizia: è stata delusa, qualcuno le ha spezzato il cuore, l’ha usata e poi l’ha abbandonata. Zeus, ti prego, va’ da Zeus, so che questo è il destino, me lo dice l’istinto. Non fare domande, lo so e basta. Di’ a Zeus che quella mortale deve essere felice, non deve essere sola… Mi deve questo favore per ogni volta che non mi ha ascoltato.»
«Lui… Io non so se mi ascolterà.»
«Tu e quella mortale avete qualcosa che vi lega, che vi accomuna.»
«Lo so, ed è per questo che sono qui, è come se fossi stato chiamato ma devo andarmene, devo sparire… Non sono più abituato alle Antiche Terre.»
«Fallo anche per te stesso, ma fallo: supplica Zeus perché lei possa essere felice.»
«E ti serve la mia raccomandazione? L’Olimpo è una mafia…»
«Io non posso combattere una guerra contro mio padre quando devo combattere una guerra con-tro me stessa.»
«Allora lo ammetti?»
«Sì, lo ammetto. Io sono innamorata di lei, di quella donna.»
Sorride, quasi tristemente: «E allora lascia la logica da parte, Atena.»
«Non posso.»
La circolare arriva, lui balza in piedi, sempre con quel suo vizio di voler spiccare il volo da un mo-mento all’altro… Piove. Ti odio, padre.   


7.    (…)

Amare una donna non è come amare un uomo. Amare una donna significa vederle l’anima fino all’osso, vederla in controluce come un prisma di Newton e da lei veder partire raggi infiniti di co-lori e bellezza, bellezza viva e diversa, vasta ed estremamente dinamica. In un uomo puoi vedere i colori e la bellezza ma raramente un uomo riesce a creare la bellezza dal nulla, dal sole, un uomo tende a distruggere ciò che sei e a sostituire il vuoto che ha creato con se stesso, con quello che è lui quando è o non è con te. L’amore di un uomo ti sopraffà e ti copre, può essere caldo e rassicu-rante ma poi è una prigione, poi diventa una gabbia all’interno della quale è doloroso stare ma allo stesso tempo al di fuori della stessa non riesci più a vivere. Vedi la bellezza del mare e i suoi mille riflessi ma se non c’è lui, è come se non la vedessi. Senti lo scroscio delle risate degli amici, della gente che ti circonda e vive, stupidamente respira i veleni della vita ma se non c’è lui, quella risata non ti scalfisce minimamente e le tue labbra rimangono chiuse, sigillate, tristi. Ascolti un pianoforte, una chitarra suonare, ascolti l’arte, ma se non c’è lui nulla è più arte perché ti fa pensare alla sua assenza e alla sua solitudine. 
Amare una donna non è come amare un uomo. Vedi la bellezza del mare e i suoi mille riflessi e in ognuno di essi vedi il bianco, l’iride e la pupilla dei suoi occhi ed è centinaia di volte più bello. Sen-ti lo scroscio delle risate degli amici, della gente che ti circonda e vive, meravigliosamente respira il frutto della vita e ricordi la sua risata, grande e come nessun altra e ridi, ridi anche tu immaginandola e la senti vicino, senti il suo calore. Ascolti un pianoforte, una chitarra suonare, ascolti l’Arte e ricordi tutti momenti che hai vissuto con lei, tutte le volte che si vergognava ad avvicinarsi agli artisti, ad esprimersi, a cantare, ad essere bella, tutti i momenti in cui avete odiato l’arte perché non era quello di cui avevate bisogno. E stai bene, e respiri e sai che il giorno dopo la rivedrai e tacerai, avrai tutto questo nei tuoi occhi e lei lo saprà, lei te lo leggerà.
Amare una donna non è come amare un uomo. Un uomo è solo, la sua solitudine è fiele: prima di incontrare te, molto probabilmente non ha avuto nessuno e piano piano nella sua testa tutta la negatività del suo essere si incrosta e le sue idee diventano dure come granito: mai, mai ti darà ragione e mai, mai ti ascolterà fino in fondo. Una donna non è mai sola, la sua solitudine è la compagnia di se stessa: prima di incontrare te ha mentito cento volte a se stessa, ma tu la vedi, la vedi dentro e non può più sfuggire, apre gli occhi e prende consapevolezza dei suoi errori, non ti ascolterà ma nel profondo ogni parola si deposita e la nutre. 
Quando lei piano piano si addormenta, nella notte, imprigionata nei suoi incubi e nelle sue ansie, scivola nel sonno, tu sei là con lei e la vedi dolcemente, ingenua, sulle sue sopracciglia c’è un tratto di magnifico e piano sulle sue labbra, piano, piano, scendi, piano, senza svegliarla, piano, poggi le tue labbra sulle sue, pure e belle, i demoni che la abbandonano e la carezza degli angeli, piano, piano, le accarezzi la fronte. In ascolto, quando lei è in ascolto, con le gambe l’una sull’altra, una mano tra le cosce all’altezza del ginocchio, il gomito poggiato su quest’ultimo, il mento sul palmo aperto, come se fosse la mela dell’albero della conoscenza. L’eleganza, quell’eleganza brutale e terribile in ogni suo movimento, anche quando è arrabbiata con te, con se stessa, col mondo, con tutto, con niente, i suoi scatti sono in armonia col cosmo, col mondo. 
Uomo e donna sono umani, ma diversamente umani. L’umanità dell’uomo è il caos che urla, l’umanità della donna è il caos calmo. Nel caos che urla non c’è spazio, l’orgoglio fa in modo che l’acume, l’intelligenza viva diventi ottusa, diventi vergogna: l’uomo percepisce, sente la vibrazione del mondo, la bellezza vibrante del mondo e l’universo, l’universo che brama, desidera e brucia ai suoi piedi e si fa sopraffare, si fa schiacciare e mai ammetterebbe di vedere l’eleganza in quei ge-sti, mai saprebbe dirlo. L’uomo possiede l’amore della materia pesante e concreta, il desiderio, non è come quello di una donna, è un desiderio che può esistere senza amore, l’uomo desidera perché è nella sua natura, il sesso è una questione di corpi, di materia grezza. Anche se ti ama, è prima di tutto quello. La donna possiede la materia dello spirito, lacera ogni sua lacrima, lacera ogni suo bene e ogni suo male, manipola e ti prende il cuore a mani nude ma leggere, lei può spezzarti senza possederti, lei è inafferrabile, terribile e arriva alla carne solo dopo aver sverginato il tuo spirito. E tu ti senti stanca, stanca dentro perché le hai venduto ogni cosa, sei stata tu a venderle ogni tuo respiro dell’anima, tutti i tuoi versi, le tue poesie, le tue rose, gliele hai donati senza aspettarti nulla in cambio, anzi, in continua allerta, in guardia ogni volta, perché avrebbe potuto macellare il tuo cuore con la sua crudeltà senza pentirsene, senza pentirsene ridere sul tuo cadavere. Amare una donna non è come amare un uomo. Un uomo usa. Lui usa ogni cosa di te, ogni tua debolezza, ogni tua forza, la usa e ci si aggrappa e con lui, per lui, non sei altro che lo specchio di sua madre e tu, stupida quando dice “Anche mia madre dice così”, annuisci, sorridi. Tu non sei sua madre ma credi che il suo amore per lui sia anche quello: credi che il suo amore per lui sia sottostare ai suo sbalzi di umore, ai suoi capricci, aspettare il giorno dopo che ha passato la serata a contraddirsi, pazienza, infinita pazienza. Ma anche se l’amore è pazienza non è sopportazione: l’amore non è male, non deve essere male, un fumo denso che ti toglie la fame, la voglia del gelato al cioccolato, non deve toglierti la vista, non può lasciarti al buio per cento giorni e accendere le luci di Times Square soltanto per una sera e giustificarsi per quei cento giorni neri, più neri della morte. Ma questo un uomo non lo sa o se lo sa, lo sa solo quando gli conviene. La donna è ancora più spregevole, perché lei, nel suo profondo, nel suo acume e nel suo istinto, sa bene cosa vuol dire amare, sa bene che non dovrebbe più soffrire, ma si piega, distorce i propri pensieri per fare da madre all’uomo che ama e dimentica ciò che la tiene in vita, lentamente muore.
Amare una donna non è come amare un uomo. Non significa volerla proteggere, non significa in-seguirla, soffocarla, distruggerla, possederla: amarla è amare la sua libertà, il modo in cui sfugge tra le dita, la sua essenza di vento, le sue contraddizioni, la sua pelle, il suo profumo nudo, senza sovrastrutture, le sue fughe. Significa sapersi fare da parte, significa lasciarla andare e resistere agli egoismi, significa volerla tra le braccia ancora per un’ora ma non dirglielo perché questo intaccherebbe la sua libertà, intaccherebbe quello che è. Significa non dirle che la ami, ma dimostrarglielo. Un uomo non lo fa, un uomo parla e le sue parole sono coltelli e per giunta coltelli inconsapevoli perché non conosce nemmeno il valore delle sillabe che escono dalla sue labbra, dice di amarti ma non lo dimostra. Un uomo fugge e poi ritorna, sì, ma ritorna sempre vittima di una guerra che lui stesso ha iniziato come carnefice: l’assassina sei tu, non lui, il peso sei tu, vero? Non lui. Lui è il tuo peso, lui si rende il tuo peso. Se solo l’uomo fosse più coraggioso e meno vile… Se solo aprisse i suoi immensi e limpidi occhi alla bellezza che una donna invece è quasi costretta a rimirare nel suo abisso sin dall’infanzia, se solo avesse la volontà di elevarsi e uscire dal proprio egocentrismo… 
Amare una donna non è come amare un uomo. Un uomo non amerà mai i suoi figli, amerà nei suoi figli la donna che ha amato o l’uomo che avrebbe voluto essere ma mai li vedrà come sono davvero. Una donna ama i propri figli perché sono carne della sua carne. E basta. Se una donna non ama i propri figli è perché non ama se stessa, perché detesta tutto ciò che ha fatto nella vita a quel momento. 
Amare una donna non è come amare un uomo. Di uomini ce ne sono tanti, lei invece sarà sola. Unica e sola. L’unica che senti parlare nella tua testa anche quando non c’è, l’unica con cui ti stan-chi di parlare e vorresti solo osservarla, come quando sugli scogli ti siedi a contemplare il mare, il sole e tutti i misteri della vita ti sembrano in un momento svelati. Lei resterà sempre la sola che né potrai avere né vorrai possedere, perché la ami troppo per volerla solo per te. 

Penso, penso a tutto questo mentre faccio a pezzi il mio appartamento, libri, cose che volano, strappo libri, documenti, pezzi di storia, i vetri sulle fotografie in mille pezzi: prendo il mio pugnale di bronzo e comincio a spaccare il legno della libreria, sono una furia cieca, senza ragione. Mi sfugge la lama, mi taglio sul palmo della sinistra e il mio sangue non è oro, non è icore: rosso, rosso, come il sangue umano, rosso… Cosa mi è stato fatto? Cade un ultima fotografia dalla mensola: è un uomo giovane, biondino, la barba corta e un sorriso fantastico, sorride alla bambina che tiene in braccio, sono sulla spiaggia. Figlia mia, che madre hai… Figlia mia. Cosa mi hanno fatto? Cosa sono, chi amo, lei, ovvio, lei… Con le mani squarciate, piango lacrime e sangue.


8.    Nastro 

«Professoressa!»
«Si?» Mi sto facendo il corridoio di corsa, sono in ritardo, mannaggia a Natasha che anticipa gli orari, devo scappare, cazzo…
«Volevo chiederle una cosa riguardo all’esame di archeologia greca…»
«Diavolo, Giuseppe, sei indietro di un po’ di esami, questa era roba di quattro mesi fa, se non pri-ma…»
«Eh lo so, ma ora sto studiando seriamente.» Lo dice con convinzione, guardandomi negli occhi.
«Va bene, Gallo. Sentiamo: cosa mi vuoi chiedere?»
«Se io non volessi seguire un percorso standard nella mia esposizione?»
«In che senso? Spiega, su, che vado di fretta.» Odio i preamboli.
«Io volevo partire da Saffo e quindi collegare tutta la pittura vascolare dall’età arcaica all’età elle-nistica con, be’, insomma i versi d’amore.»
Sorrido: il mio Gallo è cresciuto, il mio Gallo è poeta. «Giuse’, ti vergognavi a dirlo, vero?»
«Be’ professorè, non vorrei passa’ per una mezza femmina, sa…»
«Ma dai, dimostrerai soltanto che anche tu da grande uomo, non hai paura della poesia.»
«Be’, n’zomma, vado professorè.»
«Buona giornata, Gallo.»
Sono passati ormai altri mesi, mi sembra di aver messo “play” al nastro di una di quelle vecchie cassette, che ora scorre, a ritmo regolare e direi quasi piacevole. Ormai siamo a fine aprile, di ac-qua sotto i ponti ne è scorsa molta e pian piano sto cercando il mio equilibrio, quello che voglio davvero. Forse pian piano sto ritrovando la ragione, da quella sera di follia, sto ritrovando la ragio-ne.  Una buona notizia, no? Questi mesi, sono stati qualcosa di orrendo, ho perso il conto di quante volte ho cercato quella ragazza, si nascondeva, tentava le cose più stupide e di quante volte in codice tentavo di spiegarle la mia situazione, nonostante dubiti che l’abbia compresa, non ha mol-to di concreto. Comunque le buone notizie si stanno moltiplicando ultimamente, in cima alla lista Natasha che ha superato i test di medicina, per fare un po’ di soldi ha iniziato a vendere parte della sua catasta di disegni che tiene sotto il letto nell’appartamento che divide con un paio di amici suoi, gente con la testa abbastanza a posto. Io ho una classe che mi sta dando delle grandi soddisfazioni, i colleghi non fanno poi tanto schifo, ci siamo anche fatti una serie di uscite insieme e tranne qualche bicchiere di troppo, nulla di che, nulla di storto. Corro verso piazza Navona, Nata-sha aspetta, aspetta e sempre aspetta… Devo tanto a lei. Senza di lei non avrei sopportato questa vita a Roma, anche se ero lontana da New York e da San Francisco, non l’avrei sopportata: prima cosa perché non avevo nessuno, secondo perché lei mi ha insegnato a guardare dentro me stessa, io non conoscevo chi sono o forse lo conoscevo troppo bene, affossata nella maledizione dell’immutabilità e piano piano ho capito quanto potessi diventare importante e quanto potevo essere utile, anche soltanto per  aprire un libro. Terzo… Be’, è un merito portare alla follia la dea della ragione? Corro, corro, la borsa coi libri che pesa… Lei è davanti a me, forse una ventina di metri: scherza, al suo fianco un ragazzo dai capelli scuri, gli dà uno schiaffo sulle gambe, per gioco, lui ride, la saluta se ne va. Cose semplici, cose a cui non sono abituata. Le cose semplici. Faccio gli ultimi passi come se mi avessero sparato nello stomaco. Un vuoto frastornante e rumoroso. 
«Ah qua stai?» È ancora sorridente, è così bella quando sorride, sorride con tutta se stessa.
«Sì, stavo preparando un’imboscata per farti fuori.» 
«Ahahahah, scema…»
«Non dovresti dirlo, sai? È pericoloso.» Adoro giocare alla divinità vendicativa. 
«Ma che devi fare tu!» Sbotta.
«Ti ammazzo.» Siamo fronte contro fronte, potrei contarle quanti pori ha sulla pelle, vicina, vicina, vicina… E so già che è lontana come le stelle. «Non hai nulla da dirmi?»
Si allontana, il suo sguardo si fa sfuggente: «Cosa dovrei dire?»
«Bo per esempio… Chi è quello?»
«Un tipo.»
«Molto esaustiva come sempre.» So che detesta parlare dei fatti suoi, detesta esporsi, fondamen-talmente è un uccello che vola via da tutte le mani, gli uccelli si credono guerrieri ma sono pavidi, non scenderebbero mai con le loro ali a toccare mani umane. 
«Hai finito il terzo grado?»
«Non hai nemmeno risposto… Comunque sia, stai attenta.»
«Fatti miei, no?»
«Ci tengo a te.» Parole codarde per nascondere “ti amo ed è folle, sono stupida ed è la cosa più cretina che possa fare, autodistruggermi, ma ti giuro che può essere malattia, quello che vuoi, ma mai, mai ti lascerò andare via, uccellino, donna, chi diavolo tu sia.”


9.    Zombie

Oggi c’è l’esame di Gallo. E io non ci sono. Che grandissima stronza che sono… Ma ho lasciato la mente aperta, se urlerà qualcosa nel pensiero (ha un cervello molto rumoroso fortunatamente), potrò aiutarlo al momento giusto. Mi sono chiusa in casa da questa mattina alle sei, nel caos dei miei libri e delle cianfrusaglie per pensare: sono distesa sul pavimento, pancia all’aria, ci sono i Cranberries alla radio, il volume a mille.  Ama, ama follemente, ama più che puoi e se ti dicono che è peccato ama il tuo peccato… È una frase di Shakespeare, l’ho trovata scritta su un muro, a pennarello: sicuramente opera di qualche ragazzina, sicuramente non l’aveva manco capita né avrebbe potuto farlo. Ci rifletto su, meravigliosamente senza ansie, senza paure, come quando si riflette su un problema di matematica, lo stesso distacco, quasi come se non te ne fregasse manco della soluzione. 
Il mio peccato è stato quello di aver amato Frederick Chase e di aver avuto una figlia con lui, si chiama Annabeth… A quest’ora starà facendo i capricci perché non vuole mangiare e suo padre starà bestemmiando tutti gli aerei del mondo, stanco come uno straccio, con il sonno arretrato. Il mio peccato è essere fuggita da loro. Il punto è che nei secoli non è la prima volta che amo la mente di un uomo, che ne resto trafitta e legata eppure con lui, non è la stessa cosa. Ho un orribile senso di colpa, io so che quella bambina mi stupirà, che sarà meglio di George Washington, che attraverserà il fuoco dell’inferno e ne uscirà indenne. Io lo so. Non so come questo accadrà con precisione ma una madre sa dentro di sé molto più di quanto i suoi figli abbiano consapevolezza. Che vigliaccheria, io che fuggo addirittura a Roma perché non voglio la responsabilità di quell’uomo e della bambina che abbiamo creato… Il mio peccato è di aver trovato quella donna ed esserci rimasta legata, di fare pensieri inimmaginabili su di lei, la rabbia a mille, l’egoismo e la gelosia a mille. Frederick è l’opposto, Frederick mette ordine nel mio caos, è un cazzone ma io lo adoro, lo adoro per le sue battute più stupide delle mie, per la sua cicatrice sul fianco che dice di essersi procurato in uno zoo contro una tigre mentre in realtà lo hanno operato a sedici anni al polmone e per questo non può nemmeno fumare. Adoro quel suo modo di provarci con me timido ma impaziente, le sue poesie brevi che ritiene orrende ma belle come uno schizzo a matita, adoro parlare di Jimi Hendrix con lui, in biblioteca, ed essere cacciati fuori dal bibliotecario all’orario di chiusura. Adoro quando osserva gli aerei come un bambino e parla di fisica, termodinamica, meccanica… Adoro la sua espressione da mezzo drogato e quando si sente ingenuamente in colpa per aver perso una scommessa, adoro la sua leggerezza, la sua barba biondiccia sul mento, la sua intelligenza non convenzionale, la sua incapacità ad attraversare la strada senza essere investito, adoro la sua chitarra scordata. Amare un uomo non è come amare una donna… Fred, non te l’ho mai detto ma mi manca stare ad aspettarti. E c’è Annabeth, quanto è bella hai visto? Come tutti gli uomini amerai in lei la donna che ami, continuerai ad amarla anche se di me ti è rimasto solo veleno.
Devo alzare il culo e risolvere una volta per tutte questo casi…  “VOGLIONO SAPERE QUANDO È MORTO HOWARD CARTER! MA COSA C’ENTRA? MADONNA, QUESTO È UN ESAME DI ARCHEOLO-GIA GRECA COSA C’ENTRA CARTER, SONO FINITO…”
“2 Marzo 1939, Giuse’.”
Il mio peccato è stato fuggire da tutto e da tutti per quella donna, amore carnefice…

   
10.    Back to past

Spesso gli umani o i semidei o insomma la gente normale hanno una particolare percezione di fronte a determinati eventi: ad esempio, vedendo un film, non è raro che indovinino chi muore o chi bacerà chi, nonostante non abbiano mai visto quel film. Essere immortali significa aver guardato tutti i film del mondo e quindi quella percezione non è soltanto una sensazione o istinto, diventa una certezza. Ma gli dei, come tutti gli altri, si intestardiscono e sempre negano, negano tutto e soprattutto l’evidenza: non voglio, non è mia intenzione arrabbiarmi e sputare tutto il veleno che è cominciato a crescere con l’odio,  la delusione, la vigliaccheria, la vendetta, la cattiveria… Ma gli eventi sono eventi e la memoria se tenta di dimenticare uno solo di questi compie un crimine contro se stessa e con chi è oggetto di quelle memorie.
Natasha è guarita dal suo male, almeno così dice. Natasha è ritornata con la testa in questa terra, si è scontrata con quello che aveva lasciato durante la sua lunga assenza: ha trovato una donna persa tra le astrazioni e l’ha riportata sulla via della concretezza, ha trovato tutta la sua voglia di uccidersi, la sua voglia di farsi del male, perché lei sa di non appartenere a questo mondo, è anda-ta sempre alla ricerca del suo mestiere, della propria utilità e realizzazione personale, chiamatela egoista ma è soltanto uguale a centinaia di altre persone, ha trovato una donna ingiustamente or-gogliosa e ha deciso di buttare via il suo orgoglio per farsene un altro ancora più ingiusto, ha trovato una donna che aveva paura di restare sola e ha voluto continuare a far finta di esserlo, ha trovato lei stessa un’ipocrita, una bugiarda, senza nobiltà, senza verità. E si è resa conto di me che in tutto questo ero rimasta al suo fianco e in lei avevo creduto, in lei avevo sperato, in lei vedevo una grandezza che forse non c’era o era andata a decomporsi, definitivamente corrotta come le anime dannate. E non so come, non voglio saperlo (o forse è il mio desiderio più ardente) ha messo da parte anche me. Io che mai avevo cercato di cambiarla, mai avevo forzato nulla di lei, io che profondamente la rispetto come una divinità non dovrebbe fare, io che avevo letto ogni cosa che lei aveva scritto, io che avevo ascoltato le migliori note da lei cantate, io… Quante volte ho ascoltato il tuo cuore Natasha, quante volte avrei voluto fare di te qualunque cosa e mi limitavo ad un bacio sulla fronte, quanto avrei voluto ucciderti nelle tue contraddizioni e delle tue malvagità ciniche e invece trovavo il buono, al costo di umiliarmi. Questo ora penso mentre cerchi di sbattermi in faccia quella che è la scena di un film che avevo già previsto.
«E non è che potevo, non è che potevo continuare una vita così, con la paura di dire come la pen-savo, sempre con tanti pesi addosso e invece con lui è diverso, non hai mai paura di fargli del male, puoi dire tutto quello che vuoi…» Quando mai ti è fregato che qualcuno stesse male vorrei risponderle, ma taccio, ascolto quello che vuole dire giocherellando con la bottiglia di birra.
«Solo che non potevo dirlo.»
«Perché no?» Il mio tono è fondamentalmente indifferente ma lei lo sa che non sono capace di es-sere fredda con lei, mai la tratterei come quello che è, un essere umano dal cuore spregevole ma grande e bello.
«Non sapevo come l’avresti presa.» Quasi quasi mi illumino, quasi quasi mi sta dimostrando che ci tiene anche lei a me, per una volta.
«So che quello che sto per dire è una gran cosa banale e sicuramente chissà se ci crederai… Non pensare a me, non pensare a chiunque dei tuoi amici: se questo è ciò che vuoi, se lui è ciò che ti serve, non pensare a nessuno e fai la cosa che ti renda più felice.»
«Lo so.» Ritorna ad essere l’egoista di sempre e quelle due parole mi scavano dentro come nessun altra parola.
«Ti ama?»
«Sì.»
«Ci credo. E non per le rose che ti ha comprato.»
Fa un sorriso stanco, quasi buono e mi guarda come se fosse la prima volta che mi vede: non so cosa sta pian piano scoprendo nei miei occhi, forse una follia omicida, forse i miei peccati, tutta la gente che avrei potuto salvare e che invece ho lasciato morire perché non era la cosa saggia da fare in quel momento, non so cosa vede, non lo so, non lo so non so più nulla, non so se vede il mio odio cieco per quell’uomo di cui sta parlando ma sicuramente sì, è ovvio che lo vede, se lo sente addosso come un pugnale rovente che le sta per trapassarle la carne. «Chi ti ama, ti lascia andare per la tua strada…» Le dico questo, le dico la cosa saggia e giusta che so fare. Ma non la cosa che voglio.
«Ti voglio bene.» Sorride davvero.


 
*

Sono ormai le cinque di mattina, è già giorno. Mi alzo di scatto dal letto: la mia decisione l’ho già presa. Devo fare la cosa più egoista e devo prendere la strada delle mie responsabilità. Mi vesto di fretta, la t-shirt bianca bucherellata, la camicia a quadri rossa, il jeans… Tutto era lì che aspettava, i vestiti sembrano quasi caldi, roventi, i miei capelli scompigliati, la mia borsa vuota. Penso che tutto quell’appartamento debba essere vuoto, nulla rimane: ora è completamente vuoto, tutto è di nuovo sigillato nella mia testa. Rimangono solo la bombola, il fornello, il letto sulla parete e la stanza sembra più grande di un infinito spazio: mi chiudo la porta alle spalle, già pronta a partire dalla città eterna. In strada trovo Cesco sulla panchina che dorme ancora, tra poco si sveglierà, la luce del sole è troppo forte: gli lascio la mia carta di credito con tutta i codici e cazzi vari. A piedi arrivo all’università, sui gradini, in modo tale che i miei studenti la trovino, lascio una pagina dell’Odissea attaccata col nastro adesivo: capiranno che è mia, capiranno che me ne sono andata, ormai anche Gallo ha superato l’esame, ormai il mio lavoro qui è finito. E avranno di che studiare perché quella pagina proviene dalla biblioteca di Alessandria d’Egitto. A piedi ritorno al Pantheon, le sue colonne grasse che sembrano aspettarmi. le sue colonne ruvide… Toccare, toccare… E l’ambulante, quello delle rose stavolta mi viene vicino, stavolta me ne offre una e gliela pago 5000 lire, pur sapendo che è un furto e che quelle son rose che rubano nei cimiteri. 
Comincio a correre. Mi sembra di essere un animale in gabbia in una città deserta in una gabbia senza sbarre. E corro con la stessa disperazione che Natasha aveva messo nelle sue gambe quella mattina: solo che io non ho nessuno davanti a me, nel mio percorso, da abbracciare. Sola, una fie-ra assetata di sangue, terribile e orgogliosa, vado a dire la verità che mai avevo detto finora. Arrivo all’appartamento di Natasha che sono le sei e un quarto quasi, quasi le sfondo il portone a calci prima che si apra quella merda di porta: salgo al secondo piano, busso e non apre. Resto in ascolto. Sento il suo respiro, è dietro la porta, sicuramente ha il cuore a mille: «Apri.» Sussurro. Ha capito che sono io, fa scattare la serratura: «Che cazzo di spavento…» Dice sconvolta. Mi viene da ridere quando si spaventa, non so è così infantile, adoro i suoi spaventi: «Ma dai, ti ho solo sfondato la porta! Ahahahah» 
«Scema.» Sbotta, ma è quasi allegra.
«Posso giurarti che non mi manda nessun stupratore.»
«Sta zitta e andiamocene in cucina che qua gli altri ancora dormono.» Ah vero i coinquilini…
«E tu sei sveglia, come al solito.»
«Come al solito.» 
«Vado di fretta, non mi siedo neanche.»
«Perché?»
«Perché parto, me ne vado.»
«Non mi avevi detto nulla.»
«Ah vabbè, sai quante cose che non ti ho detto.»
«Non mi interessa che palle, cazzi tuoi.»
Sbatto il pugno destro sul tavolo in un moto di rabbia. «Sei impossibile.»
«Ok.» Fa per alzarsi, si avvicina alla porta. Con uno scatto gliela chiudo, siamo di nuovo come quella volta, fronte contro fronte, a due centimetri, l’ho chiusa in trappola. 
«Fammi uscire per favore, che è meglio.»
«Stronza, tu non sfuggi più, porca puttana. Tu non sfuggi, ora, qui, tu non sfuggirai.»
«Patetico.» Ha gli occhi bassi io non ce la faccio, non posso sopportare ancora. Le prendo il mento tra il pollice e l’indice, in una stretta di ferro le alzo la testa e la costringo a guardarmi negli occhi: «Guarda almeno chi hai di fronte mentre lo sminuisci, perché tutti siamo buoni a non esporci e a non mettere la faccia.» 
«Che vuoi da me?» Chiede, lentamente, sillabando la frase.
«Mi hai detto tante volte che sei un caso perso e che dovrei andare per la mia strada, senza sapere che io una strada ce l’ho e la percorro indipendentemente da quanto bene o male puoi farmi tu o chiunque altro, senza comprendere che io non posso lasciar perdere e tu non sei un fottuto caso perso, scema.»
«Uhm parole.»
«E POI OSI ANCHE CHIEDERE CHE COSA VOGLIO?! TU STAI FUORI, TU SEI UN’EGOISTA, IPOCRITA DI MERDA, TE NE STRAFREGA, TE NE STRAFREGA, DI ME TE NE STRAFOTTI ALTAMENTE!»
«Lo sai che non sono il tipo da dire queste cose in faccia.»
«Tu sei il tipo che getta in un angolo chi ti ha rispettato per una anno, chi ti ha voluta bene e ti è stata dietro sempre, nelle tue follie, nei tuoi sogni, tra i cadaveri dello schifo che c’hai dentro e tra gli angeli delle tue cose belle. Tu sei il tipo che per il primo uomo che dice di amarti dopo mesi, mandi affanculo tutto il resto. Tu sei il tipo che dice che io non so niente e che non capisco, non posso capire questa cosa, tu sei il tipo che si permette di dare lezioni di vita sul nulla e di parlare di cose concrete quando in realtà la via spianata ce l’hai, non la vedi, la facilità è morta, non è vero? La facilità è morta… Tu sei un essere umano, capito? Non sei qualcos’altro, un angelo, un demone, quello che cazzo ti pare, sei tu quella che non sa nulla. Non hai potere, capito? Non hai nulla di quella tua falsa forza che ostenti come se fosse vera, come se fossi fatta d’acciaio. Quindi per favore che per una volta, così come io ti sto dando la mia anima sinceramente dicendoti tutto faccia a faccia, comportati da essere umano non vergognandoti di ciò che hai di buono.»
«E tu invece chi saresti?»
«Atena, dea di quello che sai, mi scoccio a dire le solite cazzate.»
«…Che cazzo ti sei fumata…»
Apro la mano dove finora la rosa ha scavato con le spine solchi profondi: «Vedi questo? Non è propriamente sangue, è icore.» Le accarezzo la guancia con il palmo dorato di icore: «Per i mortali è veleno, il mio sangue è solo veleno, vedi…» Osserva e basta, sembra un angelo e mi guarda pari a pari, sembra quasi avere pietà di me e la mia rabbia svanisce, svanisce tutto il negativo e resta il bene, le voglio bene, al di là di quanto mi faccia male tutto di lei. Piano, piano le lacrime mi solcano il viso, roventi e dorate, piango sangue, piango icore. Mi abbraccia. Il cerchio si chiude finalmente, il cerchio si chiude e mi sembra di volare… «Scusa.» Riesco a dire, solo quello, scusa, scusa, scusa, scusa, scusa, scusa, scusa, mi si apre il petto, scusa, scusa, scusa, scusa, scusa, scusa, scusa. Fronte contro fronte, vita contro immortalità, potere contro potere, a due centimetri, mi bacia. Alla fine io avrei dovuto avere quel coraggio, ce lo ha avuto lei. Quanto è straordinaria…  «Scusa di cosa?» Sussurra. «Scusa se ti amo. Scusa se ora me ne andrò perché ho una figlia e un cerebroleso con lei, scusa se sono immortale. Scusa se non ho mai detto quello che pensavo. Però non è così che deve andare, tu… Non è con me la tua vita, ama chi vuoi ma ricordati di me, sempre, ricordati di me quando tutto il resto ti deluderà. Ciao.» Le lascio la rosa, mi volto e vado, vado nel sole delle sette di mattina, vado ma ritorno soltanto e so che si ricorderà di me e so che nulla di ciò che sono andrà perduto nella sua memoria e so, finalmente so che chi ti ama ti lascia per la tua strada e mai ritorna indietro egoisticamente per averti e possederti. 
Roma, come sei bella Roma, Roma ti lascio con la mia bella e i suoi ricordi, Roma capoccia, Roma questo è ciò che mi hai dato e grazie davvero. Anche se lei sarà sempre più lontana e correrà, cor-rerà lontano e io sono un disastro in queste cose, grazie… Vado a riprendermi mia figlia a otto fusi orari di distanza, tutto per te che sei nata da un uomo menomale e non sei solo figlia mia, tu che ti innamorerai tra una decina di anni, tu che soffrirai per un ragazzo e sputerai in faccia a tua madre credendo che sia una stronza e un’insensibile. Tutto per te, io ritorno per te. Piove di nuovo. Gra-zie, padre. Ma una parte di me continua ad odiarti perché non ho potuto amare quella donna. 




12 luglio 2015

Annabeth,

vorrei che oltre al solito regalo di compleanno (ma scommetto ti piacerà quello di quest’anno…Ma non posso dirtelo, ovvio, altrimenti che diavolo di sorpresa sarebbe?) leggessi questi fogli. È una parte della mia storia, erano gli anni 90’: prendi questa storia come la scusa più grande che potessi mai farti per questi ultimi anni orrendi che non sono andati purtroppo come speravo. Prendi questa storia come una approvazione nei confronti di quella testa di cazzo di Percy, la mia benedizione e soprattutto come un mio grande sorriso. Ti voglio bene, tanto, tanto, bene,


Mamma      






 
  
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