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Autore: Columbrina    29/06/2015    1 recensioni
Partecipante al Digimon Adventure 15th Anniversary Contest di Setsuka|Taichi's Affection|Tre momenti|Luce
Tai ha sempre avuto Sora accanto a sé, a sostenerlo nel momento più duro della sua vita e nei successivi altri, senza far trasparire alcuna morbosità, senza neanche rendersi conto di quanto fosse profonda la voragine nel suo cuore da quel giorno d'inverno.
Sull'orlo di una vita scandita dagli attimi in cui compare sempre lei, anche come semplice comparsa, mette nero su bianco i momenti in cui si rese conto quanto fosse inevitabile Sora, per evitare di essere inghiottito dal buio.
“Non si è sposata con te?”.
“Oh no! Assolutamente. Il nostro rapporto era troppo bello per essere chiamato amore”.
[...]
“E, poi, lei era più la mia luce che altro”.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sora Takenouchi, Taichi Yagami/Tai Kamiya
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Titolo storia: "Perso"
Rating: Giallo
Prompt scelti: Taichi Yagami|Agumon|Luce

Personaggi: Taichi Yagami; Sora Takenouchi
Genere: Slice of life; Malinconico; Sentimentale
Pairing: Nessuno. 
Note dell'autrice: Quando ho scelto il prompt, ho pensato che sarebbe stato bello fare il parallelismo tra Hikari e la sua digipietra e ciò che, effettivamente, rappresenta per Taichi, oltre che essere la semplice sorella. Poi, andando avanti nella stesura, ho deciso di rivoluzionare tutto, dando il ruolo di fiaccola a Sora, rivedendo anche forse un po' Digimon Adventure. Mi sono soffermata principalmente sulla Saga di Etemon, a dir la verità, pensando in particolare a cosa ha rappresentato il rapimento della ragazza da parte di Datamon per la superdigievoluzione di Greymon e per Taichi stesso, che aveva perso "qualcosa di molto importante e che deve assolutamente ritrovare". 
Ho provato, dunque, a immaginare come Sora avrebbe inciso nella sua vita, anche quando avrebbero preso due strade completamente diverse, con due partner diversi, mettendo a dura prova il mio spirito Taiora.
Ma il Taichi e la Sora rappresentati qui dentro sono puro affetto, un legame indissolubile, che fa male, illumina e acquieta. 




Perso
 
Dalla tersa finestra della sala d’attesa traspariva tutta la limpidezza di una giornata d’estate; il cielo era di un azzurro fatto di soffici macchie bianche che, qua e là, servivano a rendere più suggestivo il dorato accecante del sole, che creava dei giochi di luce sulle foglie degli alberi del prato del cortile e delle fitte ombre, che invogliavano a ripararsi sotto quella frescura, leggere un libro o sorseggiare del tè freddo. Se Taichi Yagami non fosse stato costretto a trovarsi lì dentro, sarebbe sicuramente sceso a giocare a calcio; di energie ne aveva ancora da vendere.
Confinato, però, a star seduto fin quando non fosse arrivato il suo turno, si guardò in giro e non vide altro che signori anziani accompagnati dai loro figli ormai adulti; qualche uomo in gessato, nonostante il calore, che prendevano qualcosa da bere al distributore e qualche bambino, come quello accanto a lui. Si soffermò per un istante a guardarlo e si stupì nel realizzare quanto si somigliassero: aveva occhi color cioccolato, vivaci, impulsivi; capelli ispidi e l’abitudine di muoversi sulla sedia anche quando non si poteva stare in piedi; differivano solo per il colore della pelle, dato che Taichi manteneva ancora un bel colorito olivastro, mentre il bambino era molto chiaro di carnagione. Stava giocando ai videogiochi, canticchiando la canzoncina del gioco e muovendo la gamba a ritmo; non si era accorto che era oggetto delle riflessioni di Taichi.
“Nonna, vieni qui!”.
Si sentì il grido di una bambina che attirò l’attenzione sia di Taichi che del bambino: era un giunco di ragazzina, di non più di sei anni, con i capelli corti, gli occhi felici e la canottiera gialla; per quel bambino doveva essere la creatura più bella che avesse mai visto, perché rimase imbambolato a guardarla con gli occhi spalancati e le dita e la gamba ferme. Taichi era molto divertito da quel bambino, ma allo stesso tempo provava una forte empatia nei suoi confronti perché non era poi così diverso da lui. Gli venne un’improvvisa voglia di scrivere, di gettare su carta tutto quello che gli passava per la testa e che avevano la forma di una sola figura. Era sorprendente che avesse una tale lucidità nel ricordare perfettamente ogni dettaglio, ogni particolare, di come tutto fosse talmente simile a quella bambina che, in fondo, aveva turbato anche Taichi.
Chiese a una donna una penna, tirò fuori dalla borsa un quaderno dalla copertina rossa e prese a scrivere. La penna scivolava sul foglio e gli occhi erano ipnotizzati da quel movimento rapido, ondulato e irregolare, dato che l’inchiostro era a tratti più chiaro e poi più scuro. I pensieri venivano metaforicamente gettati in quelle parole, liberando parola dopo parola, sensazioni che Taichi aveva rinchiuso tanto tempo fa nel suo passato; non perché volesse dimenticarle, ma perché, facendo parte del suo vissuto, aveva deciso di custodirle e riviverne qualcuna ogni tanto nei suoi racconti a voce; ma mai gli era successo di metterle fuori tutte in una volta, ma l’occasione gli era sembrata quanto mai propizia. Si stava annoiando, era confinato là dentro, lo sguardo di quel bambino che tanto gli somigliava era simile al suo quando guardava Sora Takenouchi, dal primo giorno d’asilo, anche se ci avrebbe messo molto più tempo per rendersi conto quale sorprendente meccanismo si nascondeva dietro quello sguardo: doveva mettersi a scrivere; doveva farlo, prima o poi, lo meditava da giorni.
Nel frattempo, la sala d’attesa si svuotava progressivamente; la bambina se n’era andata con la nonna, lasciando il bambino profondamente deluso, tanto che anche ritornare al suo videogioco non era più un passatempo spassoso. Al punto che allungò gli occhi curiosi sul foglio quasi pieno dell’inchiostro della penna, che si interruppe non appena Taichi se ne accorse.
“Non ti devi fermare” gli disse il bambino, che chiuse la console portatile per fargli chiare le sue intenzioni.
Taichi gli sorrise teneramente e venne preso dall’impulso di scompigliargli i capelli ispidi.
“Non mi fermo; solo non mi aspettavo che qualcuno mi stesse guardando”.
“Il fatto è che non ho più voglia di giocare e non avendo niente da fare, volevo vedere almeno cosa stessi scrivendo”.
Taichi ritornò di qualche pagina indietro, decidendo di fargli leggere l’unico “capitolo” che aveva concluso; nel dargli una lettura veloce, i suoi occhi si impregnarono di nostalgia, tanto che dovette respirare più profondamente del normale per non lasciare che, oltre le parole, si liberassero anche le lacrime. Il bambino notò, comunque, una certa tristezza negli occhi di Taichi, anche se non riusciva pienamente a capire per quale motivo.
“Sei preoccupato per quando ti verranno a chiamare?” gli chiese, con un’ingenuità tale che fece sorridere, seppur malinconicamente, Taichi.
“No, in realtà no, perché ho chi mi sosterrà in qualunque caso”.
Gli occhi del bambino erano sempre più curiosi.
“E chi è?”.
Prima di rispondergli, Taichi guardò velocemente il cielo d’estate da dietro la tersa finestra della stanza, sorridendo come rivolto a un vecchio amico che non vedeva da tempo; poi lasciò che tutto il cuore che ci aveva messo nello scrivere quelle parole, fluisse nella voce di quei lucidi ricordi scritti in terza persona.
 
“Scusami se ho sbagliato, ma non ti deluderò”
Era calata la notte; l’indomani, si sarebbero infiltrati nel castello vuoto di Myotismon per provare ad aprire il portale che gli aveva concesso un netto vantaggio sui digiprescelti: il loro nuovo nemico era riuscito ad entrare nel mondo degli umani, portando con sé un numero considerevole di scagnozzi, uno più sanguinario dell’altro; tutto per trovare e uccidere l’ottavo bambino prescelto, uno di loro. Taichi, in qualità di leader, era stato scelto per trovare la combinazione giusta per aprire il portale: avrebbe dovuto disporre delle carte consegnatigli da Gennai su un pilastro di pietra, con incisi dei simboli che nascondevano molto più che un disegno astratto; una di quelle carte, però, non concludeva in modo adatto il disegno, quindi Taichi avrebbe dovuto compiere un’ulteriore scelta tra le due carte che sarebbero rimaste alla fine.
Nella stanza che Gennai aveva adibito a camerata, dormivano tutti placidamente; solo Taichi non riusciva a prendere sonno o trovare pace, quindi si diresse sul retro del suggestivo giardino, con la veranda fatta di legno e un sentiero di piccole pietre che portavano a un laghetto poco distante, che somigliava alla pacifica immagine di un tempio tradizionale giapponese. Sperava che la contemplazione di quello scenario notturno sarebbe servito a mettere un po’ d’ordine alla confusione che gli annebbiava tutto. Ma non sentiva altro che il fruscio dell’acqua, delle piante e, se non fosse stato a Digiworld, avrebbe detto che quel canto strozzato in sottofondo era quello di una cicala.
“Se sbagliate la combinazione, vi ritroverete in altri mondi diversi dal vostro e chissà cosa potrebbe accadervi” era stata l’ammonizione di Gennai, che aveva invogliato i bambini a pensare molto bene alla disposizione delle carte sull’altare di pietra. E ciò non faceva altro che rendere Taichi ancora più affranto: aveva solo undici anni e la responsabilità della vita sua e dei suoi amici gli ricadeva sulle spalle come un macigno.
Era talmente assorto dai suoi pensieri che non sentì dei passi familiari avvicinarsi sempre più alla veranda che dava sul giardino; solo quando il placido sguardo di Sora Takenouchi si specchiò nei suoi occhi color cioccolato, si rese conto che non era l’unico a non riuscire a dormire.
“Che ci fai qui?” gli chiese, sorridendo e rimanendo in piedi sulla soglia della porta scorrevole che separava la veranda dalla sala da pranzo.
“Non riesco a dormire” fu la sua risposta. Sora rimase in silenzio per ascoltarlo e Taichi, di rimando, prese a guardare il cielo, pacifico e trapuntato di stelle; magari le sue parole, dinanzi a uno scenario del genere, sarebbero venute fuori più facilmente: “Penso al fatto che avete sbagliato a scegliere me come leader. Non ho la benché minima idea di quale possa essere la giusta combinazione di quelle carte e, cosa peggiore, ho paura di mandarci in uno di quei mondi di cui parlava Gennai. So che vi fidate di me e quant’altro, ma non voglio deludervi come ho fatto l’ultima volta…”.
“L’ultima volta?” chiese Sora, che proprio non riusciva a ricordare. Si sedette accanto a lui sulla veranda e, per un attimo, si sentivano solo quei fruscii interminabili che incorniciavano suggestivamente la notte.
Taichi, il cui braccio sfiorava quello dell’amica, dovette farsi molto coraggio per ammetterlo, come per voler rivangare una cosa cercata disperatamente di dimenticare.
“Proprio tu me lo chiedi, Sora?” le disse placidamente Taichi, sorridendole.
Sora venne colta alla sprovvista da quella domanda: proprio non riusciva a ricordare cosa avesse potuto turbare il suo amico così tanto.
“Mi riferisco a quanto sono stato un idiota quella volta, nella Piramide di Etemon, quando ho lasciato che Datamon ti prendesse, ti clonasse e ti lasciasse quasi risucchiare dall’oscurità” raccontò Taichi, mesto: “E non solo questo. Mi riferisco anche a quando ho lasciato che Agumon non facesse la giusta digievoluzione; a quando ti ho fatta piangere qualche giorno fa, senza ascoltarti per davvero; a quella volta che ho preso a pugni Yamato perché non avevo capito fosse preoccupato per Takeru… Sono un fallimento come leader e lo sapete tutti”.
Taichi digrignò i denti, visibilmente arrabbiato con se stesso; si sentiva scoraggiato, senza stimoli e, per la prima volta dalla sua avventura a Digiworld, desiderò ardentemente tornare indietro, all’inizio del campo estivo, quando la paura più grande era non farsi scoprire dal professore a fare scherzi nel suo bungalow, non rischiare la vita sua e dei suoi amici. Aveva voglia di piangere, ma non voleva farsi vedere in quello stato davanti a Sora, che ancora non diceva niente, ma poteva sentirla sorridere e non riusciva a spiegarsi perché.
“Mi pare, però, che tu sia venuto a salvarmi; che abbia impedito che l’oscurità mi risucchiasse. Mi hai salvato la vita, Taichi. E tutti noi non ci saremmo mai riuniti se tu non fossi apparso all’improvviso. Quei giorni senza di te sono stati cruciali per noi, è lì che abbiamo capito quanto fosse importante la tua presenza per tenerci uniti”.
Taichi era sorpreso: per quanto forte fosse il loro legame, dato che si conoscevano sin da quando andavano all’asilo, mai si era esposta così tanto nel rivelare i suoi pensieri; era sempre pronta a dirgli la verità nel caso le avesse chiesto qualcosa, un parere o un giudizio, ma Sora Takenouchi preferiva dedicarsi agli altri, piuttosto che far trasparire le proprie debolezze; infatti, non avrebbe mai saputo dei problemi con sua madre se non fosse stata messa alle strette. D’un tratto, si sentì invaso da una nuova energia, simile al tocco caldo di una mano amica che scivola sul cuore e lo irrora di luce, di ottimismo, di speranza. Non aveva dubbi che sarebbe stata Sora l’unica persona capace di ricordargli perché aveva scelto di essere la loro guida.
“E come la metti se sbaglierò la combinazione e ci ritroveremo in un altro mondo?”.
Il sorriso di Sora fece sparire ogni dubbio.
“Ci affideremo al nostro capo per trovare una soluzione. Guarda che ci siamo ritrovati a Digiworld senza sapere perché e siamo sopravvissuti; con i Digimon al nostro fianco e un leader tanto testone quanto ottimista, ne usciremo. Ci fidiamo tutti di te, capo”.
Taichi le rivolse un grande sorriso, che le riempì il cuore di orgoglio, e la ringraziò; parlarono un altro po’ e poi decisero di andare a dormire.
Una volta a letto, Taichi fece fatica ad addormentarsi perché non faceva altro che pensare a una cosa: lui sarà pure il capo, ma era consapevole che, senza una luce che potesse illuminare il cammino da far seguire agli altri, avrebbe brancolato nel buio per chissà quanto tempo, continuando a rigirarsi su se stesso e rimuginare su cosa fare, sulla combinazione giusta, sul coraggio da riprendere. Aveva undici anni, ma ancora non se ne rendeva pienamente conto; guardava solo Sora, nel letto affianco accanto a Yokomon, che già dormiva placidamente e si sentiva più sicuro.
Un Taichi un po’ più cresciuto, adesso direbbe:
“Anche se fossimo caduti nella rete oscura di Etemon, quella volta, ne saremmo usciti. Solo la luce può battere le tenebre e io avrei avuto la mia. Mi chiedi qual è la mia luce? Beh, se ci siamo solo io e te, Sora, fai due calcoli”.
 
Il bambino era rimasto in silenzio per tutto il tempo in cui Taichi aveva raccontato la sua storia, mentre i suoi occhi color cioccolato contemplavano spalancati il modo in cui le labbra modulavano ogni parola e quanto trasporto c’era nella sua voce.
Gli chiese chi fosse questa Sora, sempre più incuriosito dalla sua storia, posando definitivamente la sua console portatile sulla sedia affianco.
“Era una mia amica, una mia carissima amica. Siamo cresciuti insieme e non ci siamo mai persi di vista, anche quando i contatti tra tutti noi si persero. Le ho anche mantenuto la testa mentre vomitava la mattina del suo matrimonio”.
Il bambino fece una smorfia di disgusto, che somigliava a un “Bleah”. Lo fece in modo così divertente che Taichi rise. Anche lui aveva chiuso il quaderno e riposto in borsa; fin quando non l’avrebbero chiamato, era consapevole che sarebbe stata una lunga conversazione. I bambini sanno essere molto curiosi.
“Non si è sposata con te?”.
“Oh no! Assolutamente. Il nostro rapporto era troppo bello per essere chiamato amore”.
“Ma la maestra mi dice sempre che l’amore è continuare insieme un cammino troppo buio per essere affrontato da soli. Non è questo quello che hai voluto dire nel tuo racconto?”.
Un’espressione intenerita sostituì quella divertita di pochi istanti fa; avrebbe voluto scompigliargli nuovamente i capelli ispidi e spiegargli, già alla sua giovane età, i tanti significati dell’amore, che non si limitava a quello che i suoi genitori provavano per lui.
“L’amore ha tanti significati. Anche tu avrai un amico o un’amica che ti aiutano nelle situazioni più difficili… Anche quello vuol dire amare una persona” sorrise: “E, poi, lei era più la mia luce che altro”.
Il bambino aveva, di contro, un’espressione contrariata; non voleva sentire ragioni e Taichi si disse che era troppo piccolo per poter capire e, forse, era meglio così.
Ai due si avvicinò una signora, con i capelli tirati all’indietro e con addosso un camice, che si rivolse a Taichi:
“Signor Yagami, tra poco tocca a lei” disse, con voce flautata.
Taichi ringraziò con un sorriso, ma tirò un respiro profondo. Il bambino allungò nuovamente lo sguardo, un po’ preoccupato.
“Che ti prende?”.
“Niente di che. Solo che non ci fai mai pienamente l’abitudine…”.
Il bambino apparve confuso.
“Ma se prima hai detto che hai chi ti sostiene e quindi non avevi paura!”.
Taichi sorrise, ma non poté fare a meno di guardare in terra, poco dopo, abbastanza malinconico.
“Sì, ma l’ultima volta lei era con me”.
Il piccolo era ancora più confuso.
“Perché ora dove sta?” gli chiese.
Nella sua innocenza, non si rese conto di aver toccato un tasto dolente. Arrivato a un certo punto, Taichi credeva di aver dimenticato e superato certi dolori e certe batoste della vita: non avevano condiviso il cammino della vita insieme; avevano preso strade diverse, ma, per quanto tentassero di allontanarsi, c’erano quelle strane circostanze a tenerli vicini, che fossero gioie e dolori.
E, per quanto tentasse di sfuggire alla domanda, lo sguardo insistente del bambino metteva Taichi soggezione sufficiente per prendere fiato e fargli capire il significato delle sue parole.
 
“Ti proteggerò sempre, questo è quello che farò”
Raccontava allora di un giovanotto di diciassette anni, quasi diciotto, che si trovava in una sala d’attesa molto simile a quella in cui si trovava ora, molti anni dopo. Accanto a lui, vi era una ragazza con la carnagione chiara, capelli ramati che le scendevano fin sopra le spalle, un po’ indomiti alle punte e gli occhi apprensivi.
Il ragazzo era arrabbiato, al punto da aver dato un pugno al muro per sfogare la frustrazione, la furia verso il mondo; era questo ad aver creato tanta malinconia nello sguardo della ragazza.
“Non è possibile!”.
Facile intuire che quel ragazzo era Taichi, più alto, con i capelli ancora più ispidi e la rabbia che irrorava i suoi occhi di lacrime, nonostante cercava di nasconderli tenendo la testa bassa e sorreggendo tutto il peso del corpo in quel pugno ancora inferto al muro. Era come se si sentisse incorporeo, ovattato in una bolla in cui tutti i suoni gli giungevano attoniti, quindi non gli importava di urlare o di piangere.
“Taichi, smettila”.
Per quanto attutita, la voce di Sora gli giunse dura, inflessibile, eppure triste al tempo stesso. Stava a pochi passi da lui, ma non osava avvicinarsi e, quasi per contenersi, si stringeva nel maglione che le stava un po’ troppo largo.
“Come faccio a smetterla, Sora?”.
Gli occhi tristi di Sora riflettevano il volto duro, distrutto e impregnato di lacrime di Taichi, che batté un altro pugno, questa volta più poderoso dell’altro tanto che gridò per il dolore e cercò di attutirlo con l’altra mano; quasi di riflesso, la ragazza si lanciò verso di lui, stringendole la mano e lasciandosi cadere insieme a lui sul pavimento, sorreggendosi sulle ginocchia. Lui singhiozzava e teneva la testa bassa, abbandonata sull’esile spalla di Sora.
Da più lontano, Hikari aveva visto la scena e aveva detto a bassa voce a Takeru, Yamato, Koushiro e ai suoi genitori di scendere di sotto a prendere un caffè e che ci avrebbe pensato Sora a lui.
Taichi e Sora restarono qualche minuto così: lui, distrutto, con la testa sulla sua spalla, a piangere perché non vedeva altra soluzione che quella.
Gli avevano detto, pochi minuti fa, che avrebbe dovuto rinunciare a praticare il calcio in maniera agonistica o qualunque altra attività sportiva, per una cosa chiamata, paradossalmente, sindrome del cuore dell’atleta, che gli consentiva di affaticarsi meno degli altri suoi compagni, perché aveva un cuore più grande, più forte, ma erano proprio quelle dimensioni e quella forza a danneggiare progressivamente il muscolo cardiaco. Paradossale.
Paradossale era anche l’unica parola che Sora riusciva a pensare, la ripeteva come un mantra, mentre le sue mani si muovevano quasi meccanicamente lungo la schiena di Taichi, i cui singhiozzi risuonavano nell’indifferenza generale. Lo lasciò sfogare per qualche altro minuto, poi gli alzò piano la testa dalla sua spalla e gli sorrise dolcemente, guardandolo negli occhi impregnati di lacrime. Lui cercò di mandarle via con un braccio, visibilmente a disagio nel farsi vedere così.
“Non riesco a smettere di pensarci” esordì lui, con voce stanca. Aveva le gote attraversate dai rivoli, quindi sotto la luce artificiosa delle lampade a soffitto, il suo volto appariva ulteriormente traslucido.
“Anche per me è stata una batosta, credimi. Mi sento anche in colpa nel pensare che l’ho abbandonato volontariamente, quando tu…”.
Si fermò, stringendo con le dita i lembi del jeans, come a rimproverarsi da sola. Continuò, comunque, a parlare; in questo modo, le lacrime di Taichi non sarebbero diventate le sue.
“So che tutto sembra crollarti addosso in questo momento…”.
“Dai, Sora, non dirmi queste cose. Già le ho sentite e risentite…” disse Taichi, con fare mesto. Sora gli diede un piccolo buffetto sulla guancia.
“Stupido, Taichi, non mi hai fatto finire!” e continuò, assumendo un’espressione fintamente offesa: “Ti volevo dire che potrò mostrarti la vita senza che il calcio sia il tuo punto fermo. Sono sempre stata gelosa del pallone, lo sai? Non facevi altro che parlare di lui quando eravamo piccoli e non mi davi mai il tempo di mostrarti i miei cappelli nuovi”.
Taichi sorrise timidamente, ma i suoi occhi erano comunque malinconici e, per certi versi, seri.
“Sora, per favore, è una cosa seria per me”.
Lei non rispose subito; strinse ulteriormente la presa sui lembi del jeans, sentendosi ulteriormente colpevole, incapace di strappargli un sorriso sincero, di aiutare a trovarlo un motivo per non farsi abbattere dall’annuncio dei medici. Stranamente, l’unica immagine che gli veniva in mente era quella di Taichi accasciato sul campo, con i paramedici, i compagni di squadra e gli avversari intorno a lui; Hikari, scossa dai singhiozzi, che cercava di avvisare i suoi genitori; Yamato che le cingeva la vita, cercando di calmarla, perché non aveva mai sentito il suo cuore andare così forte, quasi volesse uscire dallo sterno.
Taichi notò che aveva voglia di piangere.
“Lo so che è una cosa seria per te, Taichi, ma tu non ti rendi conto dello spavento che ci siamo presi tutti quanti. Tua madre ha quasi aggredito un’infermiera per quanto era agitata e Hikari non ha detto una parola per ore. Lo so quanto tieni al calcio, lo so quanto sei bravo e puoi scegliere se continuare, se morire sul campo, qualunque cosa tu voglia fare, io non te lo impedirò. Ma ascolta chi ha vissuto il campo con te, Taichi”.
Sora prese un respiro profondo, un po’ incrinato dalla tristezza nel rievocare quelle scene.
“Ti ricordi quando credevi fossimo un mero insieme di dati? Virtualmente immortali? Ecco, qua non siamo a Digiworld e scuse non ne hai. Io ho quasi messo a repentaglio il rapporto con mia madre e una caviglia per la mia testardaggine, tu non farlo con la tua vita. Vederti accasciato sul campo, caduto come un peso morto, è stata una delle cose più dolorose a cui abbia mai dovuto assistere. Sei il mio migliore amico, Taichi, e che cavolo! Credi che ti voglia vedere andato prima del tempo? Quindi, non fare l’incosciente questa volta! Ti ricordo che, per la tua scemenza, ci ho quasi rimesso la pelle. Un giorno stesa su quel lettino a farmi clonare… E chi se lo scorda più!”.
Si guardarono per qualche istante e presero a ridere: Taichi era divertito dai maldestri tentativi di fare dell’umorismo per nascondere quanto fosse sconvolta; lei si faceva semplicemente trascinare dalla sua risata, lasciando che la tensione scemasse.
“Non avevo pensato a quanto possa avervi fatto del male. Non ti nego, però,che è dura da digerire”.
“Lo so. Anche se non è la stessa cosa, per me è stata dura lasciare il calcio. Però, ti prometto, Taichi Yagami, che ne verremo fuori insieme. Mi hai salvato la vita una volta, quindi permettimi di ripagare il mio debito”.
Taichi le diede un affettuoso buffetto sulla guancia, sorridendo in modo più spontaneo.
“Sai che non me lo sarei mai perdonato”.
Poi cercò anche lui, maldestramente, di scherzare: “E se vuoi aiutarmi solo perché vuoi ricambiare un favore, sarò terribilmente offeso”.
“Scemo”.
Si alzarono entrambi, sentendo un po’ male alle ginocchia, e andarono al piano di sotto, dove vennero accolti dai sorrisi timorosi degli altri; Hikari cercò di nascondere qualche lacrima, ma Taichi aveva notato la lucidità dei suoi occhi. Quella sera, andarono a cena fuori; Taichi era seduto accanto a Sora, dopo tanto tempo, e non ricorda di essersi divertito così tanto prima d’ora.
Il giorno dopo e, per tutto il resto della terapia, Sora restò al suo fianco.
“Anche se il destino ha voluto diversamente per noi, tu mi sei sempre stata vicino. Non avrei superato la rabbia, le difficoltà, le notti a piangere se non fosse stato per te. Tu riesci a non farmi sentire dolore. Sei la goccia di luce in un oceano di nero, amica mia…”
 
E così, anche suo nipote sapeva di lei.
Durante il viaggio di ritorno a casa, l’aveva assillato con altrettante domande, piene della curiosità di un bambino. E lui, con un po’ di peso nel cuore, rispondeva, cercando di non mostrarsi scoraggiato dagli esiti delle analisi in ospedale.
Avrebbe dovuto affrontare una terapia abbastanza lunga e, quando si è giunti a una certa età, non ci si chiede più se ce la si farà o meno. Dopo che ebbe lasciato il nipotino sotto casa, si diresse al cimitero.
In quegli ultimi anni, paradossalmente, era divenuto il luogo che più di tutti lo appagava, in cui riusciva a ritrovare la speranza interiore, in cui la vita gli sembrava più vicina.
Con sé non recava alcun fiore o preghiera, solo le gambe stanche che si fermarono dinanzi a una lapide di un grigio che gli sembrava più chiaro, meno usurato rispetto alle altre. Era circondata di fiori, alcuni quasi appassiti, e di candele, che non venivano accese da un bel pezzo. Sulla fredda lastra marmorea, vi erano incise quasi crudelmente lettere che componevano casualmente il nome di Sora Takenouchi e nient’altro, solo la data di nascita e morte.
Taichi si abbassò, tenendo gli occhi fermi su quel nome che gli stringeva il cuore e sembrava dargli una pulsazione normale, anche se sentiva il sangue freddo e ogni pensiero sbiadire. Restò in silenzio qualche minuto, per spirito di contemplazione e, solo dopo un po’, iniziò a parlarle ad alta voce, incurante dell’opinione che avrebbero potuto avere di lui.
“Persino la morte ti dona” disse a un interlocutore che non avrebbe potuto rispondergli. Immaginava, però, il sorriso sul volto dei suoi ultimi anni, un po’ segnato dal tempo e dalla malattia, gli occhi un po’ sbiaditi, ma che si sforzavano di apparire sempre luminosi.
“Mi dispiace non esserti stato vicino quando ne avevi bisogno; non ho mai realizzato a pieno che ne avessi bisogno più di me. Sei sempre stata tu quella che mi ha tirato fuori dai guai, che mi ha permesso di non toccare mai il fondo… Era difficile per me accettare che dovessi assumere io il tuo ruolo. Non ce l’avrei mai fatta”.
Taichi non ha accettato per anni il fatto che Sora fosse malata; gli risalivano tutte le colpe contorte nello stomaco quando pensava che, forse, sarebbe stato la persona di cui aveva più bisogno, che l’avrebbe salvata. Quando scoprì della malattia, suo nipote aveva compiuto due anni da pochi giorni, quindi fu come una secchiata di ghiaccio e dolore. Taichi si rinchiuse in se stesso come il bruco nel bozzolo, completamente estraneo dal mondo; la chiamava sporadicamente, solo per farle sapere che c’era, un po’, ma c’era; oppure le mandava messaggi tramite Yamato, ma non si era mai fatto vivo in ospedale; solo quando scoprì che la malattia era terminale, si fece coraggio e si presentò; entrò nella sua stanza, si parlarono e rievocarono vecchi ricordi, lei gli disse anche un segreto; si abbracciarono e poche ore dopo, Sora spirò. Taichi realizzò la sua morte solo al suo funerale; non appena uscì dalla chiesa, pianse, urlò, al punto da spaventare Yamato stesso.
“Da quando non ci sei più, la mia malattia è peggiorata. Spero tu sappia perché. Se sono arrivato a vivere anche più di te, lo devo solo ed esclusivamente alla mia luce”.
Un refolo di vento accarezzò il volto di Taichi, anch’esso segnato dal tempo, dalle rughe pacate e un po’ stanche, come se non avessero più alcuno stimolo alla lotta.
“Ho raccontato a mio nipote di te, lo sai? Gli sei simpatica e dice che avrebbe voluto conoscerti. Oggi ha anche visto una bambina in ospedale che ti somigliava… Credo sia di famiglia”.
Rise da solo, ma non si sentiva tale: ogni volta che era alla sua tomba, immaginava loro seduti a un tavolo con due tazze di tè, a chiacchierare e ridere come se non si rendessero conto dell’esistenza del tempo.
Le disse anche che avrebbe dovuto iniziare una terapia molto invasiva, che sarebbe stata dura e che erano tutti preoccupati per lui, salvo lui stesso; abbassò il volto, perché sentiva che non era quello che Sora voleva, ma Taichi si difendeva dicendo che non era colpa sua; non ce la faceva.
Non si sentiva completamente in colpa, però, perché decise di confessarle il suo di segreto.
Tirò fuori dalla borsa un’agendina, la stessa su cui aveva scritto in sala d’attesa, e la strinse, come se fosse un prezioso tesoro da proteggere anche dal più placido soffio di vento.
“So che mi aiuterai anche questa volta perché non voglio andarmene fino a quando non avrò scritto le mie memorie, i miei ricordi, anzi… I nostri. Tutti riguarderanno te. Da quando ho vomitato nel tuo cappello, alla prima partita di calcio, a quando ti ho salvata nella piramide, a quando ti abbiamo trovata triste e sconsolata, a quando cercasti di nascondermi il regalo per Yamato, a quando vi siete lasciati la prima volta, a quando sei andata in America con lui, al tuo matrimonio, alla nascita dei tuoi figli… Tutto, tutte le pagine avranno il tuo nome almeno una volta, Sora Takenouchi”.
Un refolo un po’ più intenso di vento, simile a un pianto sommesso, si alzò, scompigliando i folti – sebbene non come un tempo – capelli grigiastri di Taichi e i ciuffi d’erba superflui del prato che rivestiva il cimitero. Rivoli caldi rigavano le sue guance e scavavano, in modo più evidente, le rughe del suo viso.
Sora Takenouchi l’aveva salvato, gli stava dando la vita anche dalla freddezza della sua tomba, gli stava permettendo di vedere la luce alla fine di un tunnel che sentiva di percorrere da solo da troppo tempo.
Sentiva le sue dita materne poggiarsi sui suoi capelli, il sorriso ampliarsi fin quando non avrebbe raggiunto quella curvatura perfetta, irresistibile; gli occhi dolci e placidi che vedevano oltre le sue lacrime. E il vento, alle sue orecchie, sembrava portare un sussurro lontano:
“Stupido, Taichi”
   
 
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