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Autore: Bolide Everdeen    01/07/2015    1 recensioni
[Storia ispirata alla fan fiction interattiva "500".
Distretto 3, Reed Fox.]
Aveva sempre odiato gli armadi. Se ne accorse quando pensò con più attenzione a quegli enormi scrigni di vestiti, contenitori della più futile ricchezza, intarsiati e privi di uno spirito. La loro vera natura si manifestava in quel mobile in cui si trovava in quel disperato momento: nonostante si mostrassero come il più vivo splendore, quegli armadi erano vuoti, orribili, senza alcun sentimento. E avevano trasmesso il loro modo di essere anche ai loro possessori.
Reed, semplicemente, non voleva divenire come essi.
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Altri tributi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '500 - Behind the scenes'
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«Tutto chiaro, Reed?» domandò l'uomo di cui Davis non aveva compreso il nome, sottolineando con particolare vigore l'ultima parola. Ancora non era riuscito a comprendere il motivo di quella variazione di nome, forse per un macabro gioco di quel signore dall'aspetto folle, forse un capriccio da sfogare. D'altronde, lo stava ospitando per un breve periodo, adeguarsi agli spostamenti d'aria interni al suo cervello era obbligatorio. “Sii gentile con il signor Stilman, mi raccomando, Davis” era stato il congedo dei suoi genitori, a Capitol City, prima di regalarlo al distretto 3 e a quell'esperienza. E lui doveva essere obbediente. Aveva già mostrato in svariate occasioni di essere un ribelle, un pericoloso cittadino da eliminare. Perciò, sotto quei minuscoli punti di vista, sotto quei granelli di sabbia che erano i gesti più infimi, doveva essere corretto. Annuì con vigore, forse fin troppo, mentre il signor Stilman (il quale gli aveva consigliato di chiamarlo “padrone” o “signore”, probabilmente per un altro infausto desiderio) gli accennava di seguirlo.

Le scale cigolavano sotto il lieve peso del ragazzo. Il signor Stilman abitava in quella casa dalla diciannovesima edizione, e qualcosa di straordinariamente lugubre faceva pensare che da quell'era nessun arnese da pulizia fosse riuscito ad accedere al suo interno. Davis, o Reed, non era divertito da quella faccenda; anzi, profondamente insospettito, impaurito, qualche strana sensazione gli si era incollata alla pelle come un gelido sudore, una sorta di asfissiante paura.

“Se hai paura, non dirlo, non sarà importante per nessuno.” Il signor Stilman gli aveva spiegato anche questa regola, che aveva iniziato quella profonda colata di terrore. Cosa significava? Perché mai avrebbe dovuto aver paura? Forse, per la sua età. Sette anni non rendevano una persona così matura, e Davis tentava di rassicurarsi con questo breve sussurro. Ma la casa lo circondava come uno spirito, lo spirito che gridava le intenzioni del signor Stilman, le cuciva sulla sua pelle. Però Davis non riusciva a comprenderle.

Seguendo l'enorme ombra dell'uomo, Davis fu condotto all'interno di un'enorme stanza dal soffitto distante da terra come le stelle, secondo lui. Però, la bellezza non era la medesima. Il soffitto era screziato da irregolari linee rosse, rade e scostanti, circondate da puntini rossi. Sembravano schizzi di vernice. A Davis non era mai piaciuto dipingere, ma trovò comunque improbabile che quella casa potesse essere un atelier da dove provenissero le più fine opere da esporre nelle gallerie di Capitol City. Ma... cosa significava, tutto questo? Il signor Stilman continuava la sua marcia verso un armadio dalle dimensioni infime, rattrappito sulla sua stessa figura. Cosa poteva contenere? Degli abiti nuovi, più adatti al clima del distretto 3? Eppure, quelli da lui indossati sembravano piuttosto umili, nonostante fossero provenienti da Capitol City, e quelli della sua valigia erano contrassegnati dalla stessa caratteristica. Non era così, evidentemente. L'uomo spalancò le due ante, rivelando un profondo vuoto oscuro, popolato da chissà quali creature del buio. Davis (Reed, ormai il suo nome era Reed) avanzò fino al legno apparentemente marcio del mobile, e continuò a studiarlo con il suo sguardo. Azzardarsi a toccarlo con una mano sarebbe parso fin troppo coraggioso. Come l'intera abitazione, quell'armadio ispirava una sola sensazione al bambino: paura. E continuava a scivolare sul suo corpo, aggrovigliandosi attorno al collo. Non scompariva.

«Bene, Reed. Entra qui dentro.» Le parole del signor Stilman furono accompagnate da un gesto, un ordine con la mano, brusca, rivelatrice, furiosa. Davis si concentrò su quel movimento del braccio, e lo amplificò nel suo cuore fino a trovarlo terrificante. Cercò conforto nell'incrociare gli occhi dell'uomo, ma rivelò solamente una rabbia ingiustificata, contenuta, folle. Luccicavano d'oscurità. Cosa sarebbe accaduto se avesse gridato il suo timore? S'immerse nel buio dell'armadio, ed attese per il suo labile futuro.

Le ante lo condannarono a restare lì dentro.

Fu un secondo. Rivolgeva ancora le spalle al mondo esterno, nel momento in cui gli avrebbe potuto donare un'ultima occhiata. Adesso, era avvolto solo da una silenziosa oscurità, il nulla, il terrore. Gridò, come se fosse utile. Fu una reazione incontrollata, proveniente da sensazioni che scoppiavano al di sotto della sua pelle, e lo trovò naturale, inquietante, vano. Allungò un braccio verso l'anta, cercando una labile speranza nello spingerla, convincendosi di trovare dietro ad essa il mondo; la lugubre casa, il soffitto screziato, tutti dettagli più confortanti di quell'armadio. Notò che il braccio tremava, e constatò che era la paura. Questa si rafforzò quando si accorse che non era possibile aprire il mobile. Qualcosa di caldo, sincero, disperato cominciò a sgorgargli dagli occhi. Lacrime.«Non lasciatemi qui! Non lasciatemi qui!» pregava l'aria. Ma quale alternative c'erano?

D'improvviso, il suo braccio fu interrotto nel suo atto di forzare la porta da un flebile dolore. Davis ritrasse subito il suo arto, tentando di conservare la sua salute, ma presto il male si manifestò in quasi tutto il suo corpo. Gli divorava le braccia, le gambe, il volto. Ma aveva sempre un volto, o un ricordo di esso, rigato ancora dal pianto, deformato dalle urla, violato da quelle minuscole ferite? Impiegò del tempo, prima di comprendere che erano pizzichi di ragni, o di qualunque altro insetto che ne fosse capace. Ma non riusciva a comprendere. Tutto al suo interno strillava, si ribellava, non aveva calma. Presto, iniziò a non distinguere neanche la sua situazione. Era circondato dal buio; ed il buio non significava nulla. I confini sarebbero potuto essere a metri di distanza, o avrebbero potuto accarezzargli i gomiti. Lo spazio era così indefinito, sconosciuto; la sua mente assorbiva quel terrore. Tentò ancora di brancolare con una mano, trovando i limiti dell'armadio, la sensazione del ruvido e polveroso legno sul suo palmo.

Come mai? Dove sono? Quando ne uscirò? Come mi chiamo? Tutto questo vorticava all'interno della sua insicura mente, nel momento in cui ricordi prendevano forma. Le mani di suo padre a contenere le sue prima della partenza per la stazione, velate come il volto da una cupa soddisfazione, un sollievo. Lui stesso che tentava di aiutare un Senza-voce ad annaffiare il giardino, e la furiosa reazione della madre, il polso costretto alla sua morsa, le cure riservate al suo corpo, inutili e detestate, le costose tinte di capelli che i genitori gli volevano far adottare, quando persone non avevano neanche i soldi per pranzare... Perché non potremmo dare del denaro anche a loro, al posto di comprarmi nuovi vestiti? Aveva manifestato questa domanda dinnanzi ai suoi genitori, e quelli si erano scambiati un'occhiata meravigliata, stupita, persa nell'incomprensione. Gli avevano domandato cosa non andasse nel loro bambino, cosa ci fosse di errato nella loro educazione, come mai si lanciava in pensieri così blasfemi. Ma Davis non era riuscito ad interpretare il loro egoismo.

Aveva sempre odiato gli armadi. Se ne accorse quando pensò con più attenzione a quegli enormi scrigni di vestiti, contenitori della più futile ricchezza, intarsiati e privi di uno spirito. La loro vera natura si manifestava in quel mobile in cui si trovava in quel disperato momento: nonostante si mostrassero come il più vivo splendore, quegli armadi erano vuoti, orribili, senza alcun sentimento. E avevano trasmesso il loro modo di essere anche ai loro possessori. Davis non voleva divenire come essi; se ne era reso conto dopo aver visto la povertà del distretto 11, dopo aver incrociato gli occhi dei braccianti devastati dai desideri, i loro stomaci privi di cibo, il sudore come loro unica acqua. Si sentiva destinato a compiere qualcosa verso chi era bisognoso. Verso chi non aveva neanche la base della vita, mentre gli altri si abbuffavano fino a sopprimere il suo vero significato.

Il buio persisteva. Le lacrime si erano seccate sul suo volto, le grida si erano solidificate nella sua gola. Era inutile. Era condannato perché diverso, perché non capiva, o perché non erano compreso. Da che parte si trovava la futilità? Come mai non poteva avere un'opinione, alleviare l'esperienza di una persona che dedicava la sua intera esistenza ad un piatto di un cibo qualsiasi, forse neanche per lui stesso? Davis, ormai, riusciva a sentire il sussurro degli insetti, il loro camminare sulle pareti dell'armadio. Continuavano a cibarsi di lui, come i capitolini avevano tentato prima. Che facessero pure. Dopo qualche ora che il buio era la sua unica visione, si adeguò a sapere che non sarebbe più vissuto. Doveva accadere, in un modo o in un altro. Il pianto gli congestionava ancora il volto, forse le sue ultime lacrime. Cominciò a provare fame, poi sonno. Si lasciò calare nei sogni, ma la sua mente non riuscì ad emettere che incubi.

***

La luce tornò, ere dopo. Davis era ancora immerso nei sogni, e fu recuperato da una voce femminile, roca, anch'essa devastata:«Reed?»

Scosso dal trauma del risveglio, il bambino si accorse di poter vedere all'esterno dell'armadio e riuscì a trovare un briciolo di speranza. Allora, non lo volevano uccidere! Avrebbe ancora potuto fare qualcosa per i lavoratori dei distretti, aiutarli, risollevare la loro vita...

«Non sono morto» non evitò di sussurrare, constatando di avere solo una flebile esalazione di fiato come voce. Quanto tempo era stato in silenzio? Trovò la figura di una ragazza, o forse ancora una bambina, con un paio di anni più di lui, e aspettò per la sua conferma:«Quasi sarebbe meglio per te se lo fossi.»

La interrogò con lo sguardo, sentendo il ritorno delle fitte.«Sono Connor» si presentò lei, porgendogli una mano più per trascinarlo al di fuori dell'armadio che per conoscenza. Così, Davis risorse come Reed. E non sarebbe stato altro per il resto della vita.

«Quanto tempo sono stato dentro l'armadio?» domandò, quando poté squadrare lo sguardo della ragazza. Lei, con un atteggiamento quasi funebre, posando gli occhi, replicò:«Un giorno e mezzo.»

Non riusciva a comprendere. Come mai sarebbe dovuto sopravvivere per un giorno e mezzo in un armadio? Sentiva la fame, la sete, ma non si azzardava a domandare un tozzo di pane o un bicchiere d'acqua. Sarebbe stato troppo audace, in quel clima. Cercò nella figura di Connor nuove risposte, e mosse una seconda domanda:«Come mai il soffitto è macchiato di rosso?»

Forse non era la giusta questione. Gli occhi della ragazza si posarono sul terreno, e la sua voce spiegò tutto con un sussurro. Ed allora notò le ferite che minavano il volto di Connor, le braccia, ogni sua membra scoperta.«Ivan» iniziò, e Reed non poté che meravigliarsi della confidenza che utilizzava verso la figura sovrastante del padrone,«costruisce macchine per Capitol City. Macchine di tortura. Non utilizza Senza-voce per provarle perché gli piace sentire le urla delle sue vittime. Perciò i nostri genitori ci offrono, perché... siamo contrari di Capitol City. Credo che anche tu venga da lì. Giusto?» Lo sguardo della bambina vorticò fino al suo, ma non rispose. Si sentiva... vacillare. Macchine di tortura. Il suo destino sarebbe stato segnato da esse? Essere una cavia per la cattiveria dei capitolini, la prima vittima della soppressione? No. Non voleva che fosse così.

Il soffitto era screziato di rosso. Connor non aveva spiegato il motivo, però la risposta era lì, nel suo sussurro spezzato.

Quel rosso era una pozza di sangue seccato nell'aria, che avrebbe bevuto anche il suo.

 

Spazio autrice

Sì, questa one shot è una cosa veramente crudele e, scrivendola, ho sentito il cuore spezzarsi nel mio torace. È terrificante ciò che Reed (o Davis) ha dovuto trascorrere, a soli sette anni, e tutte le torture attraversate per gli otto anni successivi. Terrificante.

Meglio tralasciare i sentimentalismi, e dirigersi subito al punto: la one shot è la terza dedicata ai personaggi della fan fiction interattiva “500”, parte di una serie dove verranno ritratti i ventiquattro tributi in momenti della loro vita antecedenti i giochi, chiamata “500 - Behind the scenes”. Qui si parla di Reed Fox, nato come Davis Griandmond (mi sa di aver sbagliato il grafema), tributo del distretto 3. E... credo di non dover aggiungere nulla.

Ringrazio chi ha letto la storia ed anche quelle precedenti, e, con pazienza quasi eccessiva, continuerà a seguire questa serie. Spero di pubblicare con velocità.

Detto ciò, un saluto,

Bolide

  
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