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Autore: MAMMAESME    01/07/2015    0 recensioni
Damon senza Elena. Stanco di esistere e di resistere, la cerca nei sogni per scacciare gl'incubi.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bonnie Bennett, Damon Salvatore, Elena Gilbert | Coppie: Damon/Elena
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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SENZA DI LEI ...


Seguii la cancellata che circondava il cimitero e la saltai nel punto più vicino alla cappella funeraria della mia famiglia, il luogo dove avevamo lasciato Elena a "riposare". Un incantesimo ne impediva l’entrata a chiunque, ma non a me. Avevo chiesto questo  favore a Bonnie … me lo doveva: in fondo non l’avevo ancora uccisa.

Appoggiai le mani alla porta sigillata e la spinsi delicatamente: la serratura cedette docile alla pressione dei miei palmi.

Un intenso odore di polvere e stantio impregnava l’aria.

Non ero mai stato lì prima di quella sera: saperla chiusa in una bara era un dolore troppo forte.

La visione della cassa di legno lucido fece perdere parecchi colpi al mio cuore.

Passai le mani sul cofano coperto di polvere e andai a cercare la fessura che lo separava dalla bara, per infilarci le dita e sollevarlo.

Quella notte avevo davvero bisogno di lei, di illudermi di averla vicino, di sentirla accanto a me.

Ogni sera, rientrando a casa – quando e se decidevo di rientrare – il pensiero che non l’avrei trovata mi annullava. Il suono dei miei passi echeggiava nel vuoto che lei aveva lasciato. Non accendevo nemmeno la luce: non volevo vedere la sagoma della sua assenza.

Entravo barcollando nella mia camera: il letto sempre disfatto e le lenzuola, che avevano ormai perso il suo odore, giacevano stropicciate in fondo materasso.

Disordine. Disordine ovunque.

Sul pavimento del bagno si accumulavo i miei vestiti sporchi mentre sul mio volto la barba incolta segnava il passare del tempo, che non scorreva mai abbastanza in fretta.

Spesso mi svegliavo nel cuore della notte scosso da incubi, percorso da brividi che mi attraversavano dalla pelle al midollo.

All’alba mi alzavo stanco e sfibrato, sempre solo, fradicio di sudore e rabbia.

Il dolore non passava. Il gelo non si scioglieva.

Mi mancava Elena.

I giorni passavano ed io ne tenevo il conto tracciando fregi sull’anima.

Era trascorso quasi un anno e sembravano cento ma, ne ero certo, una volta risvegliata Elena, tutto questo tempo non sarebbe stato che un ticchettio stonato, un rintocco spezzato dell’orologio della torre.

Bonnie sarebbe potuta sopravvivere sessant’anni o sessanta giorni … forse solo sessanta minuti, se avessi dato ascolto al mio desiderio folle di soffocarla nel sonno … comunque per troppo tempo.

Mi ripetevo che il giorno dopo non poteva essere peggiore di quello appena trascorso, che ogni minuto era un minuto in meno da aspettare, un minuto lasciato gocciolare nel passato verso un futuro con lei.

Un pensiero mi tormentava, fastidioso come un picchio dentro la mia testa: se il tempo dell’attesa, se pur lento, fosse infine passato, con quale velocità avremmo esaurito il nostro tempo insieme?

Un giorno o cent’anni non sarebbero stati che un respiro, un lampo di luce dopo un’eternità di buio.

Lei umana. Io umano.

Un battito e tutto sarebbe stato inghiottito nell’oblio.

Ero convinto che ne sarebbe valsa la pena, ma sapevo bene che non mi sarebbe bastato … mai.

Scacciai i tormenti e fissai lo sguardo sul suo volto addormentato.

La magia aveva lasciato i suoi tratti inalterati; solo il colore era scomparso dalle sue guance lasciando un velo di grigio sulla sua pelle.

Posai la mano sul suo cuore per cercare un segno di vita.

I battiti erano lentissimi, dilatati nel tempo, quasi inesistenti per un orecchio umano.

Non era morta, ma non era nemmeno viva.

Se non fossi stato al corrente della folle tortura a cui ci aveva sottoposti l’immagine distorta di una Malefica al maschile, sarei caduto nell’inganno e, come Romeo vedendo Giulietta nella cripta, avrei gettato nella bara il mio anello e sarei andato ad abbracciare il primo raggio di sole.

Le sue palpebre chiuse erano un muro che m’impediva di vedermi riflesso nei suoi occhi, l’unico specchio che mi rimandava un’immagine accettabile della mia anima tetra.

Allungai una mano per accarezzarle la fronte.

Avevo voglia di parlarle.

Avevo voglia di sentire la sua voce.

Avevo voglia di lei.

Afferrai la sua mano fredda e me la portai alle labbra e, illudendomi che mi potesse sentire, chiusi gli occhi e incominciai a parlarle.

Dammi ancora un attimo,
un ultimo respiro, uno sguardo.
Elena, io ti salverò,
anche se dovessi strapparmi il cuore,
e salverò il nostro amore
anche se ciò significa rinunciare a te.
Lo metterò in una bottiglia di vetro,
lo sigillerò col sangue e un tappo di sughero.
lo affiderò alla tempesta,
ai venti impetuosi della disperazione,
affiche attraversi l’oceano del tempo
e approdi sulla spiaggia di quel futuro
in cui ci ritroveremo.
Non ci sarà bonaccia …
Non si infrangerà contro gli scogli del destino ..
Tu camminerai seguendo le tracce delle mie orme cancellate dalle onde,
inciamperai in questo relitto … intatto,
ed io sarò lì
fradicio di pioggia e sale,
ad aspettare che tu rompa quel vetro,
per ricominciare a vivere.
“Elena, spero che tu ti stia riposando per bene. Sappi che sto contando le notti che mi devi e, per ogni notte di attesa, mi dovrai restituire una notte di sesso folle.

Io, per ora, sopravvivo.

Qui fuori c’è un gran casino, dentro di me c’è un gran casino, ovunque è un gran casino.

Le cose per me non sono facili. Sono perennemente arrabbiato con me stesso, con te … con Bonnie che non si decide a schiattare … scherzo.

Anche no.

Stefan tenta di essere comprensivo ma la sua pazienza mi fa stare peggio, mi fa sentire indegno. Mi parla di te nei miei momenti più duri, mi ricorda che ti risveglierai.  

Ma io vivo nel terrore che, risvegliandoti, non mi vorrai più, che mi odierai per non aver ucciso Bonnie, per essermi lasciato andare alla deriva, per non essere rimasto con te in questa bara, ad aspettare il tuo risveglio, a dirti che ti amo fino a quando le mie vene non si fossero essiccate.

Sono tutti comprensivi, ma nessuno capisce fino in fondo cosa mi ha scavato dentro la tua mancanza, il fatto di saperti qui e non poterti avere, di saperti viva ma non vitale, sveglia ed eccitata al mio fianco.”

Parlare e non ricevere risposta era frustrante.

La sua immobilità mi faceva sentire impotente, furioso e stanco … soprattutto stanco.

Stanco di combattere una battaglia persa contro la mia solitudine, contro la voglia di premere quell’immaginario bottone e spegnere ogni emozione che abrade il mio cuore come carta vetrata.

Stanco di esistere e di resistere.

Quella sera il cielo era oscurato da nubi e l’assenza di luna rendeva tutto più tetro. Non c’erano raggi argentei che filtravano tra i vetri ad illuminarle il volto, né una candela a rischiarare la cripta: solo il buio, fuori e dentro.

Avevo passato la giornata ad evitare lo sguardo indagatore di mio fratello, il giudizio patetico degli occhi di mia madre e la tentazioni omicida delle scorribande con Enzo.

La situazione era resa insostenibile dalle continue tensioni tra la polizia e gli “amici” di Lily, che dominavano la città con la loro oscura magia e la loro sete di sangue, tenuta sotto controllo solo dalla ferma determinazione di mia madre affinché la sua famiglia, quella che si era scelta, ovviamente, avesse una dimora stabile e non si trasformasse in una banda di squartatori.

Bonnie si teneva cautamente alla larga da mie eventuali perdite di controllo e aveva sviluppato un certo sesto senso, o un incantesimo ad hoc, che la avvertiva ogni qual volta  mi avvicinavo a lei.

La città era avvolta nella polvere di una noia mortale: tutto era sotto il ferreo controllo di umani e vampiri, coesi in un equilibrio tanto precario quanto necessario perché non si finisse in un bagno di sangue.

Era come vivere in uno di quei film futuristici post catastrofici, in cui l’imposizione di un ordine era la causa stessa di un'imminente rivoluzione.

 Io non mi ero schierato.

Non volevo essere parte di squadre punitive munite di manganelli di legno appuntiti, né far parte di una cerchia di assassini sanguinari che mantenevano una pace apparente per poter continuare ad illudersi di essere una schiera di esseri eletti, destinati a dominare il mondo.

Io volevo essere un vampiro, un uomo … qualsiasi cosa, forse nulla, in attesa di riavere il mio futuro, la mia donna, la mia vita, che giacevano nella bara di fronte a me.

Incapace di resistere oltre, appoggiai le mie labbra sulla sua fronte fredda.

Sperai in una sua reazione, ma lei non ero Aurora ed io non ero il principe Filippo.

Il mio volto scivolò più in basso e le nostre guance si sfiorarono, accendendo in me il bisogno di avere di più.

A detti stretti maledii il destino e la mia debolezza, poi spensi la coscienza per non farmi seppellire dalla follia che stavo per compiere.

Nel silenzio della notte, le assi della bara scricchiolarono mentre m’infilavo in quello spazio angusto e mi sdraiavo accanto a lei.

Al suo fianco: quello era il mio posto.

Incrociai le mie dita alle sue e chiusi gli occhi, la mia fronte incollata alla sua tempia.

Aspettai il battito del suo cuore e cercai di entrare nella sua mente: se stava dormendo, forse sognava.

Buio.

Avrei sognato io per lei.

E questa volta non sarebbe stata una strada, non sarebbe stato un ballo, una resa, un addio.

Questa volta no.

Un altro battito: il leggero scorrere del sangue nelle sue vene mi diede la scossa e l’aroma del suo sangue umano solleticò le mie narici.

Lasciai la sua mano e immersi le mie dita tra i suoi capelli, per stringere la sua testa ancora più vicina alla mia, quasi a voler entrare fisicamente nel suo cervello.

Ero indeciso se rivivere un ricordo o immaginare un futuro, riprovare antiche emozioni o cercarne di nuove.

Lasciai scorrere i pensieri sulla sua pelle e mi ritrovai in camera mia, in un momento senza tempo, in un giorno senza data.

Mi guardai attorno e percepii qualcosa di diverso.

Certo quella non era la camera che avevo lasciato venendo alla cripta, non era la stessa che avevo condiviso con Elena per qualche notte, eppure era la mia camera.

Cercai i piccoli particolari che le la rendevano diversa, come nel gioco “trova le differenze”: le tende non erano le mie tende, le lenzuola non erano le mie lenzuola rosse e le candele profumate che riscaldavano l’aria non le avevo accese io.

C’erano ordine e calore, profumi e colori diversi, avvolgenti … un tocco femminile ben integrato nell’inalterato gusto maschile che permea la stanza.

Era una camera condivisa, era un locale in cui due persone trascorrevano insieme parte del tempo della loro vita.

Riconobbi il tocco di Elena nelle lenzuola blu, negli asciugamani azzurri impilati sulla cassettiera in attesa di essere riposti in bagno, nella luce tremolante delle candele al sandalo che bruciavano lente.

Lei era lì. Era stata lì, non c’erano dubbi. Quella era la “nostra” camera … nostra e di nessun altro.

Una voce echeggiò nella mia testa:

“Ero un po’ stanca del rosso …”

Elena.

“Elena? …”

Silenzio.

Mi guardai intorno ma non riuscii a vederla.

Mi diressi verso il bagno sperando di trovarla immersa in una vasca piena di schiuma … nulla.

L’immagine stava svanendo, come le mie speranze di rivederla, ma al suono di un altro palpito del suo cuore, la stanza riprese i suoi contorni.

“Damon … ti piacciono e tende? Il velluto di prima era troppo pesante e ho pensato che …”
“Elena!”

Era lì. Lei era lì … e dopo un anno mi viene a parlare delle tende?

  
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