Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel
Ricorda la storia  |      
Autore: _Princess_    16/01/2009    16 recensioni
Non dovevo farmi illusioni su di lui: era troppo bello ed elegante per me, e percepivo tanta amarezza in lui. Non gli serviva altra disperazione, non gli serviva una seccatura come me tra i piedi. Non mi avrebbe nemmeno considerata, probabilmente.
Fu questo a farmi spingere più vicina a lui, sempre di più, fino a che non gli fui quasi accanto.
Credevo che l’ultima cosa di cui avesse bisogno uno come lui fosse una come me, abbandonata ed evitata da tutti, una reietta destinata a morire di freddo e di fame nell’angolo di un vicolo buio.
Eppure, quando si voltò e mi vide, il ragazzo dagli occhi tristi mi sorrise.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Georg Listing, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Note: Ebbene sì, stavolta le note le metto prima, perché è una storia un po’ anomala, rispetto alla mia media, e non so quanto potrà piacervi, visto che non è una oneshot romantica o tragica o che altro. È una oneshot un po’ speciale, che ho iniziato a scrivere dopo un’ispirazione improvvisa venutami oggi, al lavoro. Mi auguro che, nella sua semplicità, possa risultarvi apprezzabile. Come ormai ben sapete, un commento, anche piccino, è sempre il benvenuto. ^^

 

-------------------------------------------------------------

 

La prima volta che lo incontrai, lui era fermo di fronte ad un semaforo rosso, a pochi passi da me, senza vedermi, perché il suo sguardo era fisso a terra, perso in pensieri insondabili.

Sapevo di essere insignificante ai suoi occhi, come lo ero a quelli di chiunque altro. Ormai ero abituata ad essere ignorata dalla gente che mi passava accanto: ero una creatura di strada, non meritavo più considerazione di quanta ne meritasse un mozzicone gettato sul marciapiede, o un cestino dei rifiuti. Non valevo niente, nemmeno un’occhiata sfuggente.

Lui, però, mi sembrava diverso.

Aveva un corpo solido, robusto, forte, coperto da un giubbotto che aveva un aspetto caldo e confortevole. Ero piccola, ma avevo imparato a riconoscere le persone ricche e quelle povere, e lui era uno di quelli ricchi.

Ma non sembrava felice di esserlo. Anzi, non sembrava felice, e basta.

I suoi occhi erano grigi, o forse di un verde cupo, come il cielo di quel giorno, ed erano infinitamente tristi.

Provai una strana sensazione nel guardarlo, una fiducia istintiva che non sapevo spiegarmi. Per mia natura, diffidavo dalle persone, soprattutto dagli uomini, ma quel ragazzo dall’aria infelice mi sembrava stranamente innocuo, pur imponente come appariva, a me che ero così piccola.

Mossa da non so che intenzioni, mi avvicinai a lui con timida cautela. Volevo osservarlo meglio, studiarlo meglio, e speravo che lui non si accorgesse di me, perché non volevo che vedesse quanto ero magra e sporca, non volevo che anche sul suo viso giovane apparisse quel disgusto che avevo visto in tutti gli altri. Non sapevo perché stessi andando da lui, ma mi sembrava una cosa logica, sensata, giusta. Non mi ero mai avvicinata spontaneamente ad uno sconosciuto, prima di lui.

Era autunno e faceva freddo, l’aria gelida della sera iniziava a discendere nelle strade accompagnata dall’intenso buio che mi aveva sempre fatto paura, e tutto ciò che io desideravo in quel momento era qualcosa da mangiare, una carezza amica, una casa calda come quella che vedevo sempre nei miei sogni. Ero sola al mondo. Non avevo mai conosciuto mio padre, e mia madre era morta da poco, senza lasciarmi altro che un buco squallido in cui dormire.

Ero disperata, e sentivo che anche il ragazzo triste lo era.

Il vento gli soffiava i capelli sul viso pallido, ma lui non se ne curava. Teneva le mani in tasca e fissava il nulla, chiuso in se stesso, nella sua solitudine.

Non dovevo farmi illusioni su di lui: era troppo bello ed elegante per me, e percepivo tanta amarezza in lui. Non gli serviva altra disperazione, non gli serviva una seccatura come me tra i piedi. Non mi avrebbe nemmeno considerata, probabilmente.

Fu questo a farmi spingere più vicina a lui, sempre di più, fino a che non gli fui quasi accanto.

Credevo che l’ultima cosa di cui avesse bisogno uno come lui fosse una come me, abbandonata ed evitata da tutti, una reietta destinata a morire di freddo e di fame nell’angolo di un vicolo buio.

Eppure, quando si voltò e mi vide, il ragazzo dagli occhi tristi mi sorrise.

“Ciao, piccolina,” mi disse. Aveva una voce tiepida e profonda, da adulto, che mi suonò piacevolmente rassicurante. “Cosa ci fai qui tutta sola? Dov’è la tua mamma?”

Capivo la sua lingua, la avevo imparata ascoltando la gente per le strade, giorno dopo giorno, ma il suo tono dolce mi era nuovo. Nel mio vagabondare, non avevo mai sentito nessuno parlare così.

Aprii la bocca per rispondergli, ma non ne uscì che un suono roco ed indefinito. Avevo perso la voce dopo aver pianto e chiesto aiuto per giorni, senza essere ascoltata. A nessuno importava di un’orfana senza nome.

Provai di nuovo a rispondere al ragazzo triste, ma ero completamente muta, e forse lui avrebbe pensato che io avessi qualche malattia, che era poco consigliabile toccarmi. Nonostante questo, però, si chinò ed allungò piano una mano verso di me, ma io mi ritrassi, spaventata. Non ero abituata ad avere a che fare con le persone.

“Non avere paura,” mi rassicurò con un altro sorriso. “Voglio aiutarti.”

Da vicino, il suo viso mi sembrava ancora più bello, i suoi occhi ancora più malinconici.

Tentennante, tornai verso di lui e mi lasciai prendere in braccio. Come avevo immaginato, le sue mani erano calde e forti, ma delicate. Mi tenne tra le sue braccia, accarezzandomi la testa. Aveva un tocco gentile, un profumo gentile.

Era buono, ormai ne ero sicura.

“Hai fame, vero?” mi chiese, guardandomi negli occhi. Anche se non avevo voce, la mia magrezza rispose per me.

Mi resi conto di stare tremando solo quando lui si aprì il giubbotto per avvolgermi al suo interno. Si stava bene, lì al caldo, il caldo di un abbraccio. Era una sensazione che avevo dimenticato.

“Sta’ tranquilla,” mi sussurrò. “Non ti devi preoccupare più di niente,” mi promise. “Ora andrà tutto meglio.”

Potevo sentire il suo cuore battere sotto di me, la testa appoggiata al suo petto vigoroso che si alzava ed abbassava ad ogni suo respiro.

“Vedrai,” aggiunse, attraversando la strada per raggiungere un’auto nera che aprì, per poi entrarvi. “Sarai felice, con me.”

Felice

Era una parola che non conoscevo. Non la avevo mai sentita, prima, non avevo idea di che cosa fosse, cosa significasse.

Come sarà essere felice?, mi domandai, mentre il ragazzo triste mi adagiava delicatamente sul sedile accanto a sé e si toglieva il giubbotto per coprirmi, e poi, dopo aver fatto partire l’auto con un rumore che trovai insopportabile, lui mi disse qualcosa che mi fece capire che, qualunque cosa significasse, felice doveva essere una bella cosa:

“Andiamo a casa.”

 

***

 

Sonnecchio tranquilla sulla poltroncina, dopo aver fatto merenda con un po’ di yogurt alla vaniglia, il mio preferito. Me lo ha dato lui, perché sa che mi piace. Lui sa sempre cosa mi piace e da quel giorno, quando mi ha raccolta per strada e mi ha adottata, non mi ha mai fatto mancare nulla.

Dice sempre che mi vuole bene, mi chiama Piccola ed ora è il mio papà. È più di un anno che vivo con lui e i suoi amici, e tutti mi coccolano e mi permettono di fare ciò che voglio, anche se qualche volta ho combinato qualche guaio, ma loro dicono sempre che non riescono ad arrabbiarsi con me.

Adesso so cosa vuole dire felice, e niente mi è mai piaciuto così tanto.

Il bus oscilla tranquillo mentre sfreccia sull’autostrada e fuori il sole primaverile sta cominciando a calare. Attorno a me, i ragazzi stanno giocando rumorosamente con uno dei loro videogiochi e ridono come se fosse la cosa più divertente del mondo. Lui non c’è. È salito poco fa al piano di sopra dopo che il suo telefono ha squillato e non è ancora tornato, ma lo farà presto. Non ama stare a lungo al cellulare.

Disturbata dagli schiamazzi dei ragazzi, mi stiracchio un po’ e mi alzo, mettendomi a sedere ancora assonnata, mentre alle mie spalle sento che lui sta arrivando.

“Guarda guarda chi si è svegliato dal suo pisolino…” mi dice, prendendomi in braccio, e mi dà un bacio su una guancia. “Razza di dormigliona!”

Fa più fatica, ora, a sollevarmi, perché sono cresciuta e non sono più magra come una volta. Mi dice sempre che sono diventata proprio una bella signorina.

“Georg, piantala con le moine, o verrà su capricciosa e viziata come lo zio Bill!” lo ammonisce Tom, dalla sua poltrona.

“Ormai è rovinata, vero Piccola?” mi dice Gustav, con una carezza affettuosa. “Sei già una diva in tutto e per tutto, servita e riverita come sei.”

“Ha preso da me,” si vanta Bill, guardandomi dritta negli occhi. “È vero che hai preso da me?” Io gli rivolgo uno sguardo contento. “Certo che hai preso da me!”

Accoccolata beatamente tra le braccia di Georg, guardo all’insù e lo vedo che mi sorride, e i suoi occhi non sono più grigi e tristi come quel giorno. Ora sono di un verde brillante e, quel che più conta, sono sereni. Anche lui, adesso, è diventato felice.

“Sei l’amore di papà, vero?” mi dice, facendomi il solletico sulla pancia. “Dimmi quanto mi vuoi bene.”

E io, crogiolandomi nelle sue coccole e nella sua voce dolce, non posso far altro che stringermi forte a lui e fargli tutte le fusa di cui sono capace, facendolo ridere.

‘Grazie di tutto’, gli miagolo ogni volta, e anche se lui non capisce la mia lingua come io capisco la sua, so che sa cosa gli sto dicendo.

   
 
Leggi le 16 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel / Vai alla pagina dell'autore: _Princess_