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Autore: hanaemi_    02/07/2015    0 recensioni
"Erzsébet chinò gli occhi sul ciondolo, accarezzandolo con delicatezza con una mano, come se temesse di poterlo frantumare se avesse esercitato troppa forza."
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Prussia/Gilbert Beilschmidt, Ungheria/Elizabeta Héderváry
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Perfect moment

 

{Fandom: Axis Powers Hetalia
Personaggi: Prussia, Hungary
Pairing: PruHun
Parole: 831 (grazie a: http://www.freetiamo.altervista.org/index.php/conta-parole.html)}


“Hey, Gilbert…” sussurrò Liza, andando ad accoccolarsi sul letto accanto al prussiano, le ginocchia premute sul materasso e le mani chiuse tra loro, a celare qualcosa. Il ragazzo la guardò, con aria interrogativa.

“Was?”
“Guarda cosa ho trovato!”


E detto questo schiuse le mani, tra le quali si trovava una collanina con appesa una croce teutonica.

“Me la desti nel ’45, subito dopo la guerra…ricordi?”

Erzsébet chinò gli occhi sul ciondolo, accarezzandolo con delicatezza con una mano, come se temesse di poterlo frantumare se avesse esercitato troppa forza.

“L’ultima volta che ci vedemmo, me le mettesti tra le mani e mi dicesti di conservarla e di pregare per te, prima di andartene…” disse in un soffio, con un pizzico di malinconia a permeare le sue parole.

Il prussiano fece per carezzarle la guancia, ma l’ungherese si ritrasse: i ricordi avevano preso il sopravvento e ora, come un fiume in piena, la ragazza non poteva frenarli.

“Ricordo la paura che provavo, nel periodo a casa di Ivan. Il timore che scoprissero la croce, che la ricordassero non come simbolo della Prussia ma come mera immagine dell’ideologia nazista, tacciandomi così di traditrice e facendomi patire le peggiori torture…cercavo di nasconderla meglio che potevo, sotto i pochi vestiti che possedevo. E di notte, quelle lunghe notti in cui il tremore era più forte del solito e le lacrime più pungenti contro gli angoli degli occhi, la stringevo tra le dita e cercavo di calmarmi, di rassicurarmi, di ripetermi che tutto sarebbe andato bene, che tutto sarebbe finito, prima o poi. Pensavo a te. Pensavo a quando eravamo bambini. Pensavo a quel tempo d’innocenza che mai più mi sarebbe stato restituito. E piangevo. Piangevo, piangevo tanto, piangevo fino ad esaurire le lacrime. Piangevo fino a crollare stremata e addormentarmi per la stanchezza, insensibile ad ogni cosa. L’unica consolazione, di tanto in tanto, era Gilbird.”

Sorrise, un sorriso con una punta di amarezza intrinseca.

“Gilbird?”
“Igen. Secondo te perché voglio così bene a quel pulcino? E’ stato la mia ancora di salvezza, ha cercato di starmi vicino quanto più possibile. E quando ero sotto il controllo sovietico, anche solo per poco, sgattaiolava in casa di Ivan e mi consolava, strusciandosi contro la mia guancia. Una volta ebbe persino il pensiero di portarmi un fiore, rosa, e di infilarmelo tra i capelli, prima di fuggire via in fretta e furia perché il russo era appena rientrato.
E oltre a Gilbird c’era Germania Est, in cui rivedevo il tuo pallido riflesso. Anch’egli albino come te, medesima altezza, medesimo fisico, all’apparenza sembrava fosse il tuo gemello. L’unica cosa che differiva erano gli occhi: i tuoi sono sempre stati scarlatti, i suoi invece erano grigi, spenti, privi di qualsivoglia colore. Inerme stava sempre accoccolato contro il muro, silenzioso, e osservava. Un giorno mi sedetti accanto a lui e man mano, seppur diffidente, cominciò a mostrare un briciolo di fiducia e interesse, capì che anch’io ero nella sua medesima situazione e che dovevamo sostenerci a vicenda se volevamo uscirne vivi.
Me ne innamorai. O meglio, credo ebbi un’infatuazione per lui, forse causata dal fatto che mi ricordava tantissimo te, nonostante solo dal punto di vista fisico. Non saprei ben dire, ad essere sinceri; quel che so è che soffrii tanto, quando non lo vidi più. Quello fu il secondo abbandono che dovetti digerire, a distanza di circa quarant’anni dal primo.”


E qui si ammutolì, rigirandosi la collana tra le dita.

“Però… però poi tu sei tornato, e io ero felice ma al tempo stesso ti odiavo e avrei voluto riempirti di schiaffi, solo per farti provare un millesimo del dolore, fisico e psicologico, che ho potuto subire io.”

Risollevò le iridi smeraldine, fissandole in quelle color rubino di lui.

“Ma ti amavo e ti amo tutt'ora, ergo non potrei mai.”

Gilbert sorrise mentalmente,  adorava Liza così brutalmente sincera e capace di sfogarsi a cuore aperto con lui, come i bei vecchi tempi.


E al contempo si odiava, odiava così tanto se stesso e il fatto che ella aveva sofferto per un buono a nulla come lui. L’aveva abbandonata, incurante del fatto che fosse l’unica che lo comprendesse davvero, e l’aveva lasciata al suo destino, tutto preso da sé e dal suo fottuto egocentrismo, che lo aveva reso cieco dinanzi ai bisogni degli altri.

Ma lei aveva resistito e aveva continuato a…provare qualcosa per lui. Ad amarlo, addirittura. Come poteva? Erzsébet era una sciocca, in un certo senso. E lui si aggrappava a questa sua ‘stupidità’, perché era l’unica donna che lo conosceva a fondo e a cui avrebbe permesso di penetrare quella scorza di egocentrismo, egoismo e arroganza qual egli era. Non voleva perderla, non di nuovo.

Le baciò con dolcezza la fronte  mentre le sfilava la collanina dalle mani, e gliela mise al collo, spostandole i capelli dietro le spalle.

“Sei bellissima, Erzsébet.” le sussurrò solo, con dolcezza.

L’ungherese sorrise, arrossendo appena appena, e gli strinse le mani.
Gilbert chinò il capo a guardare le loro dita intrecciate, e un sorriso spontaneo sorse sulle sue labbra: ecco, quello lo avrebbe di sicuro annoverato tra gli ‘attimi perfetti’ da annotare sui suoi diari.

 

   
 
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