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Autore: TheAuthor    05/07/2015    3 recensioni
Dentro ognuno di noi si nascondono dei Demoni.
Questi Demoni nascono, crescono e muoiono insieme a noi.
Il Buono e il Cattivo differiscono solo di un piccolo particolare. L’uno sa riconoscere e frenare i propri istinti, riuscendo a distinguere ciò che è giusto, anche se non sempre. L’altro potrebbe anche non aver idea dell’esistenza di questi mostri che risiedono nella sua anima. Come può qualcuno difendersi da qualcosa di cui non conosce l’esistenza?
L’anima è quella sostanza che separa i Demoni dal corpo materiale.
Quando veniamo feriti più volte, l’anima tende ad assottigliarsi, e i demoni provano ad uscire. A volte ci riescono, squarciandola. Ed è quando gridano “libertà” che bisognerebbe avere paura. Ricostruire un’anima non è facile, ed ancor meno rimettervi quelle creature dentro.
L’anima di Regina si era lacerata una volta, ed ora lei stava provando a rinchiudervi di nuovo quei mostri. Ma il passato sembra tormentarla, continuando a recidere quelle cuciture che con fatica era riuscita a fare.
Un passato oscuro di cui solo lei, Gold e Leila, una figura appena apparsa in città, sono a conoscenza.
Genere: Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Henry Mills, Nuovo personaggio, Regina Mills, Signor Gold/Tremotino, Un po' tutti
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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CAPITOLO 5

Innocenza Perduta.

 

Presente

 

“Tempo fa mi parlasti di tradimento. Ne deduco che tu conoscessi Zelena già da molto tempo. Da prima che lei mi tenesse prigioniero. Lei sa chi sei.” Le parole di Gold risuonarono nella stanza. La ragazza era ancora seduta sulla sedia a dondolo. Osservava ormai la cenere del legno che il fuoco aveva consumato.

“Deduci bene, Padre.” Chiuse gli occhi e tese la testa all’indietro, rilassando i tendini del collo. Le sue narici si allargarono inalando quanta più aria i suoi polmoni riuscissero a contenere. Poco dopo drizzò la testa e gettò fuori un soffio di aria calda. Aprì gli occhi e di quell’azzurro, quasi argento, che li caratterizzava e li rendeva tanto glaciali non vi era nemmeno traccia. Un giallo più intenso di quanto non fosse un dente di leone ne aveva preso il posto, colorando l’iride. La sclera era nera e delle piccole venature rosse si intersecavano nella pupilla. Si girò piano verso l’uomo, senza sbattere le palpebre, e questi, alla vista di quegli occhi cadde in sorta di trance.

“È ora che tu veda” Disse Leila, con una voce scura e roca che non le apparteneva. Gli poggiò una mano sulla testa. Gold sentì un freddo innaturale che partiva dal punto in cui lei l’aveva toccato. Eppure le sue mani erano calde. Era come se gli avessero gettato addosso un secchio d’acqua ghiacciata. Non riusciva a muoversi da quando aveva visto quegli occhi. Il freddo si allargava da quel punto in modo sferico, come un onda, percorrendo il suo cranio fino ad arrivare al collo. Prima che Gold se ne rendesse conto aveva raggiunto anche la punta delle dita dei piedi. Con il freddo un’immagine vivida e chiara gli si allargò nella mente. Il gelo sembrava affievolirsi e una sensazione di tepore gli scaldò il volto. Non aveva il controllo sul suo corpo, se ne rese immediatamente conto. Vedeva solo un caminetto familiare davanti a sé, ma anche se desiderava vedere l’intera stanza per essere sicuro di dove si trovasse non riusciva a muovere i propri occhi distogliendo lo sguardo dallo scoppiettio delle fiamme. Osservava in silenzio. Sembrò andare avanti così per ore. Poi lentamente lo sguardo si abbassò e lui vide due piccole manine da bambina che tenevano un cavalluccio di legno intagliato in modo elegante. Quelle mani non erano sue, però appartenevano al corpo in cui lui stava. Indossava un bel vestitino rosso con dei ricami di pizzo bianchi. Lui lo riconobbe immediatamente. Era il vestitino rosso che aveva dato in dono a sua figlia quando questa compì dieci anni. Quando se ne andò via lo lasciò sul pavimento di pietra della sua stanza e lui lo tenne con sé per decenni. Conservandolo intatto con la magia. Quello stesso vestito rosso lo teneva chiuso nella cassaforte del suo negozio ed ogni sera l’apriva e  ne accarezzava la stoffa, ricordando la figlia che pensava di aver perso.

Fece alcuni passi verso il letto quando vide la stanza vorticargli intorno. Cadde silenziosamente e poi buio.

Quel momento di oscurità gli sembrò durare quanto un leggero battito di ciclia, ma era sicuro che non fosse durato così poco. Ricordava bene quando Leila sveniva per via della febbre troppo alta. Quando perdeva i sensi passavano ore prima che si risvegliasse e lui passava quelle ore sul capezzale del suo letto. E lì si vide. Seduto di fronte a lui c’era la sua stessa immagine. Ma era l’immagine del vecchio Tremotino. La pelle dorata e gli occhi dello stesso colore della pelle. I denti putridi  e i capelli unti. Doveva essere un’immagine inquietante per una bambina. Eppure lei non sembrava averne mai avuto paura. Magari perché vi era stata abituata fin dalla nascita a vedere quel mostro.

“Papà..” La voce che sussurrò quella parola era così dolce ed innocente. Gold ne ebbe nostalgia. In quel momento avrebbe voluto avere indietro la sua bambina.

“Sono qui. Papà è qui. Va tutto bene adesso.” Tremotino le accarezzò la fronte tirandole indietro i capelli.

“Papà oggi dovevamo vedere il sole.” La voce della bambina non era più un sussurro. Ma più chiara e limpida, piena di speranza.

“Piccola mia, non stai bene. Non sarebbe saggio uscire in queste condizioni.” Gold ricordava il momento in cui disse quelle parole. Il momento in cui le rinnegò per l’ennesima volta il sole. L’unica cosa che la bambina avesse mai desiderato. L’unica cosa che lui non le aveva mai dato. Il sole.

“Me l’avevi promesso.” La speranza aveva lasciato il posto alla tristezza e Gold aveva sentito un groppo salirgli in gola e le lacrime rigargli le guance. Sentiva che Leila provava a trattenersi ma non ci riuscì. Le lacrime uscirono copiose.

In quell’istante Gold capì dove lei l’aveva portato.

Era il giorno in cui lei era andata via. Il giorno in cui aveva lasciato il vestito rosso per terra. Il 2 Ottobre di

Trentasei anni prima.

 

Quando Tremotinò uscì dalla stanza, gli oggetti, i loro colori e tutto ciò di cui la bambina era circondata iniziò a confondersi, intersecarsi fino a che tutto intorno non rimase che una patina semi-gelatinosa di varie tonalità che piano piano iniziò a sbiadirsi, finché divenne bianca.

Poi quel bianco iniziò a diventare brillante, lucente, rimpicciolendosi e riducendosi in un piccolo disco circondato dall’azzurro del cielo. I piedi nudi della ragazzina accarezzavano l’erba e il vento fresco le scompigliava i capelli.

Leila era in piedi, nella foresta, lontana solo qualche metro dal castello di Tremotino. Indossava uno straccio bianco come maglietta e dei pantaloni di un marrone scuro. Li aveva fatti lei stessa. Detestava i vestitini ma non aveva il coraggio di dirlo al padre. O almeno Gold intuì che se li fosse cuciti da sola. Non erano di certo suoi, erano troppo piccoli, fatti su misura per lei.

La bambina si sdraiò, annusando il profumo pungente del terriccio e dell’erba, godendosi il calore del sole sul viso.

Passò un ora, poi due. Poi Gold perse il conto, perché per quanto fosse concentrato a capire il perché Leila lo avesse portato così indietro, steso su quell’erba finì per rilassarsi. Forse era quello che avrebbe dovuto fare fin dall’inizio. Rilassarsi ed osservare. Magari la soluzione era più ovvia di quanto lui non pensasse.

La ragazzina si alzò e si avviò verso il castello, calpestando le foglie secche che si erano posate sul pavimento. Aveva iniziato a fare buio e con la notte arrivava anche il freddo. Ormai non era più estate, anche se faceva insolitamente caldo per quel periodo.

Qualcosa però non tornava. Lei stava andando verso il castello, non stava scappando. Eppure lui ricordava che quel giorno non l’aveva ritrovata nelle sue stanze.

D’un tratto la bambina si fermò. In lontananza si sentivano delle voci. Degli uomini ridevano in modo sguaiato e cantavano ad alta voce. Probabilmente ubriachi.

Leila girava la testa tendendo le orecchie, cercando di capire da dove venissero. Destra? No, no. Era da Sinistra. O forse dietro? Sì, dietro.

Si voltò di scatto e li vide. Quattro uomini. Uno era grasso e tozzo. Un altro era alto, magrolino e con la barba incolta e unticcia, con gli occhi piccoli e il naso adunco. Il terzo al contrario, sembrava una montagna, ma aveva lo sguardo perso, da tonto e si trascinava appresso le braccia che erano spropositatamente lunghe. L’ultimo, forse il più inquietante dei quattro era un ragazzo abbastanza giovane. Era di statura media e aveva il torace villoso che si intravedeva nella camicia sudicia che portava. I pantaloni erano strappati e lasciavano intravedere le ginocchia. Sarebbe stato di bell’aspetto se solo si fosse curato. I capelli erano lunghi e gli coprivano gli occhi e ricadevano sulle spalle. I denti giallognoli, alcuni neri. E il viso era coperto di terra e fango.

“Guarda guarda.” Fece il più basso dei tre. “Sembra che il buon Dio sia dalla nostra parte, vero signori?” A queste parole seguì una risata strozzata.

Leila indietreggiò e scattò all’indietro per fuggire ma appena si girò sbatté contro un altro uomo. Alto. Forse più di quello che somigliava ad una montagna.

Le prese i polsi e la sollevò per le braccia. Gold sentì un dolore acuto sotto le ascelle quando l’uomo strattonò la bambina sollevandola da terra e la gettò ai suoi quattro amici. Il Secco si avvicinò a lei, scoprendo la dentatura aguzza. Molti piccoli solchi gli si formarono sulle guance scarne. La tirò a sé per i piedi.

“Tranquilla ragazzina, non ti faremo niente.” Disse ansimando mentre la trascinava dal Tozzo. Fu lui che le poggiò un piede sul volto per girarglielo e vederne il profilo.

“Cosa ne facciamo di questa graziosa fanciulla, Jon?” Chiese il Tozzo.

“Sì Jon, cosa ne facciamo?” Ripeté a pappagallo il Secco.

Gold sentiva il cuore della bambina battergli all’impazzata in petto. E il fiato era corto. Cercava di dimenarsi ma la Montagna più grossa le schiacciava entrambe le braccia con le ginocchia. Impedendole di muoverle. E quando aveva provato a scalciare le avevano dato un colpo sulla tibia della gamba destra con un ramo.

“Credo che oggi tocchi ad Al il primo assaggio, amici.” Quello che aveva parlato era l’uomo dai lunghi capelli. Lui doveva essere Jon. Volse il capo verso la Montagna più piccola e gli rivolse un sorriso marcio.

“Ma quando toccherà a me Jon? Sono già quattro volte che ne troviamo una questa settimana e io sono sempre stato l’ultimo.” Quando il Tozzo si lamentò Jon gli assestò uno schiaffo sulla guancia, che divenne più rosea di quanto non fosse già per via del vino.

“Cosa cazzo fai Jon? C’hai scartavetrato le palle, lo sai? Ti senti il capo ma tu non sei un cazzo di nessuno in questo gruppo.” A queste parole l’uomo dai capelli lunghi estrasse un coltello e gli piantò l’intera lama nel braccio. Jon girò il coltello e poi lo estrasse, facendo urlare l’uomo. Il sangue schizzò sul volto della bambina. Era veloce. Molto veloce. Forse il più pericoloso dei Cinque.

“Se ti rivolgi di nuovo a me così giuro che te lo taglio Knut. Lo giuro su quanto è vero Iddio. Così non potrai essere più neanche l’ultimo.” Puntò il coltello tra le gambe del Tozzo, toccandogli con la punta insanguinata il cavallo dei pantaloni grigi.

“Ti chiedo scusa Jon.” Il Tozzo tremava. Leila poteva vedergli il doppio mento che sballonzolava e il labbro inferiore era coperto di saliva che cadeva e schizzava da una parte all’altra a seconda del tremolio.

“Qualcun altro ha qualcosa da dire?” Chiese Jon. Tutti tacquero. Gold fremeva di rabbia, ma come Leila non poteva muoversi anche lui era bloccato. Si chiedeva perché lei non stesse neanche urlando ma sentiva la paura. Una paura che l’aveva paralizzata. Non cercava neanche più di muoversi.

“Bene.” Ripose il coltello nella fodera e se lo agganciò di nuovo alla corda che fungeva da cintura.

“Allora oggi tocca prima ad Al, poi vai tu Connor.” Il Secco mostrò di nuovo i denti in segno di contentezza.

“Poi vado io. E per ultimo tocca a Tam.” La montagna più grossa grugnì nell’udire il suo nome. Poi Jon si girò verso il Tozzo. “Credo che Knut debba rimettersi, ha una brutta ferita al braccio. Oggi è meglio che si riposi.” Poi guardò Leila.  “Sei fortunata ragazzina. Non ti piacerebbe avere il suo grasso sudaticcio su di te.” Rise, mentre Al, la montagna più piccola, si abbassò i pantaloni. Fu allora che Leila trovò la forza di gridare e riprese a dimenarsi. Ma Tam le tappò la bocca con la mano. “Di norma vi lasciamo urlare, è più divertente. Ma qui vicino c’è il castello del Signore Oscuro e non vorremmo di certo disturbarlo.” Jon si spiegò velocemente e poi aggiunse: “Tranquilla. Fa solo un male cane.”

D’un tratto i colori iniziarono a vorticare come prima, ma stavolta la patina che circondò Gold non era bianca, bensì nera.

Non riusciva più neanche a pensare. Quei volti lo ossessionavano.

Poi una nuova immagine gli si presentò davanti. Si trovava dentro una piccola cassa di legno. Il ventre le faceva male. Molto male. I pantaloni marroni erano coperti di sangue.

Gold era disgustato, non riusciva a capacitarsi di quello che le era stato fatto. Avrebbe vomitato se fosse stato nel suo corpo.

La bambina stringeva il piccolo cavallo di legno tra le mani. Mentre i quattro uomini trascinavano la sua gabbia. Arrivarono presto in un campo. Vi era una gabbia simile ma molto più grande, al cui interno vi erano dei bambini. Accanto ce n’era un’altra identica, ma dentro si trovavano solo delle ragazze. Tutti avevano il volto spento e gli occhi vitrei.

Quella notte iniziò a fare freddo. Quando arrivarono aprirono la gabbia e Al, la montagna più piccola, la prese in braccio. Leila non riusciva a camminare, le bambe le tremavano, sembravano fuscelli sottili, non riuscivano a sopportare il suo stesso peso.

La portò dentro la gabbia più grande, dagli altri bambini che le rivolsero quasi subito lo sguardo.

La gettò a terra e lei provò a trascinarsi verso una delle sbarre di legno, per poter appoggiare la schiena. Si ritrovò vicino ad un ragazzino dai capelli scuri che stava torturando il bordo della sua tunica. Aveva gli occhi color nocciola e non sembrava voler parlare.

“Tu sei un maschio.” Leila cercò disperatamente di uscire dalla propria pazzia aggrappandosi a qualcuno, e sperava veramente che quel ragazzino le desse retta. Sperava addirittura che le rispondesse male, così almeno non si sarebbe sentita sola. Ma quel bambino scosse leggermente le braccia e continuò a torturare il bordo della tunica.

“Quanti anni hai?” Tentò di nuovo lei. Il bambino, però, fece finta di non aver sentito e seguì facendo ciò che, Leila intuì, stava facendo da ore.

“Non parla.” Un altro ragazzo, un po’ più grande di quello vicino a lei, le aveva parlato. Questo aveva i capelli biondi e indossava una maglia di lana pesante.

“Gli hanno tagliato la lingua poco dopo aver.. be’ lo sai.” Le si sedette accanto. “E non dovresti essere sorpresa che ci siano anche maschi qui. La gente paga di più per degli schiavi maschi. E gli schiavi non vengono usati solo per fare le faccende di casa. Ci sono molti padroni che ne approfittano.”

Leila avrebbe voluto scappare via, tornare dal padre e far finta che tutto quello non fosse mai accaduto. Scavava con le unghie nel legno del piccolo cavalluccio.

“Si chiama Khal.” Indicò il bambino senza  lingua.  “E io sono Abe. Lui era il mio migliore amico. Be’ lo è ancora, solo che adesso non abbiamo molto di che parlare.” Ironizzò sulla faccenda, ma i suoi occhi erano tristi.

“Ci hanno preso insieme. Prima è toccato a lui. Mi hanno costretto a guardare. Urlava così tanto che alla fine quel pazzo di Jon gli ha tagliato la lingua. Poi hanno preso me. Khal piangeva. Non riuscivo a vederlo, ma lo sentivo. Non potevo fare nulla. Non potevo riattacargli la lingua. E non potevo ridargli quello che aveva perso. Dio santo, aveva solo otto anni. Questa è stata la cosa che ha fatto più male di quel giorno. Sentirmi impotente.”

Si fermò un attimo per prendere fiato e la guardò.

“Tu come ti chiami?” Chiese, osservando il piccolo cavallo di legno che la bambina teneva in mano.

“Leila.” Rispose subito lei. In quel momento Khal mosse le mani verso Abe.

“Ha detto che hai un nome molto bello.” Il ragazzino biondo tradusse immediatamente i suoi movimenti. Poi rivolse di nuovo lo sguardo verso il cavallo di legno.

“Chi te l’ha dato?” Chiese il ragazzino, curioso di sapere qualcosa in più della ragazza.

Leila gli porse il cavalluccio e  lui lo prese per vederne la fattura.

“Me l’ha regalato mio padre. Diceva che a mia madre piaceva molto cavalcare.” Gli spiegò lei.

Il ragazzino accarezzò il muso di legno dell’animale.

“È fatto molto bene. Mio padre era un fabbro però intagliava anche il legno.” Disse. Come per coinvolgerla un po’ nella sua vita. Sapeva com’era sentirsi soli e subire quello che aveva subito lei. Voleva solo che si sentisse voluta bene in un posto in cui avrebbe conosciuto solo sofferenza. La bambina fece una smorfia di dolore e si toccò il ventre.

“Fa tanto male, vero?” Chiese con delicatezza. Leila annuì. Aveva gli occhi chiusi e la bocca serrata. Gold sentiva il suo dolore e la sua vergogna.

Non voleva più vedere, non sopportava quelle sensazioni. Non voleva sapere, era troppo, anche per lui.

Cercava di tornare indietro. A Storybrooke. Ci provava. Con tutte le sue forze, ma era inutile.

Non voleva quei ricordi.

 

Presente

 

La Sala d’attesa era silenziosa. Fin troppo silenziosa. Si sentivano i respiri pesanti delle altre persone che attendevano notizie dei propri cari. Si sentivano i loro singhiozzi. Il loro strofinare dei fazzoletti contro il naso. Il loro mangiarsi le unghie. Henry lo trovava insopportabile. Stava masticando una gomma da più di un’ora. Da quando lei era entrata in sala operatoria.

Muoveva la gamba in modo compulsivo e rifiutava qualunque tentativo dei nonni di consolarlo e tranquillizzarlo.

Ci sarebbero volute altre due ore, forse di più. Non sapeva se sarebbe riuscito a resistere altri due minuti li dentro, figuriamoci due ore.

La gente che si grattava. I medici che tornavano e informavano una famiglia della riuscita di un intervento. La gioia di queste persone. E poi i medici che invece ne informavano un’altra dell’esito negativo. Le loro lacrime.

Gli sembrava di impazzire lì dentro. Tra la felicità e i dolori degli altri. Avrebbe voluto sapere come stava andando. Avrebbe voluto stringere la mano di sua madre durante l’intervento.

Nessuno si era presentato da loro. Nessuno gli aveva detto se l’intervento stava procedendo bene o se c’erano state delle complicazioni.

Quel silenzio era assordante.

“Io esco.” Disse, scattando in piedi e andando verso la porta senza neanche rivolgere lo sguardo agli altri che erano lì con lui.

Uscì e si sedette sulla panchina appena fuori dall’ospedale. Respirò profondamente inalando tutta l’aria che poté dal naso. Mentre la gettava fuori iniziò a piangere. I singhiozzi lo  scuotevano violentemente quando sentì due mani calde appoggiarsi sulle sue spalle. Poi qualcuno lo abbracciò da dietro.

Vide dei capelli biondi ricadergli sul volto e capì di chi si trattava. Sì abbandonò completamente tra le braccia della madre e i due si ritrovarono accovacciati a terra.

Lei gli accarezzò piano la schiena e sussurrò: “Lo so Henry, lo so.”

Capiva benissimo ciò che il figlio stava provando. Non c’era neanche stato bisogno che lui dicesse qualcosa. Sapeva che era orgoglioso quanto Regina e che era uscito solo per nascondere ciò che provava. Non sapeva com’era perdere un genitore ma sapeva com’era sentirsi soli.

Henry si girò per guardarla negli occhi e lei gli posò due dita sul mento e avvicinò la sua fronte a quella del ragazzo. Proprio come faceva Regina.

“Ti voglio bene, Henry.” Fu allora che il ragazzo la abbracciò. Non accennava a lasciarla andare via.

“Ti prego, tu rimani. Non andartene mai.” La supplicò.

“Henry, neanche lei se n’è andata. Non ancora. Vedrai che uscirà da lì più forte e insopportabile di prima. Ti torturerà ancora per tanto tempo. Andiamo dentro adesso.” Gli strinse le spalle e lo tenne sotto braccio per evitare che sentisse freddo.

La neve aveva iniziato a cadere.

Intanto nella sala operatoria il dottor Whale stava tentando di rimuovere l’ematoma, mentre Regina, sotto l’effetto degli anestetici, continuava a sognare.

Quel sogno assumeva sempre di più una connotazione strana. Regina scese insieme ad Henry e Daniel nella sala dei ricevimenti dove vi attendeva il re. Leopold, quel grasso ubriacone. Regina lo aveva sempre detestato. O meglio, aveva iniziato a detestarlo quella notte in cui fu costretta a concedersi a lui.

Un brivido le percorse la schiena ripensando a quella notte. Si sedette sul lato opposto del lungo tavolo di mogano. Era determinata a tenere le distanze il più possibile.

“Figlio mio!” Leopold esclamò queste parole andando ad abbracciare Daniel, il quale era rimasto accanto alla madre. Quest’ultimo ricambiò l’abbraccio anche se poco entusiasticamente. Il re non se ne accorse. Forse perché non era mai stato abituato a molte dimostrazioni d’affetto da parte del ragazzo, ma Regina capì immediatamente che tra i due non c’era un buon rapporto. Daniel era per lei un libro aperto. Assumeva le sue stesse espressioni, faceva gli stessi movimenti che faceva lei quando era seccata o non si trovava a suo agio. Erano fin troppo simili. Tranne che per gli occhi. Ogni volta che lo guardava ricordava l’uomo che aveva amato. L’infimo stalliere che le aveva regalato l’anello di una sella come fede. Lo stalliere che lei aveva amato e desiderato più di ogni altra cosa al mondo.

Mentre il ragazzo provava a scrollarsi di dosso il padre le porte della sala si spalancarono. Nella stanza entrò una donna bellissima che indossava un meraviglioso vestito azzurro. Era tanto semplice quanto quello di Regina era complesso. Portava dei guanti bianchi che le arrivavano al gomito. I capelli biondi erano sciolti sulle spalle.

“Emma..” Sussurrò Regina mentre la bellissima donna andava ad abbracciare suo figlio. Neal dietro di lei.

“Vostra maestà.” Disse l’uomo, avvicinandosi alla regina per baciarle il dorso della mano. “Sei ancora vivo?” Pensò lei.

Tutto quello non poteva essere reale. Neal ancora in vita. Suo figlio. Leopold. Non potevano essere reali.

D’un tratto alte grida si levarono fuori dalle mura del castello.

Un’esplosione fece tremare la terra.

Tutti coloro che si trovavano in quella sala faticarono a rimanere in piedi.

Un consigliere del re entrò correndo. Scivolò a terra prima di riuscire a raggiungere il tavolo al centro della stanza.

“Sire, l’armata dell’ovest ha invaso la città. Le truppe stanno avanzando verso il castello!” Disse il giovane, ansimando mentre si rimetteva in piedi.

“Zelena!” Esclamò Leopold. “Perché Zelena dovrebbe attaccarci?” Chiese prontamente Neal.

Daniel sguainò la spada. Lo sguardo fiero fisso sulla finestra. Il fumo della città che bruciava rendeva il cielo nero.

Aveva le narici dilatate e i muscoli tesi.

“Non è Zelena. È Robin Hood.” Dichiarò. Uscendo di buona lena dalla stanza. Regina urlò il suo nome ma il ragazzo non si girò e andò dritto verso le porte del castello.

Henry estrasse una spada dalla fodera che il re teneva legata alla cintura e lo seguì senza ascoltare le suppliche della madre.

Regina ed Emma corsero dietro ai propri figli ma quando giunsero all’ingresso del castello i due si erano confusi in mezzo alla massa di soldati che si era radunata lì per difendere la famiglia reale. L’esercito nemico stava tentando di sfondare la porta e presto questa avrebbe ceduto. Emma prese due spade dalle statue situate vicino alla scalinata principale. Una la diede a Regina, mentre con lo sguardo entrambe cercavano i rispettivi figli. La porta cedette e cadde con un tonfo assordante. Gli uomini dell’ovest posarono immediatamente l’ariete ed estrassero le proprie armi. Archi, balestre, lame. La battaglia ebbe inizio.

D’un tratto Regina lo vide. Robin, splendente nella sua armatura, entrò brandendo una spada e tenendo l’arco a tracolla. Intorno a lui altri dieci soldati lo difendevano dai colpi, mentre egli si avvicinava  a Daniel.

Uno degli uomini dell’ovest attaccò il ragazzo ma questo fu pronto ad ucciderlo squarciando il suo ventre con un colpo secco. Robin gli si parò davanti, con la lama tesa. I due si guardarono per un istante, poi Daniel tentò di finire l’uomo con un fendente veloce, ma questo lo parò fin troppo facilmente.

Il duello tra i due non durò molto. Regina tentò di avvicinarsi il più possibile.

Quando riuscì a farsi strada per giungere davanti a loro, Robin aveva appena trapassato il corpo del ragazzo. La lama della spada fuoriusciva dalla schiena, ricoperta di sangue denso. Questo cadeva ritmicamente dalla punta d’acciaio e formava una macabra pozzanghera rossa sotto i talloni di Daniel che era ancora in piedi.

Robin rivolse lo sguardo verso Regina e poi estrasse la spada. Daniel guardò sua madre sconvolta e impietrita, poi tossì e un grumo rosso scuro gli colò sul mento. Aveva gli occhi spalancati e lasciò cadere la sua arma. “Mamma.” Disse. Pronunciando queste parole cadde a terra con la faccia in avanti. Ebbe un leggero spasmo e poi morì.

Regina non urlò. Non pianse. Non si mosse.

La battaglia infuriava intorno a lei, avrebbero potuto ucciderla ma non le importava.

Sentiva il suo respiro mancare. Guardava l’uomo che aveva appena massacrato suo figlio. Non lo riconobbe. Quello non era Robin. Non era la persona che lei conosceva. Quello che non avrebbe mai fatto del male a nessuno, soprattutto non ad un ragazzo così giovane.

“Prendetela viva. Voglio che veda tutti coloro che ha perso.” Ordinò ad uno dei suoi cavalieri, mentre con una mano puliva dal sangue la lama della propria spada e lo schizzò a terra con un movimento deciso.

Mentre due cavalieri dell’ovest le immobilizzarono le braccia e iniziarono a trascinarla altrove, Regina vide Emma piangere sul corpo di un ragazzino, piegata in due e scossa dai singulti. La donna, malgrado non avesse visto il volto di quella vittima, capì subito che si trattava di Henry. Sentì una fitta trapassarle il cuore ma quel dolore accrebbe quando vide un uomo impalare Emma con una lancia. La donna rimase immobile su corpo del figlio con l’asta di legno perpendicolare alla schiena.

Le tre persone che amava di più al mondo erano lì a terra. Le aveva viste morire.

 

Un’infermiera uscì correndo dalla sala operatoria, entrò in sala d’attesa e chiese alla donna alla Reception di chiamare un medico di nome “Evans” immediatamente.

“Digli di venire nella camera C-18. Abbiamo un codice rosso.” Ansimava mentre lo diceva.

“Il dottor Evans sta operando un altro paziente momento.” L’altra infiermiera le gridò queste parole mentre la donna si era appena girata per tornare in sala operatoria.

“Non me ne frega un cazzo se sta operando. Se l’altro paziente non è grave può pensarci il dottor Lewis. Abbiamo bisogno di lui. Digli di muoversi.”

“C-18” Sussurrò Emma. Teneva ancora il braccio sulla spalla di Henry.

“C-18 è la sua sala.” Guardò il figlio preoccupata, poi si alzò per andare incontro all’infermiera. Questa però non volle fermarsi così fu costretta a gridarle dietro.

“COS’HA REGINA?” Le afferrò una spalla e la costrinse ad ascoltarla, a risponderle.

“La stiamo perdendo.”

Il mondo di Emma crollò. Come avrebbe fatto a tornare indietro e dire ad Henry che sua madre stava morendo? Come avrebbe fatto a dirglielo guardandolo negli occhi?

Non era sicura neanche di riuscire a sopportarlo lei stessa.

L’infermiera era già andata via, mentre Emma rimase lì immobile.

Rivide gli occhi di Regina che si spalancavano. Rivide il palo contro cui finirono. Il maggiolino distrutto.

La rivide accanto a sé in quella macchina.

Non poteva andarsene. Non così.

 

Regina fu trascinata dai cavalieri dell’ovest verso la sala dei ricevimenti. Superarono il corpo di Neal steso a terra in una pozza di sangue con la testa attaccata al collo solo da un sottile lembo di carne.

Leopold era appeso sul muro con un chiodo piantato nei polsi sovrapposti. Le gambe non le aveva più.

Robin entrò nella stanza con un candelabro acceso stretto nella mano.

“Vostra maestà.” La salutò con un cenno della testa prima di gettare il candelabro addosso al re. Quest’ultimo prese fuoco.

“Perché fai questo?” Regina era in lacrime, piegata in ginocchio. Lo guardava dal basso.

“Oh sono tanti i motivi per i quali voglio farlo. Il principale è che mi va.” Le sorrideva malignamente. Non c’era pietà nei suoi occhi. Avrebbe dato tutto per riavere l’uomo che amava. La persona onesta e gentile che conosceva non aveva quello sguardo, né tantomeno quel sorriso.

“Sai  cosa odio più della tua insulsa famigliola? Le persone che prima di ucciderne altre fanno dei lunghi discorsi sui loro piani malvagi e su come siano lieti che per i loro avversari sia arrivato il momento di morire. Queste persone non vincono mai. Sono patetiche.” Si avvicinò a lei con la spada tesa.

“Uccidimi allora. Cosa aspetti?” Chiese lei. Avrebbe preferito morire piuttosto che convivere con tutto quel dolore. Non le importava se tutto quello fosse reale o no. Voleva solo che finisse.

Robin buttò via la propria spada, prese l’arco, incoccò una freccia e tendendo la corda la puntò in mezzo agli occhi della donna.

“Addio.” Disse. Poi la scoccò.

Prima che la punta della freccia toccasse la sua pelle questa sparì. Così come Robin e i suoi cavalieri. Neal e il re. Poi l’intero castello.

Infine tutto intorno a lei.

Regina aprì gli occhi.

Il rumore del cardiofrequenzimetro le dava fastidio. Le faceva male la testa. Aveva un tubo che le fuoriusciva dalla gola. Faticava a mettere a fuoco la stanza.

Un’infermiera le si avvicinò e poi prese il cercapersone.

Avrebbe voluto chiedere cosa fosse successo, così si avvicinò una mano alla bocca per poter togliere il tubo che non le permetteva di parlare ma l’altra donna glielo impedì immediatamente afferrandole la mano con gentilezza.

“Aspettiamo il dottor Whale così lui potrà dirci se è il caso di togliere il tubo. L’operazione è andata bene. C’è stata una complicazione ma il dottor Evans è riuscito a salvarla. È stata fortunata. Se lui non fosse stato in servizio oggi lei non sarebbe qui.” In quel momento Victor Whale entrò. Si avvicinò al letto e le sussurrò: “Ben tornata, Regina.”

 

Mi scuso di nuovo per il ritardo nella pubblicazione, evidentemente non riesco proprio a rispettare i tempi di consegna.. ma almeno ho fatto ritardo solo di un giorno, sto migliorando lol (Dovrei pubblicarlo ogni due settimane il sabato, mas o menos)

Procrastinare è la mia vera arte. Anyway, questo capitolo è leggermente più cruento degli altri, forse lo avrete notato (?)

Sparsi per la fanfiction troverete molti riferimenti ad altre serie tv/film/libri e sì la cosa è voluta. Come nello scorso capitolo c’era un riferimento a Derek Shepherd in questo ne troverete alcuni di Harry Potter e del Trono di Spade. E bho a me sta piacendo un casino scrivere questa storia, spero che a voi piaccia leggerla, nonostante i vari cambiamenti di stile.

Come sempre gradisco leggere le vostre opinioni, che siano critiche o complimenti non importa, ma possono sempre aiutarmi a migliorare, so di non essere granché come scrittrice quindi se avete tempo da perdere per fare una recensione in cui esprimete i vostri pareri a me fa sempre piacere leggerle.

E sì, Gold ha fatto l’Ice Bucket Challenge ma non ha donato i soldi. Lui può, è il Dark one.

Gracias a todos

   
 
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