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Autore: Alvin Miller    05/07/2015    1 recensioni
[ATTENZIONE - ATTO EXTRA DI FOTK:ER, potete leggerlo anche se NON avete mai toccato con mano la saga!]
Una prospettiva differente dello stesso disastro.
Quando Manehattan ha subito l'assalto da parte di una misteriosa creatura gigante, sbucata dalle profondità degli abissi, la neo-Principessa Twilight Sparkle era già sul posto per investigare sulla vicenda, con il contributo delle sue amiche e degli Elementi dell'Armonia riuniti. Ma quando il nemico è un'entità così sfuggente e ignota, possono i soliti strumenti fare davvero qualcosa? E questa entità, è davvero un predatore solitario, oppure c'è qualcuno, che da lontano amministra la situazione e prepara le sue pedine in vista della guerra che sta per infuriare?
Genere: Azione, Drammatico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Le sei protagoniste, Nuovo personaggio, Princess Celestia
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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*NOTA INTRODUTTIVA*


“Scrivere qualcosa di così grande come FALL OF THE KINGDOM - Equestria Rim, significa tornare continuamente sulle proprie orme per modificare ciò che si è fatto in precedenza, a beneficio dell’esperienza che sarà raccontata in futuro.

A un certo punto della stesura - erano le ultime pagine dell’ATTO.1 - ACCETTAZIONE - gemmò in me l’ispirazione per una nuova sottotrama che avrebbe potuto fare da collante per tutti gli avvenimenti che racconterò dall’ATTO.2 in poi. L’unico problema, giunti a questo punto, fu che non c’era abbastanza spazio per introdurla nel modo dovuto. Dovevo raccontare del IV Attacco, capitolo di per sé saturo di accadimenti, e la circostanza mi aveva convinto a limitare questa nuova sottotrama a una semplice citazione, celata (neanche poi sottilmente) in due semplici righe di dialogo; vi sfido a trovarle, se siete abbastanza caparbi (si trova nella parte seconda de “Il Quarto Attacco”).

Avevo bisogno di un ripiego dunque, qualcosa che mi permettesse d’introdurre la sottotrama senza scompigliare l’intricatissimo piano iniziale. Ed è stato allora che è arrivato “Storie dall’anno zero”. Questo fumetto, rilasciato poco dopo l’uscita di Pacific Rim al cinema, narra gli antefatti che precedono il film, riassumento per sommi capi i passaggi fondamentali che hanno portato all’evoluzione degli eventi, così come li conosciamo noi.

Era PERFETTA come ispirazione! E così, ecco “Storia del Giorno Zero”. Breve Atto extra che vi racconterà gli avvenimenti subitamente attigui al Prologo di FALL OF THE KINGDOM - Equestria Rim.


È a tutti gli effetti un inizio alternativo della stessa storia, che può essere letto come supplemento del Prologo originale, da parte dei lettori che già conoscono e seguono ER, così come dai nuovi lettori, che si avvicinano per la prima volta al libro.


Giunti a questo punto, non mi resta che augurarvi una piacevole lettura, sperando la troviate all’altezza dell’opera originale, o che magari - se siete tra quelli che sentono parlare di ER per la prima volta - si convincano a proseguire l’avventura una volta completate queste pagine.


Un caloroso grazie da parte mia, e vi lascio liberi di cominciare!”


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Cover created by Alvin Miller


CAPITOLO 0.1: L’Eremita


In principio fu il caos. Esplosioni, morte e distruzione. Un senso d’impotenza che si tradusse in un’inevitabile verità: non sarebbe sopravvissuto. Poi il buio si prese ogni cosa.


Spalancò gli occhi, e un senso di vuoto lo travolse. Non c’erano fonti di luce ma barlumi sottili che filtravano attraverso muri lineari, permettendogli d’intuire quanto fosse ampia la scatola che lo rinchiudeva. Forse chi lo aveva messo lì non voleva che vedesse cosa c’era dall’altra parte.

Era sospeso a mezz’aria, sostenuto da qualcosa in un clima torrido e caldo.

Si sentivano suoni uterini provenire dai bordi, come di liquidi gorgoglianti che serpeggiavano lungo le superfici, attraverso tubi che non riusciva a vedere. E c’erano voci nella sua testa, che gridavano di disastri e sventure provenienti dal passato. Cercava di ascoltarle, senza però essere in grado di dare a ognuna una propria identità. Era come se migliaia di ricordi, ognuno diverso dall’altro, si scavalcassero a vicenda per cercare di predominare sulla sua ragione. Esistenze che credeva di aver vissuto, ma di cui non poteva avere traccia, perché lui non era ancora nato.

Aveva paura, si sentiva a disagio, come se capisse di essere in una forma diversa da quella che avrebbe dovuto. Erano davvero suoi quegli arti che sentiva così pesanti sulle spalle, si chiese. E poi quel corpo, perché gli appariva così diverso rispetto a come se lo ricordava (ma cosa “ricordava”?)?

Dubbi, interrogativi, rimembranze… talvolta allucinazioni. Troppe cose per qualcuno che non si era ancora presentato al cospetto della vita, e sebbene ciò, si stava già confrontando con i suoi tormenti.

Non fu in grado di prendere nota di quanto tempo era trascorso da quando quella forma di coscienza individuale si era risvegliata dentro di lui. Le tenebre che lo ingabbiavano lo serbavano in uno stato di sconfortante confusione, dal quale evadeva solamente quando concedeva a quelle voci (quelle grida) nella testa di attirarlo verso di loro; si dimenticava di tutto, e lasciava che i loro pianti lo circondassero, quindi tutto diveniva sfumato. Smetteva di avere senso. Ma quando tornava lucido, conscio della situazione e dello stato d’inutilità che la sua esistenza aveva preso, opponendosi a forze che non comprendeva nemmeno, allora poteva captare sulla propria pelle il graffiante passaggio di ogni singolo istante che gli scivolava addosso.

Più grave di ogni altra cosa, più opprimente della prigionia stessa, era proprio la compagnia di quelle voci. Lo mettevano in malessere, perforandogli i timpani con litanie miserevoli, verso le quali era completamente alla mercé.

“Smettetela, non voglio più sentire nessuno! Voglio che mi lasciate solo!” Così sarebbe stato il suo pensiero, se avesse potuto comporre delle parole in una lingua comprensibile.

Compiva azioni, come portarsi le grandi zampe alla fronte, che nella sua immaginazione sarebbero servite a scacciare quei gemiti infelici, ma che produssero soltanto risultati opposti, spingendo le entità a gridare ancora più forte, in una ruota della sofferenza che si autoalimentava da sé con i tormenti dell’una e delle altre parti.

Poi un giorno, quando stava quasi per abbandonarsi al flagello della sua effimera esistenza, qualcuno mise a tacere quelle voci, così come un rigido capobranco avrebbe rimesso in riga la sua famelica torma di fiere.

Assaporò per la prima volta il gusto del silenzio, e decise che quello sarebbe stato il suo modello di benessere assoluto, da quel momento in poi.

In seguito, la voce che aveva ammutolito le altre iniziò a rivolgersi a lui. Gli parlò da dentro il suo cervello, in un modo che lui (non sapeva come) era in grado di comprendere; non turbò il suo animo, questa intromissione, dato che gli si rivolse in modo solenne ma affettuoso, impartendogli istruzioni chiare e alla portata del suo acume. Di più, sembrava comprendere il suo stato emotivo meglio di se stesso, riuscendo ad anticipare, e quindi variare la cadenza, non appena la conversazione iniziava a irritarlo. E quindi la voce si abbassava, e se poco prima era stata alta e impostata, subito dopo diveniva un sussurro dolce e accogliente.

Gli disse che doveva muoversi, che doveva raggiungere un posto, e quando questi manifestò disagio, al pensiero di dover affrontare qualcosa di nuovo (di ignoto e terribile), la Voce lo tranquillizzò spiegandogli come fare. Si promise, inoltre, che lo avrebbe accompagnato nel suo cammino, che non lo avrebbe abbandonato ai misteri che lo attendevano.

Invece di trovare conforto, lui s’infervorò ancora di più, facendo capire che non era quella la condizione alla quale ambiva: la solitudine era tutto ciò che desiderava, senza voci nella testa che lo costringessero ad agire per coercizione.

Preso atto di ciò, la Voce del Capobranco gli promise che da quel momento sarebbe stata in silenzio. Si sarebbe adagiata sulla sua spalla, e sarebbe intervenuta solo per dargli consigli, quando lui ne avesse manifestato il bisogno.

Ci furono degli stridori metallici, e avvertì che i legami che lo stavano trattenendo ora si distaccavano da lui, adagiandolo con cura a un pavimento solido e umido. Era finalmente libero di muoversi.


Il primo approcciarsi al senso della “vista” fu per lui un altro motivo di disagio, che si poté aggiungere all’elenco delle esperienze negative che aveva accumulato.

Fu accecato da una luce intensa che divampò nello spazio, aprendo uno scorcio intorno al quale danzarono lingue di fuoco arancioni. Di primo acchito pensò di allontanarsi da essa, tenendo fede all’antico proverbio secondo cui bisogna tenersi alla larga dalle fiamme. La voce del capobranco, però, mandò un ordine contrapposto, affermando che se voleva davvero andarsene da lì, c’era solo un sentiero che poteva imboccare. La via della luce.

Reticente di fronte a quella prospettiva, voleva però credere che la sua guida fosse sincera, pertanto doveva fare lo sforzo di lasciarsi guidare, almeno fino a quel punto.

Con passi lenti, e la sensazione sempre costante di avere un corpo molto più ingombrante di quanto non ricordasse (se ricordava), sfidò il primordiale istinto di sopravvivenza e compì un ultimo passo verso la breccia.

Si ritrovò in un posto totalmente diverso, che soltanto a una prima analisi poteva assomigliare al vuoto dal quale era appena sfuggito.

La Voce del Capobranco gli sussurrò di nuovo, (continuava a parlargli, nonostante la promessa che si sarebbe intromessa il meno possibile) spiegandogli che adesso doveva avanzare, che nuovi sentieri attendevano che lui li battezzasse.

Più calmo di quanto non fosse un istante prima, si concesse una tregua per studiare quanto gli stava intorno: la luce che proveniva dalla Breccia illuminava un antro le cui pareti erano di un materiale solido e diseguale (roccia), con un alto soffitto da cui scendevano goccioline di condensa, che lui a malapena riusciva a sentire quando cadevano, e che represse per un po’ la sensazione di essere troppo ingombrante in quella nuova realtà.

Alle sue spalle il varco infiammato non era scomparso, e anzi continuava a risplendere dando colore e consistenza alla grotta buia e immensa, ma già da adesso, lui sapeva che non avrebbe mai più varcato quella soglia.

Scorse una cavità più piccola lungo la compattezza della parete, e seppe per istinto – non per l’influenza della Voce – che era da lì che il suo cammino avrebbe dovuto proseguire.


Marciò a lungo attraverso il condotto che la natura aveva scavato per lui, aiutandosi un po’ con le zampe e un po’ con la vista per superare le asperità che si frapponevano fra lui e la tappa successiva.

C’era umidità là dentro, e molti odori diversi, che con le sue grandi narici s’intrattené a scoprire: erano le essenze della pietra e dell’argilla, che talvolta erano più intense, e altre volte si lasciavano sostituire da quelle più particolari del bitume. Si fermò a fiutare una grande stalattite che scendeva dal basso soffitto (lo era per lui), riempiendo le sue cavità nasali d’inconfondibili odori calcarei.

Realizzò che questi afrori, a modo loro, lo portavano in uno stato di pace che non aveva mai provato nel vuoto, e che se doveva immaginarsi un luogo in cui trascorrere la sua vita futura, voleva che fossero quelle caverne.

Ma la Voce del Capobranco aveva altri piani per lui, e voleva che proseguisse il suo cammino verso l’imboccatura successiva. Gli disse che, dove lo stava conducendo, c’erano altre sensazioni da scoprire, e che per assaporare il vero aroma della libertà, non poteva ridursi al poco che aveva vissuto.

Camminò ancora e senza tenere conto del tempo che scorreva, lasciando che la sua mente si seducesse in quel nirvana di piacevolezze. Quando c’era da arrampicarsi lungo un dislivello, allungava le zampe anteriori e si aggrappava alle irregolarità del terreno. Quando invece doveva accucciarsi per superare un budello più stretto degli altri, piegava le ginocchia e strisciava con attenzione. Per poco il suo corpo non rimase incastrato dentro un anfratto, e la Voce del Capobranco lo rimproverò di fare maggiore attenzione in futuro.


Raggiunse la riva di un lago sotterraneo, e qui sentì alcune delle nuove sensazioni che gli erano state promesse. Captò la salinità dell’acqua, e poi più indistinti, esalazioni di materia organica distanti, che potevano provenire dall’acqua, così come da sotto la camera sotterranea, per quanto ne sapeva.

La superficie del lago era statica e trasparente, smossa soltanto dalle increspature provocate dai suoi passi. Sotto la profondità intravide uno sprazzo di luce naturale blu marino, che lasciava a intendere che oltre quella pozza si stagliasse un altro universo, nuovo e ignoto.

Così come prima, la prospettiva di varcare quel nuovo valico, riempì il suo cuore di timori primordiali, che il Capobranco dovette sopprimere per convincerlo a non fermarsi. La pazienza indefessa, con la quale affrontava ogni suo capriccio, erodeva senza alcuna difficoltà le difese che volta per volta la sua coscienza erigeva.

Il suo primo contatto con l’acqua gli suscitò un bizzarro sbalordimento, quando gli sembrò che l’umidità della grotta e del vuoto, di cui si era già abituato, lo ricoprisse penetrando in ogni suo piccolo poro, gonfiando ogni grinza di pelle. Si rese conto di sapere esattamente come avrebbe dovuto comportarsi una volta tuffatosi, come se lo avesse già fatto innumerevoli volte. Non fu il Capobranco a suggerirgli come adattarsi al nuovo ambiente, bensì quei ricordi, che facevano parte del suo bagaglio, sebbene non li sentisse come propri.

Poi giunsero, come lampi nel cielo, nuove scoperte sulle sue attitudini anfibie: scoprì di poter trattenere il fiato a lungo, nonostante la sua mole suggerisse il contrario, e constatò che quelle due lunghe appendici che pendevano dal suo dorso erano in realtà due pinne indipendenti che poteva sfruttare per tagliare l’acqua e slittarvi attraverso, oppure per direzionarsi. L’ampiezza delle sue zampe le trasformavano in efficientissimi remi, con cui poteva darsi la spinta per muoversi in avanti.

Non gli ci volle molto per uscire dal condotto sottomarino, e una volta evaso, gli si aprì un’immensa distesa di blu, nella quale tante creature abissali (minuscole alcune, tant’è che difficilmente riuscì a intravederle) guizzarono via non appena la sua massa imponente fece capolino dalle viscere della terra.

Avrebbe voluto fermarsi per esaminare il passaggio degli animali nuotatori, non fosse che la sua riserva d’aria stava via via andando a esaurirsi.

Con grande fretta, rincorrendo l’emergenza di respirare, seguì il fondale sabbioso laddove realizzò che si sollevava rispetto al livello del mare. Gattonò su di esso intorbidendo l’acqua al suo passaggio, con nubi di materia che s’innalzava da dietro formando una scia.

Arrivò, infine, a un livello tale che gli permise di poggiare le zampe sul fondo marino, tenendo per metà il corpo fuori dalla superficie. Emerse, e senza avere il tempo di riprendere fiato e scrollarsi l’acqua di dosso, il suo senso della “vista” dovette arroccarsi contro una nuova aggressione, dettata dalla luce solare che lo circondò in un istante.

Era intensa oltre ogni misura, e gli bucava le pallide retine finora abituate solo all’oscurità, come frecce arroventate. Usò le zampe anteriori per coprirsi, grugnendo e rantolando. Poi ci fu dell’altro, una seconda sensazione, come di qualcosa di velenoso nell’aria, che gli divorava la pelle.

Non era doloroso, come l’azione di un acido, ma piuttosto come nuotare nella sabbia arroventata, e sentire le proprie cellule epiteliali morte desquamarsi dal corpo. Una sensazione più sgradevole che altro, che però gli fece domandare quanto a lungo potesse resistervi prima che fosse tardi.

Ora gli occhi erano diventati un poco più condiscendenti verso i raggi del sole, e osò scoprirli per esaminare il territorio, sebbene avesse già la nostalgia delle sue grotte.


Davanti a sé: una distesa uni-cromatica di azzurro, con una sola divisione tra il sopra e il sotto, lungo la linea dell’orizzonte, che divideva il cielo dall’oceano. La volta sovrastante era sgombra da qualsiasi cosa, salvo piccoli ammassamenti bianchi (nuvole), che la sua memoria (memorie?) percepì come familiari, e allo stesso tempo sconosciuti.

Si voltò verso sinistra e per qualche grado non scorse alcuna differenza, salvo le onde che il suo lento oscillare sollevava sull’acqua. Quindi ecco una novità, e fu qualcosa che la sua coscienza non seppe come approcciare in un primo momento: Terra. Una distesa sconfinata di verde, con diverse irregolarità da una parte (montagne) e grandi pianure che si estendevano più lontano di quanto il suo campo visivo gli permettesse di vedere, intervallate da colline e rilievi di ogni sorta.

Riconobbe in quelle punte qualcosa delle caverne nelle quali voleva tornare – le stalattiti che gli avevano inebriato l’olfatto – e decise che ne aveva abbastanza di quel sole tanto impetuoso e di quell’aria così caustica.

Stava quasi per tuffarsi di nuovo, convinto che nessuno questa volta glielo avrebbe impedito, quando la Voce del Capobranco, stentorea e severa, tornò a ripetergli che il suo cammino non si poteva arrestare.

“Non mi piace tutto questo, voglio tornare da dove sono venuto! Qui non mi sento al sicuro!” Si lamentò di rimando, e ancora una volta, rimpianse di non poter esprimere a suoni queste parole, che pure sentiva così nitidamente dentro la sua testa. Dalle sue fauci emersero solo gracchianti singhiozzi.

“Non c’è niente di cui avere paura”, fu la contro-risposta della Voce del Capobranco, “anzi” gli disse, era il mondo che ora aveva qualcosa da cui nascondersi; lui era la creatura più temibile che avesse mai solcato quelle terre, era il Signore di quel lontano pianeta!

Non capì quell’affermazione, neanche ripensando alle sue proporzioni rispetto all’ambiente circostante. Credette semplicemente di non essere riuscito a interpretare le sue parole.

Ora però, questo gli disse di continuare a girare; gli rammentò che c’era ancora qualcosa che non aveva visto, alla sua sinistra, e per capire cosa, doveva completare quel cerchio.

Come un servo ubbidiente, ormai completamente assoggettato alla Voce del Capobranco, seguì le istruzioni, e stavolta vide ciò a cui essa si stava riferendo: un’isola circondata dall’acqua.

Le sue geometrie e la sua composizione erano diverse da quello che aveva osservato fino a un istante prima, come facessero parte di un piano materiale a sé stante, cadute in quel mondo da una discrepanza dimensionale, come era successo a lui: punte longilinee grigie e levigate, come stalagmiti scolpite da una mano demiurgica, atta a generare strutture regolari nello spazio (grattacieli), si estendevano sulla superficie emersa occupandone ogni ombra di terreno. Una sottile strada, come un prolungamento orizzontale sopra il mare, collegava l’isola grigia al resto della terra verde alla sua destra (un ponte).

Da essa, i suoi sensi captarono suoni mai uditi e sgradevoli odori di composizioni acre e pungenti, che gli fecero arricciare il muso.

“Vai”, gli disse la voce, anche se lui avrebbe preferito non farlo. “Vai da loro, e scoprirai il perché della tua ragione su questo mondo. Vai da loro e conquistali!”

Ma chi erano questi “loro” a cui la voce del capobranco si riferiva, e perché li doveva conquistare? A queste domande non ottenne risposta.


*(Questa parte di capitolo è stata scritta sulle note di questa colonna sonora: https://www.youtube.com/watch?v=nOvZD7lp4SM. Ascoltatela mentre leggete per godere al massimo dell’esperienza di coinvolgimento)*


Marciò a passo lento verso l’isola grigia. Le sue zampe che perforavano l’acqua, generavano onde anomale che si rovesciavano lunga la costa, affondando piccole cose e strutture edificate. Vide ora alcuni di questi “loro” nominati dal suo padrone. Erano creature minuscole, che spaziavano in un’ampia scala di colori sgargianti e variopinti. La loro reazione al suo arrivo, come aveva predetto la voce, fu di un terrore animalesco, una paura viscerale che s’inerpicò su per le loro schiene e destituì la loro capacità di ragionare.

Non comprese perché quelle creature si comportassero così, fino a quando non emerse dai flutti, e non si accorse di averne calpestate alcune per sbaglio.

Ascoltare quei piccoli corpicini scoppiettare sotto la pianta della zampa, fu per lui come risvegliare una parte assopita della sua personalità, che aveva oziato fino a quel momento: l’istinto della caccia verso un animale da preda, ed era lui quel predatore. Un superpredatore mandato in quel mondo per cancellare ogni cosa, e nessuno avrebbe potuto fare nulla per impedirgli di procedere. Lui era il più potente di quel mondo, ed era il più grande di tutti. Lui era…


“… la creatura più temibile che avesse mai solcato quelle terre”.


Piegò la testa da un lato, guardando la facciata di una di quelle grandi strutture grigie dai riflessi lucidi. Al suo interno altre di quelle piccole creature si accalcavano lungo i bordi d’insolite barriere trasparenti, studiandolo a loro volta con movimenti guardinghi. Erano animaletti curiosi, pensò, insignificanti e apparentemente inadatti al dominio, eppure erano stati capaci di conquistare parte del cielo con quei loro alveari (o erano nidi?) dall’architettura sublime.

Alcune delle costruzioni erano alte e terminavano con punte o insolite figure sui tetti, che sembravano davvero voler toccare il firmamento, e più si addentrava nell’isola grigia, maggiori erano le stazze che potevano raggiungere quei rifugi stretti e dai colori freddi.

Non sarebbe mai riuscito ad arrivare fino alla cima di alcuni di essi, per scoprire quali altri segreti si nascondessero al di sopra, ma poteva guardare in basso e contemplare il fiume di creaturine che scemavano per strada o si chiudevano ai lati pur continuando a fissarlo.

Era forse questo il suo scopo? Si chiese allora. Mondare la Terra dalla loro presenza, per fare spazio a una razza più meritevole di esistere?

Compì qualche passo e alcune cose esplosero (vetri, idranti, alcuni mezzi a traino), e fu di un sadico divertimento vedere come le scosse facevano incespicare e addirittura cadere alcuni degli esserini.

Grugnì con un verso roboante, e di risposta alcuni di loro gridarono, più frenetici di quanto già non lo fossero. Ogni suo movimento all’interno dell’isola grigia era accompagnato da reazioni simili a quelle appena descritte.

Un fischio acuto e dalla lunga gittata sfrecciò nell’aria (un allarme cittadino), e si disperse nello spazio aprendosi da più punti, rendendogli impossibile individuarne l’origine. Si davano il turno toni acuti e toni più bassi, e questo gli restituì parte dell’inquietudine che credeva di essersi lasciato alle spalle. Non gli piacque per niente, era un’invasione al suo senso dell’ “udito”.

Si agitò, come se qualcosa lo stesse aggredendo nelle cavità auricolari. Una zampa fuori controllo incise uno dei nidi degli animaletti colorati, aprendovi tre squarci profondi lungo la facciata perpendicolare. Lui fissò a lungo il segno degli artigli lasciatovi sopra, e rimase stranito nel constatare quanto fossero fragili e delicate quelle strutture: avrebbe potuto buttarle giù in pochi colpi, se soltanto l’avesse voluto…

Invece avanzò lungo il sentiero, scegliendo d’ignorare quell’idea. Qualcosa si smosse dentro di lui.

Si accorse solo adesso che alcune delle creaturine avevano delle protuberanze sulla fronte, lì dove ad altre mancavano invece del tutto. E alcune erano munite persino di gracili alette, con le quali schizzavano via prima che lui le raggiungesse. Le altre purtroppo, che non avevano modo di fuggire, finirono sotto le sue zampe.

In tutto questo tumulto la Voce del Capobranco era rimasta silenziosa e assente.

La strada si faceva più stretta man mano che avanzava, come se l’isola grigia avesse deciso di stringersi tutto intorno, intrappolandolo in una morsa fatale. Ruggì, capendo che la situazione si era ribaltata a suo sfavore.

Provò a retrocedere, ottenendo come risultato d’ingamberarsi su se stesso, affondando la sua zampa dentro un grande agglomerato di costruzioni triangolari (un complesso industriale).

Estraendola dalle macerie – ignorando quanta desolazione avesse provocato quella semplice azione – capì che il solo modo per uscirne era di farsi strada con la forza attraverso i nidi, proseguendo lungo la via.

Passo dopo passo, calpestando l’esistenza di quelle piccole creature, cancellando la loro storia in maniera arbitraria e insolente, ora che la marcia si era fatta difficoltosa e si sentiva mancare il fiato mentre cercava di attraversare l’isola, gli era tornato tutto il disagio della sua coscienza repressa… di “tutte” le sue coscienze represse, che bussavano da dietro la calotta cranica e lo supplicavano di ragionare. Aveva ricominciato a sentire le voci del suo risveglio, che gridavano e piangevano, soffrendo per il male cui le stava costringendo ad assistere.

A esse si aggiunsero il fischio onnipresente dell’isola grigia, come un pianto echeggiante, e le grida di dolore dei suoi variopinti abitanti.

L’istinto dell’animale da preda allentò la sua morsa, e gli tornò il desiderio di ridiscendere nelle sue grotte.

Completò altri due passi, attraversando l’intrico di alte costruzioni e raggiungendo una zona dove lo spazio si era fatto più ampio, e dove finalmente poteva farsi un’idea di quanto gli mancasse prima di uscire.

Si appoggiò a una struttura, senza immaginare che questo gesto sgraziato avrebbe fatto crollare i soffitti interni dei vari piani che lo componevano, uccidendo sul posto alcuni degli ignari occupanti.

Esserini volanti, con strane pelli blu e motivi a saetta tracciati sui loro petti (Wonderbolts) piroettavano sotto le sue spalle, mentre altri, non meno agguerriti ma privi di ali (e corazzati), lo pizzicavano con insoliti attacchi a distanza, provenienti dai loro corni. Sollevò una zampa e la ribassò con un urto violento, schiacciandone alcuni e sbalzandone via altri. Fu sorpreso da quell’approccio offensivo, non si sarebbe mai detto che gli animaletti dell’isola grigia fossero capaci di reazioni di difesa, oltre che scappare.

Imparò una dura lezione sulle regole di quel mondo: che forse non era poi così invincibile come la Voce del Capobranco gli aveva spacciato. Se pochi di quegli animaletti sgargianti potevano pungerlo e costringerlo a rallentare, un gruppo meglio in arnese (magari come quelli che aveva visto fluire per strada) avrebbe potuto e negargli ogni via di fuga, e a quel punto sarebbe potuto succedere di tutto.

Ciò gli diede ancora più urgenza di allontanarsi dall’isola.

Gli animali volanti che aveva intravisto in precedenza, gli ruotarono dietro e quindi lo colpirono con attacchi fisici provenienti dai loro stessi, incalliti corpicini.

Non avrebbe dovuto sentirli, a giudicare dalla robustezza della sua scorza, ma il veleno invisibile che permeava l’aria aveva assottigliato i suoi strati cutanei rendendogli ipersensibile l’epidermide di sotto. Più che dolore in senso lato, questo si poteva esprimere come un fastidio, una turba al suo senso del “tatto”.

La Voce del Capobranco soppresse i lamenti interiori, e tornò a sedersi sul suo trono imperiale.

“Devi difenderti!” Scandì in maniera chiara e sintetica, senza possibilità di fraintendimento. Il braccio di ferro con la sua coscienza individuale vide la disfatta di questa. Ruotò bruscamente il tronco, e le pinne dorsali frustarono l’aria scacciando via le bestioline alate, per poi scoperchiare il tetto di un nido.

Non vide il piccolo edificio rosso che aveva sotto di sé (una tavola calda) e finì con l’inciampare su di esso, strappando un pannello di legno (l’insegna) dal tetto, che finì sotto le sue zampe quando lui cadde in avanti.

Si aggrappò su un altro nido, evitando così di crollare del tutto.

“Che cosa sto facendo?” Avrebbe voluto chiedere mentre si rialzava. “Devo smettere di fare così, tutto ciò è sbagliato!”

«Invece è proprio così che deve andare. È questo il tuo scopo!» Gli rispose qualcuno, che a dispetto delle apparenze, non era il Capobranco. Era una voce piena e marcata, come di qualcuno che gli stava sussurrando da dentro l’orecchio, non solo dalle larvate profondità del suo cervello.

“Cosa? Io non capisco… ” Latrò la sua parte cosciente.

«Ti abbiamo creato noi per questo! Esisti per assolvere al nostro scopo!»

“Uccidere per voi? Devo fare del male a queste creature solo perché siete voi a ordinarmelo?”

«Devi ucciderli, così che noi potremmo prosperare e continuare a vivere» la voce prese del tempo, così che lui potesse meditare su quelle parole, quindi ripeté «è questo il tuo scopo!»

Un ricordo dal passato gli fece sbarrare gli occhi cerei, flash d’immagini gli suggerirono quale fosse la sua vita precedente. La loro vita. Sua e di tutte quelle voci che gemevano nella sua testa.

“No! Ora ricordo… lo sterminio… quello che ci avete fatto… volete replicarlo su questo mondo! Volete costringerci a ripetere per mano nostra quello che è successo a noi!”

«La vita che ricordate non significa più nulla ormai.» La voce martellò nei suoi timpani, causandogli dolore. «Siete parte del nostro esercito ora, e lavorerete per noi e per la prosperità della nostra razza!»

Serrò gli occhi e fece come per strapparsi di dosso qualcosa dalla faccia.

“Scordatevelo, non esiste, non lo faremo più!”

“Staremo a vedere.” La voce tacque, come se avessero interrotto un qualche collegamento a distanza.

Rimase immobile sul posto, circondato dai “palazzi” ( che ora ricordava come chiamare), fermo e senza muovere un muscolo, col timore che facendolo avrebbe scaricato una nuova ondata di distruzione sulla “città”, e su quelle piccole e innocenti creature.

Poi qualcos’altro dentro di lui cambiò, come un pulsante di spegnimento che viene pigiato da un operatore senza volto. La sua coscienza lo abbandonò di nuovo, e con essa anche i ricordi delle vite che gli erano state portate via. Restò dentro di lui solo la paura, quel senso di smarrimento di chi si era appena risvegliato in una terra aliena.

Si guardò intorno, non capendo dove si trovasse. Le cose che lo circondavano apparivano come monumenti monolitici che serravano i ranghi con l’intento di inghiottirlo. Oltretutto, c’erano rumori che lo assordavano, e cose cattive che convergevano da tutte le direzioni per fargli del male. L’aria poi era tossica e asfissiante, lo bruciava da dentro e da fuori.

Tutto ciò fu troppo per lui, creatura triste e abbandonata che si sentiva come se qualcuno l’avesse appena privata dei suoi ricordi più preziosi.

Scattò con una corsa animalesca verso la limpidezza del mare, ignorando le cose vive o inanimate che buttava giù o che finivano sotto le sue zampe.

Si tuffò per nuotare e raggiunse così la riva della grande distesa terrosa, dove subito, prima che fosse tardi, iniziò la sua disperata ricerca di un rifugio. Voleva un luogo oscuro e solitario, dove potesse trascorrere per sempre la sua misera esistenza da eremita senza memorie.

Poco prima di svanire dalla vista delle creature natie di quel luogo, gli sembrò di sentire una voce nella testa, che gli suggerì qualcosa da fare. Lui la ignorò, troppo spaventato per fermarsi ad ascoltarla.
   
 
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