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Autore: ladyflowers    18/01/2009    2 recensioni
Itaca. Non un'isola. Una ragazza anormale, in una famiglia anormale con madre apprensiva, padre invisibile, fratelli complessati e affaristi e amici fuori di testa. Se Ulisse cercava di raggiungere Itaca... Itaca cercava di fuggire. Con scarsi risultati.
Genere: Romantico, Comico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Trucco, vestiti, sangue e fuga.

Spalmare fondotinta con attenzione; ricordarsi di non piazzarsi davanti alla porta.



    Itaca si sfilò un paio di scarpe taglia 41. Il classico piede da fata.

1,80 di altezza. E di goffa, simpaticissima per tutti tranne che per lei, imbranataggine.
Ogni angolo che con grazia elefantina riusciva a toccare era un livido assicurato.
Il Palo Storto Colpito da Auto. Così la chiamavano. O più semplicemente Palo. A volte anche Storta. Insomma, un soprannome carino da usare in chat con gli amici.
Amici che, per inciso, non aveva fatta eccezione per due sole, inimitabili, persone.
Itaca aveva un nome che, dicendocelo con onestà, spaventava la gente o la induceva a comiche battute che portavano il morale sottoterra.
E con logico rigore la ragazza, a vent'anni d'età, si era ritrovata ad essere piuttosto cinica e scostante, in particolar modo con i ragazzi.
Le ragazze, da lei paragonate a idre mostruose, si limitavano a detestarla perché era più magra di loro ma, ogni volta, ridevano sonoramente gaudenti come galline in quanto non riusciva a stare in piedi senza inciampare.
Quella sera Itaca si trovava al telefono, o meglio, le avevano telefonato.
“Pronto?” chiese mentre i lunghi capelli neri le ricadevano sugli occhi coperti da pesanti occhiaie da panda.
“Ciao Itaca. Sono Myke, ti ricordi di me?”
“Il tizio seduto davanti a me che si scaccolava?” chiese con tono di voce piatto.
Silenzio. “Ehm... sì sono io. Ma spero che non mi ricorderai solo per questo.”
“Ah no, certo. Dopo ginnastica puzzavi.” rispose incolore.
Altro silenzio. Lungo silenzio.
“Vabbé insomma, non so come dirtelo ma... stasera alle otto c'é la cena di classe con quellielementari eio... voevo itarti.” rispose riuscendo in un secondo netto a compattare tutte le parole come sardine in scatola.
“Che?” replicò ancora.
Cambiò saggiamente argomento: “Sai cosa?”
“No.”
“Ecco. Mi fa piacere risentirti. La tua voce è luminosa, elettricità pura.”
Itaca guardò il soffitto con appeso un pipistrello di gomma per poi rispondere:
“Bravo, così eviti di pagare le bollette.”
Non lo avvertì nemmeno respirare dall'altra parte della cornetta.
“Ah, bella battuta – dette un leggero colpo di tosse – allora che dici, vieni stasera?”
“Va bene – disse lei – passami a prendere stasera alle sette.”
E, senza troppi fronzoli, gli riattaccò il telefono in faccia.
Itaca sapeva come risparmiare sull'ossigeno, sulle telefonate e sul proprio tempo.


    Uscendo passò davanti alle camere dei due fratelli. Anche loro con nomi altrettanto assurdi: Achille e Solone. Il primo, a ventitré anni, era un emo complessato che ascoltava musica complessata e usciva con le ragazze solo dopo ore di complessato pensiero.

Nonostante fosse un bel ragazzo. Nonostante andasse in giro con le unghie nere e il ciuffo che gli copriva un occhio rendendolo cieco per metà ma, come lui saggiamente sosteneva, meglio non vederci affatto che vedere il falso.
Anche quando andava a sbattere contro la gente o svoltava cozzando un muro.
L'altro, Solone, era un insulso approfittatore e, nei suoi giovani diciassette anni d'età, aveva messo su assieme al suo migliore amico un sito di vendita di oggetti per collezionisti.
In particolar modo fumetti. Che loro compravano per poi, anni dopo, rivenderli a prezzi da furto.
Era un investimento, da lui chiamato, a lungo termine e, effettivamente, funzionava.
Una mente geniale che, dopo aver letto distrattamente un libro, riusciva a ripeterlo riga per riga.
Itaca odiava i mostri.
Ma doveva conviverci.
“Ehilà, Promontorio, Nichelino ti ha invitato ad uscire stasera?”
Già, i soprannomi. Solone aveva una passione folle per i soprannomi, ne inventava uno per ogni cosa. Con semplice immediatezza prima del viaggio scolastico in montagna aveva ribattezzato la sua fedele valigia rosso pomodoro Bloody Mary.
Promontorio si voltò, i capelli dritti come spaghetti finirono catapultati in bocca, sputacchiò un istante, si risistemò una ciocca all'indietro con fare seducente quanto un grizzly che si pettina, e replicò:
“Michelino mi accompagna alla cena di classe. E allora?”
“Nulla. Solo evita di distruggere il ristorante... magari incarta la pizza che non finirai mai di mangiare prima di venire ricoverata!”
“E se ti incartassi un bel pugno? Condito con della sana violenza?” replicò lei con un grugnito degno di un ottantenne con broncopolmonite.
“Ok, ok... siamo permalosetti... buon restauro facciale allora!” sghignazzando aprì la porta di camera sua che, avesse potuto, l'avrebbe chiusa a tripla mandata.
Come tutti in quella casa.
Perché d'altronde con Olivia Andromaca deGuisotti come madre nulla era al sicuro.
Lei entrava e, allo stesso modo di Attila, ovunque passasse non ricresceva più l'erba... nemmeno la polvere o qualsiasi altro oggetto che, incidentalmente, si fosse trovato a contatto con il pavimento.
Itaca sentì dunque la chiave d'ottone girare nella toppa della porta proprietà di Solone, illusoria garanzia di sicurezza da una madre impicciona, apprensiva e, in particolar modo, docente universitaria di archeologia classica.
Vedeva l'impronta greca ovunque, persino nella ciotola del cane Botolo.
Quando poi la vede persino nei nomi dei suoi amati pargoli si arriva ad un punto di non ritorno... ancora Itaca non sapeva spiegarsi come all'anagrafe avessero potuto accettare un nome come il suo... magari perché erano tutti annebbiati dall'alcol e dai fumi dei botti di capodanno.
Non lo sapeva. L'unica cosa di cui era certa era che, una volta libera e felice, non più schiava del giogo materno, avrebbe cambiato nome.
Anche con una cosa banale come Maria, Anna, anche solo A... tutto era meglio di Itaca.


Si contemplò il viso cadaverico. Una goccia sapientemente dosata di fondotinta e sarebbe parsa seducente come Charlize Theron alla premiazione degli Oscar.

Si guardò meglio, aggiustando la pinzetta verde fluorescente che teneva alla buona i suoi capelli tirati indietro, e notò che effettivamente assomigliava a Charlize Theron... in Monster, non alla premiazione degli Oscar.
Forse perché il fondotinta era stato steso talmente bene da essersi compattato a chiazze... effetto lebbra o dalmata, che dir si voglia.
“No... se vado così mi daranno per malata terminale....” borbottò facendo per sciacquarsi la faccia.
Non avrebbe risolto granché ma almeno dava la sensazione di averci provato.
Questo finché, intervenendo veloce come l'acido lattico nei muscoli di chi si muove solo per cambiare canale, non sopraggiunse la madre, la signora Olivia Andromaca deGuisotti in Falce.
Capelli fulvi con chioma vaporosa, trucco sempre ben definito, persino quando batteva i tappeti, anche solo per sbattere la cuccia del cane.
“Per Zeus! Tesoro mio, che stai facendo? Ti sei conciata in modo orribile.”
Per la serie: come tirare su il morale ai propri figli incoraggiandoli.
“Ma dai? Non l'avevo notato.” ribatté lei ironica, fissando un istante lo specchio come per timore che da un momento all'altro potesse spaccarsi in mille pezzi.
“Sei una bella ragazza, suvvia. Sotto le occhiaie. Sotto la massa di capelli. Sotto la pelle grigiastra. Sei una bella ragazza... ripetilo con me, ciccina.”
Ciccina? Guardando dall'alto del suo metro e ottanta la madre, scriccioletto di un metro e un puffo, avrebbe voluto darle una testata e lasciarla per morta... lei, la sua ciccina, e il trucco.
“Lascia stare. Mi strucco e vado così.” disperato appello, Sos, ultimatum...
“No, non sia mai che mia figlia vada in giro da sciattona. Vuoi sembrare una barbona forse?”
Alé, rincariamo la dose alla ricetta Sentiti Merda.
“Fai solo in fretta. Ti prego.” Dose letale di maschera facciale e poi tutto sarebbe finito.


    “Finito!” disse entusiasta la madre, aggiustandosi i rigidi occhiali neri, rettangolari, e sottili.

Con un colpo da maestro la voltò con la sedia facendola specchiare.
Itaca si fissò intensamente.
Così intensamente che avrebbe potuto girare gli occhi nelle orbite e la sua immagine, di lei truccata e con i capelli raccolti in trecce, non l'avrebbe abbandonata.
Le labbra sensualmente dipinte di rosso. Leggermente sbavato.
La matita nera che delineava in modo deciso il contorno occhi. Molto deciso.
La cipria, candida, che la rendeva simile a porcellana. Più che porcellana.
I capelli neri un po' elettrici. Sparati da tutte le parti.
“Mamma, questa non sono io.” ammise.
“E chi, se non tu, ciccina?” chiese amorevolmente, convinta di aver piacevolmente trasformato la figlia.
“Il Joker, mamma. Sembro il Joker di Batman.”


    In un modo o nell'altro però sopravvisse. Anche alla selezione dei vestiti che, secondo opinione della beneamata madre, non dovevano essere assolutamente appariscenti.

In una ragazza è essenziale che si veda la propria castità e genuina disponibilità ai lavori di casa, nonché amore per l'umiltà del proprio aspetto e la decenza del decoro.
Così c'era scritto nel manuale delle Giovani Casalingotte degli anni '60 e così pareva esserci scritto anche nella testa di sua madre, a caratteri indelebili con incisioni a fuoco nella materia celebrale.
Non c'erano compromessi sufficienti per uscire di casa in modo decente, eccetto la promessa di indossare una cintura di castità, ma con tutto il cuore Itaca sperava di non dover arrivare a quella soluzione drastica per poter mostrare un po' di tette, che per altro non possedeva.
Già, il seno. Il Buon Signore doveva essersi dimenticato di aggiungere al pacchetto quell'indispensabile accessorio.
Itaca da anni pensava che probabilmente il Mirabil Creatore doveva aver confuso il DNA di un giocatore di basket con il suo... magari, da qualche parte nel mondo, esisteva un giocatore alto un metro e settanta con le tette. Le sue tette. E la sua altezza normale.
Si guardò un istante il vestito nero lungo fino alle caviglie e le maniche che arrivavano precise al polso.
Poi contemplò la sua secca figura allo specchio, le trecce nere, il trucco...
“Accidenti. Sono il Joker travestito da suora.”
O Mercoledì della famiglia Addams... magari, sarebbe stato troppo bello.
“Mia Itaca! Stai davvero bene così! Sei uno schianto...” commentò la madre ridacchiando compiaciuta di aver trasformato un essere umano in un mostro.
Se fosse andata in giro così la notte di Halloween la gente non avrebbe esitato a sommergerla di dolcetti pur di non rischiare la propria vita.
Peccato non fosse Halloween.
“Uno schianto... - commentò dirigendosi verso la porta per aspettare Michelino – a me basterebbe non essere un incidente d'auto.”
Sbirciò fuori dalla finestra, ringraziando che la madre si fosse allontanata per scrutare la Pozione Mistica, ovvero la zuppa di ortaggi del venerdì sera, da lei così denominata per il colorito marrone caghetta che esclusivamente sua madre, incapace di tenere anche solo un mestolo in mano, riusciva a creare.
E ribadiamo che era una zuppa di ortaggi. Ortaggi, non legumi.
Sì, sua madre era l'Arturo Brachetti della cucina. Trasformava una pietanza in qualcosa di diametralmente opposto.
Improvvisamente spalancò la porta.
Itaca ricevette un solido legno, massiccio e inespugnabile come Troia, dritto sul naso.
“O merda!” sentì esclamare quando indietreggiò di qualche passo.
Achille.
Si precipitò sulla sorella infortunata iniziando a balbettare:
“Accidenti... scusa... io non... la porta... la mia ragazza... la vita...”
Per poi accumulare una serie indefinita di parole come se fossero punti del supermercato.
Itaca si tolse le mani dal naso, che ringraziò fosse di misura normale altrimenti si sarebbe probabilmente piegato a novanta gradi, e disse con la testa che le girava:
“Otti peoccupae utto a potto.”
Una cascata di sangue andò a macchiare lei, il fratello, e il lindo pavimento di casa.
“Ma tu sanguini!” esclamò Achille con pathos accorato.
“Che ccoperta!” ribatté cercando di fermare l'emorragia con il propedeutico uso delle mani a ciotola...
“Aspetta – si guardò attorno un istante, il bel viso truccato come quello della sorella (fatto mistico e inquietante a dire il vero), per poi afferrare la prima cosa che aveva a tiro – prendi la sciarpa. Tampona. Non morire, ti prego!”
Senza che la sorella avesse il tempo di replicare che, magari, una sciarpa non è propriamente indicata in quelle situazioni, Achille le schiaffò l'indumento sul naso, premendo come se con la sola imposizione delle mani il sangue si pentisse della sua scappatella decidendo di ritornare a casa sua, in Via del Capillare all'angolo con Corso Vena.
Passò qualche secondo mentre la sublime madre, radio Lirica Oggi accesa al massimo volume, fischiettava un'aria come se fosse stata la hit del momento.
Non accorgendosi di nulla.
E di questo Itaca non poteva che esserne felice... avrebbe fatto un monumento a Lirica Oggi solo per aver attirato la genitrice lontano da lei in situazioni come quelle.
Itaca si accorse che il flusso di sangue si era fermato, almeno così sembrava. Con una mano appoggiata sulla spalla del suo carnefice-soccorritore disse:
“Ono appotto.”
Suo fratello, non ascoltandola, perso nei suoi deliri da assassino pentito mormorò:
“Oh sorella, cara sorella... che male avevi fatto tu in vita... me ne dispiaccio immensamente, vendicherò la tua morte perendo di stenti, rifuggendo ogni cibo che possa consolare quest'animo turbato. Me misero, che sorte ingrata, che destino amaro ti ho fatto compiere mia dolce, rifulgente, sorella!”
“Ono iva!” esclamò cercando di fuggire alla morsa della sciarpa assassina.
“Sei Iva? O povera sorella che ha perso il senno negli ultimi istanti prima di cadere sotto la falce della Signora Oscura! Itaca, questo è il tuo nome, non scordarlo giammai!”
E chi riusciva a dimenticarselo?!
Finché, celestiale come la tromba degli angeli durante l'Apocalisse, non suonò il clacson di una macchina.
“Icheino!” gridò Itaca.
“No, mia cara, non sei nemmeno Michelino... qual destino ingrato la tua amnesia!”
Senza troppi complimenti la ragazza si scostò da Achille che, con gli occhi sgranati, la vide spalancare con ferocia brutale la porta per poi correre nel prato di casa, le scarpe ancora in mano, la borsa che ciondolava pericolosamente e il vestito da suora allegramente sballonzolante.
Si affacciò alla soglia della porta, contemplandola correre beata nel prato del giardino, esclamando sorridente:
“Sei salva Itaca! Va', corri come un camoscio a primavera, cerca un destino migliore... non fermarti, continua a correre felice e beata! Hai la mia benedizione, almeno tu, che puoi accarezzare la felicità librando come una farfalla!”
In lontananza Itaca replicò: “Fottiti!”
Perse la sciarpa insanguinata che volteggiò poeticamente nell'aria.
Michelino, dall'interno della sua auto, vide corrergli incontro un essere abominevole vestito di nero, con il petto macchiato di sangue e in mano delle scarpe che sembrava volergli lanciare contro da un momento all'alto.
Paralizzato stette a fissare quella corsa folle, tenendo le mani sul volante qualora la situazione fosse precipitata, finché Itaca nell'impeto della corsa non sbatté le mani, lorde di sangue, contro il finestrino e lui... vide.
Un viso cadaverico dal trucco sbavato e coperto di sangue, gli occhi da pazza, i capelli sparati.
“Oh mio Dio! Maryilin Manson vestito da suora!”
Al che, prima di riuscire ad aprire la portiera, dopo aver imbrattato il finestrino di sangue, Itaca inciampò non riuscendo a destreggiarsi coi piedi, schiaffandosi il viso contro il vetro per poi scivolare lentamente giù.
Parte del trucco agli occhi rimase sul finestrino, accanto al sangue, tutto sotto gli occhi atterriti di Michelino che contemplava quella scena e la sparizione lenta di Itaca in un mugolio inquietante, proprio come se avesse un film horror in diretta.
Scomparve dalla sua vista.
Rimase in silenzio, ansimando, aspettando. Itaca era sparita, coperta dalla parte inferiore della portiera.
Sbam!
Sobbalzò sul sedile. Una mano, imbevuta di sangue e terra, sbatté sul finestrino.
E poi, come un cadavere che resuscita, Itaca si rialzò in piedi appoggiandosi anche con l'altra mano.
Silenziosa aprì la portiera, gettando le scarpe sotto il sedile, aggiustandosi la gonna ed entrando.
Richiuse lo sportello, tutto sotto gli occhi terrorizzati di Michelino il quale aveva visto materializzarsi nella persona di Itaca i suoi incubi peggiori.
Con tutta tranquillità, riaggiustandosi con scarsi risultati i capelli, si girò verso Myke, il trucco sbavato e il sangue rappreso, dicendogli:
“Allora? Che aspetti? Andiamo.”
Balbettando e sudando freddo Michelino girò le chiavi e fece partire l'auto, una carretta che nemmeno Paperino sarebbe disposto a guidare.
Ci fu qualche istante di silenzio finché, nonostante tutto, nonostante avesse appena assistito alla scena più drammatica della sua esistenza, ebbe la forza di dire:
“Ti trovo bellissima stasera c... come...”
Non aveva parole. Non c'erano parole. Se ci fosse stato un paragone calzante sarebbe stato probabilmente come Jack lo Squartatore o Faccia di pelle... e nessuno dei due era lusinghiero.
“Come?” incalzò lei senza entusiasmo, non avendo nemmeno il coraggio di tirare giù lo specchietto.
“N... niente – balbettò guardando la strada – come non detto.”
Sospirò.
Anche Itaca sospirò.
Bene, la sua serata perfetta era cominciata.


Fiction scritta per puro diletto che spero sia, oltre che mio, anche vostro!
Yap! Grazie per aver letto!! XD
  
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