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Autore: breeb    06/07/2015    2 recensioni
[I Dalton]
[I Dalton]Cosa accadde dopo la Grande Evasione del 1887? Che ne fu dei quattro fratelli Dalton, che intrapresero una estenuante fuga attraverso il deserto diretti verso una nuova vita? Qual genere di avventure e disavventure, quali esperienze umane costellarono le vite dei più temuti banditi del West? Che fu del loro bottino? A partire da Joe, i Dalton si raccontano brevemente rivelando segreti scottanti ed inaspettati.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Faceva un caldo torrido, insopportabile. Le vesti madide s’appiattivano sulla pelle umidiccia di sudore, le cui gocce colavano lungo i corpi spossati della gente che affollava le strade; il sole del mezzogiorno si insinuava in ogni dove rendendo inospitale persino l’ombra, mentre del vento era scomparsa persino la memoria. I cavalli, consunti dalla fatica del lavoro, trascinavano gli zoccoli sul selciato polveroso, mendicando acqua e riposo.
Toltosi la giacca in fretta e furia, Joe Dalton tirò la tenda della propria stanza con uno strattone, sbuffando di collera. Con due dita si accomodò il colletto, che cominciava a sentire indiscutibilmente troppo stretto, e si lasciò mollemente cadere sulla sedia, quasi privo di forze. Aveva bisogno di un sigaro ed un bicchier d’acqua. Immediatamente.
Raccolse da terra la brocca che conservava per le emergenze e bevve qualche sorso. Poi ravanò febbrilmente nel primo cassetto della scrivania, ma riscontrò con stizza che non v’era rimasto nemmeno un sigaro.
– Per la miseria! – gridò collerico sbattendo entrambi i palmi sulla piccola scrivania, che scricchiolò.
– È mai possibile che non vi sia più nemmeno uno stramaledetto sigaro, in questa lurida casa?! Averell! – chiamò a pieni polmoni.
Il fratello minore comparve sulla soglia nell’arco di qualche secondo, con un’espressione in volto tra l’intimorito e l’incurante: – hai chiamato, Joe?
– Procurami dei sigari. – ordinò seccamente Joe massaggiandosi la fronte madida di sudore.
– Che tipo di sigari, Joe? – chiese ingenuamente Averell inclinando lievemente il capo.
Joe rimase in silenzio per un attimo.
– Dei sigari, Averell. Normalissimi. Sigari. – ringhiò quindi a denti serrati.
Averell, con  un sorrisino edulcorato, si portò una mano alla nuca e borbottò:– sciocco, sciocco Joe! Intendo di quale marca, così posso…
Joe lo interruppe balzando in piedi e berciando: –  i dettagli sulla tua incompetenza non mi interessano, razza d’idiota!, trascina la tua inutile persona fuori di qui e va’ a procurarmi del tabacco!
–  …non avevi forse parlato di sigari, Joe? – soggiunse Averell pensoso e sinceramente dispiaciuto di non afferrare.
– Esci da questa stanza ed arrangiati, imbecille! – ululò Joe correndo a sbattergli la porta in faccia.
Si trascinò alla scrivania continuando a massaggiarsi le tempie. Si fermò per un istante dinanzi allo specchio che giaceva sbilenco poco lontano, relegato in un cantone tra quella che egli denominava “la robaccia” ereditata da Ma’ Dalton. Joe osservò la propria immagine riflessa, storcendo il naso. Quell’ometto in età, perfettamente raso e modestamente vestito non era lui. Ma infondo, non sapeva dire se davvero gli mancasse ciò che si era lasciato alle spalle. L’unticcio sudiciume di quel penitenziario nel Nevada, ad esempio. Il sudore colante sulla fronte, l’immane fatica dei lavori forzati, la penuria di cibo, gli stenti, i pidocchi che gli divoravano il capo e la pellagra. Scosse la testa e tossicchiò. Si passò una mano sulla spalla destra. Gli parve di avvertire ancora il dolore, l’indolenzimento dovuto a quelle lunghe e gelide notti di permanenza su quelle travi di legno che insolentemente chiamavano “brande”. Con un gesto spiccio si lisciò il panciotto di canapa nero, accomodandosi la camicia di lino come se lo stizzisse indossare un solo lembo di tessuto spiegazzato. Non rimpiangeva nemmeno quel perpetuo, ansioso scapicollarsi ad elaborare piani su piani, goliardiche strategie che portavano solo a fallimenti, a rocamboleschi tentativi d’evasione che sfumavano di volta in volta incendiando le risa sadiche di Melvin Peabody. Joe fece qualche passo, si mosse lentamente avanti e indietro. Da quando i Dalton erano riusciti a fuggire e a raggiungere il Messico, la loro vita non era più stata la stessa. Correva l’anno 1887 quando, miracolosamente, i quattro eredi di Ma’ Dalton erano riusciti a fuggire dal penitenziario di Peabody sgattaiolando nella notte gelida del deserto. Per giorni avevano camminato trascinandosi tra le dune, patendo la fame, il freddo acerbo della notte e l’immane calura del giorno. Per non farsi scovare avevano dovuto elaborare un tragitto tortuoso e ciò prolungò la loro debilitante fuga. Ma ce l’avevano fatta. Dopo quasi venti giorni di cammino privo di sosta alcuna erano liberi. Successivamente ad una serie di vicissitudini, Joe, Jack, William ed Averell Dalton avevano messo piede in Messico. Al contrario dei propri fratelli, Joe disprezzava profondamente tale paese. Di fatto, quando accadeva che spendesse qualche quarto d’ora del proprio preziosissimo tempo a passeggiare all’aria aperta, nelle miti sere di Ciudad Juarez, non poteva fare a meno di storcere il naso e bofonchiare qualche insulto rivolto ad ogni insignificante dettaglio della nazione che, in fin dei conti, lo aveva sottratto alla forca. Dopo aver dimenticato il carcere, la combriccola Dalton poteva concedersi piccoli lussi che ai tempi nemmeno sognava, trapiantata in un contesto sociale e culturale diametralmente differente al proprio. Trascorsi gl’infernali venti giorni nel deserto, i Dalton erano riusciti a raggiungere casa, dove, ricongiuntisi con l’anziana madre, ricevettero qualche tozzo di pane raffermo affogato in un’insipida broda, un po’ d’acqua, qualche ora di riposo e vecchie Colt quindici colpi. Ne seguì una spietata serie di rapine, le cui vittime furono per lo più banche dei paeselli nell’arco di qualche chilometro. Con il denaro proveniente da tale fuoco di fila di furti a mano armata, trasportato a strattoni mentre le caviglie affondavano nella sabbia rovente dell’ultimo lembo di deserto che li separava dal Messico e le gole supplicavano acqua, i Dalton avevano costruito un nuovo presente, fatto di vite pressoché normali. La decisione di stabilirsi in Messico fu dell’autoritaria Ma’ Dalton, che intimò ai propri figlioli di sparirsene per qualche anno al fine di far perdere le proprie tracce. Joe ricordava limpidamente gli ultimi istanti di quella sera febbrile in cui la vecchia donna quasi li aveva cacciati di casa, soffermandosi ad abbracciare Averell per non più di qualche istante.
Joe rinvenne bruscamente dai propri pensieri: si accorse improvvisamente dell’effettivo scorrere del tempo, dopo che il suo sguardo s’era posato sul vecchio ed instabile pendolo che qualcuno aveva appeso alla parete. Più i minuti passavano, più Joe avvertiva un disperato, inumano bisogno di fumare e di Averell non si vedeva l’ombra. Joe Dalton maledì il tempo, suo fratello e la propria stessa vita, preso da uno di quei suoi soliti istanti d’ira ferina. Sbattendo violentemente i pugni sulla scrivania, ad ogni modo, si accorse che una sigaretta solitaria, che giaceva da tempi immemori sepolta sotto stratificazioni millenarie di fogli ricolmi di appunti mal scribacchiati, cartine geografiche e mozziconi, rotolò tra le sue mani. L’uomo abbozzò un sorriso e rifletté sconclusionatamente sull’occasionale magnanimità del destino e sulla fortuna che saltuariamente lo assisteva.
Dopo essersi gaiamente portato alla bocca la sigaretta, Joe estrasse un fiammifero dalla scatolina in acciaio lavorato che conservava accanto al calamaio. Ne strisciò l’apice rossiccio, ottenendo immediatamente la minuscola vampata che avrebbe soddisfatto quella sua persistente smania di tabagista accanito. Nonostante il prepotente, scalpitante desiderio di fumare si soffermò per un istante ad osservare la piccola e timidissima fiammella. Quasi si lasciò scappare una smorfia divertita, alla vista della danza di colori all’interno di essa. Con un grugnito accese la sigaretta portandosi la mano dinanzi al volto per preservare la fiamma: subito dopo, schiacciò impietosamente il fiammifero nel posacenere.
Joe si abbandonò nuovamente alle riflessioni, incoraggiato dal troppo caldo che, si disse, non gli avrebbe concesso di far altro. Nel frattempo accese il grammofono e vi posò un disco nuovo di zecca. Le note di “You Call It Madness” di Smith Ballew si sparsero per la stanza. Erano ormai lontani gli anni Ottanta di quel goliardico 1800: la giovinezza di Joe era stata spazzata via dal sospiro del Tempo che, soffiando sul suo capo, aveva rimpiazzato il nero corvino dei suoi capelli con un tono brizzolato trasudante saviezza. Erano giunti gli anni Venti del neonato Novecento e si erano portati dietro il Charleston, pettinature femminili ornate da onde sinuose e automobili che in giovinezza Joe non avrebbe nemmeno sognato. Era davvero trascorso un sacco di tempo. Il denaro che gl’era rimasto era ben poco e mal lo amministrava. Ogni tanto Jack, che era divenuto un ricco proprietario di Casinò, gli spediva qualche busta chiusa con la scritta “confidenziale” ben impressa sul retro. Joe detestava ammettere di dover essere mantenuto dal fratello, ma sostanzialmente così era.
Joe aprì distrattamente il cassetto centrale della scrivania per dare un occhio al rimanente denaro del mese. Per un attimo fu colto dal panico dal momento che della busta di Jack non v’era traccia: prese a frugare nervosamente tra le scartoffie e la paccottiglia che aveva gettato nel corso del tempo in quel povero ed angusto cassetto. Nulla. Digrignando i denti per la rabbia quasi si scottò con il mozzicone penzolante della sigaretta.
- Al diavolo! Dov’è, maledizione, quella dannata busta? – strillò continuando a rovistare disperatamente.
Gli capitò tra le mani un fazzolettino in tela bordato di rosa. Joe corrugò le sopracciglia ed, un istante prima di scaraventarlo via, ricordò cosa fosse. Era di Betty, della Signorina Betty. Joe ammise tra sé di non aver scordato quella Betty, quella scioccherella smarrita che lavorava presso il penitenziario di Peabody ai tempi della reclusione dei Dalton. Quella cascata di capelli rossi che ondeggiava ad ogni passo tornava ogni tanto ad agitare il sonno di Joe, accompagnata dal cinguettio quasi irritante della sua voce. Joe sorrise portandosi una mano alla bocca. Con un colpetto inferto alla sigaretta, ne lasciò cadere a terra il mozzicone con cui prima aveva rischiato di scottarsi.
– Betty, Betty… –  disse ridacchiando quasi senza rendersene conto –quell’ ochetta imbranata …
Joe allungò un braccio per afferrare il liquore che teneva all’angolo destro della scrivania. Se ne versò una modesta quantità in un bicchierino tubolare che giaceva accanto alla bottiglia; ne bevve un lungo sorso, allontanando per un istante la sigaretta dalla bocca, e riprese tra le mani quel fazzolettino. L’annusò: il tempo aveva portato via il profumo caratteristico di Betty, sostituendolo con l’impregnante odore di chiuso che caratterizzava la stanza di Joe. Betty fu probabilmente l’unica donna realmente amata da Joe Dalton. Non l’aveva mai dimenticata. Non vi furono donne in grado di cancellare la memoria di quei capelli rossi, nemmeno le numerose prostitute che ampiamente costellarono la vita di Joe Dalton negli anni seguenti alla Grande Evasione – come i quattro fratelli la ricordavano. A quel tempo, dopo la fuga in Messico col ricco bottino, i Dalton avevano deciso di darsi alla soddisfazione di piccoli piaceri personali. Joe, in particolare, aveva sperperato parte della propria somma di denaro per fini non certo nobilissimi. Gli capitò non di rado di passeggiare per le borgate di Tijuana con un sigaro in bocca ed abbandonarsi alle proposte indecenti di  qualche donnetta scosciata alla disperata ricerca di pecunia. Il più delle volte ubriaco, si risvegliava stordito dopo ogni avventura, sdraiato in qualche letto sfasciato o in qualche fossato, talora zuppo di acqua stagnante. Smise di frequentare tali ambienti solo quando notò la comparsa di alcune piaghe sul corpo e temette – erroneamente – si trattasse di sifilide. Generalmente non si faceva scrupolo alcuno a frequentare tante donne, per di più sconosciute, né si curava fossero prostitute, nonostante gli sguardi preoccupati di Jack, William ed Averell gli cadessero addosso come massi carchi di rimprovero. Ma accadeva che, in quei letti cigolanti, in quelle notti misere e sconclusionate, gli tornasse alla mente quella Betty e che per giorni ella rimanesse aggrovigliata tra i suoi pensieri. Joe scosse piano il capo: – sei un povero idiota, Joe.
All’interno del fazzoletto, molti anni prima, Joe aveva inserito una piccolo ritaglio di giornale che ritraeva una furiosa Betty alle spalle di un altrettanto furioso Melvin Peabody dopo la Grande Evasione. Perse qualche secondo a fissarla. Era l’unica foto che possedeva di lei. Ma Joe non era certo un tipo sentimentale. Betty gli veniva in mente e spariva dai suoi pensieri con la stessa velocità con cui egli faceva la conoscenza delle più ambigue donnette di strada e si abbandonava ai fumi dell’alcool. Forse, cercava di mascherare il fatto di sapere perfettamente che Betty fosse innamorata di Averell. D’altra parte, quel fazzoletto l’aveva sottratto a lui, che lo conservava con la cura con cui si conserva un dono d’origine amicale.
Lo sguardo di Joe si fece tetro.
Si versò dell’altro liquore, gettando il fazzoletto e la foto nel cassetto, richiudendolo con uno spintone. Spense poi la sigaretta pressandola impietosamente nel posacenere oramai ricolmo.
All’improvviso, Averell comparve nuovamente sulla porta annunciando a gran voce d’aver trovato i sigari che Joe aveva richiesto. Quest’ultimo sospirò, cercando di estinguere quel raro e vergognoso istante di umanità che aveva osato concedersi e si alzò in piedi. Prese tra le mani nodose la sua vecchia Colt che giaceva inerme nel mare di carte geografiche e scartoffie che col tempo aveva accumulato sopra la scrivania. Quelle scartoffie, non le sapeva nemmeno leggere, si disse mestamente. Si lasciò scivolare la pistola in tasca e si alzò per spegnere il grammofono. Strappò di mano i sigari al fratello che lo osservava in riverente silenzio. Dopo averne estratto uno, si cacciò i rimanenti nel taschino del panciotto, accese un altro fiammifero e lo gettò sulla scrivania. Il cumulo di carta cominciò a prendere fuoco sotto gli occhi attoniti di Averell che si precipitò a prendere dell’acqua. Joe si accese il sigaro servendosi della fiammata che stava divorando la scrivania e, dopo aver bevuto un altro sorso di liquore, sparì dalla porta, con il capo chino, i pugni chiusi e più alcuna voglia di pensare.
   
 
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