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Autore: letitbeatles    07/07/2015    3 recensioni
Rimetto la foto insieme alle altre e ne afferro un'altra. La osservo per un momento e la giro.
Sorrido.“Ecco cosa stavo cercando di ricordare”.
Sul retro della foto c'è una data, scritta frettolosamente e ormai poco leggibile.
6 Luglio 1957.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Lennon, Nuovo personaggio, Paul McCartney
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Oslo, 6 Luglio 2015


Una zanzara ronza vicino al mio orecchio destro insistentemente, il che mi fa svegliare.
Insonnolito, cerco alla cieca l'orologio che ho sul comodino, sentendo il metallo freddo sui polpastrelli della mia mano. Strizzo gli occhi per leggere l'ora: sono le 1:30.
Sbuffo sonoramente. Ho dormito appena un'ora e mezzo e per la mia età non è certo un bene, soprattutto se sono in tour.
Per la mia età? Paul, ma ti senti! Sei ancora un ragazzino!” Mi dico.
Il sonno ormai è scivolato via e so che non servirà a niente continuare a girarmi nel letto, cercando invano una posizione comoda per riaddormentarmi.
Mi metto a sedere sul materasso e guardo distrattamente Nancy che dorme. Perché non potevo continuare a dormire anch'io così beatamente?
Allungo una mano e le accarezzo con delicatezza i lunghi capelli scuri, provocandole un movimento involontario e quasi impercettibile della testa, ma continua ad essere avvolta nel suo sonno, tranquilla.
A quel punto mi alzo dal letto, ancora un po' indolenzito per la serata del 4 Luglio in Danimarca, e mi dirigo verso la cucina dell'appartamento che abbiamo affittato per il concerto di domani.
Poi all'improvviso, non so il perché, sento un grande vuoto dentro di me, che mi avvolge velocemente in ogni parte del mio corpo. Rabbrividisco.
Che cosa può essere? Probabilmente ho fame” cerco di convincermi.
Ma non è quello e lo so bene. So che dovrei ricordarmi qualcosa, qualcosa di importante. Cerco di fare mente locale, ma più ci penso, più la cosa mi sfugge.
Dunque, il compleanno di Stella è il 13 settembre, quello di James è il giorno prima, quello di Mary...” No, non è un compleanno dei miei figli. Che cos'è allora? L'anniversario di un album? Di una canzone?
A volte mi maledico per non ricordarmi mai nessuna data e rimpiango di non avere a portata di mano uno dei miei fan più sfegatati a ricordarmi tutto, anche quello che ho fatto quando avevo due anni.
Quasi inconsciamente mi dirigo verso una delle mie numerose valigie, alla ricerca di qualcosa.
Svuoto la prima, la seconda e solo alla terza riesco ad afferrare quello che cercavo.
Non credo di averlo mai detto a molte persone, ma ho sempre con me una grande scatola dove tengo una miriade di foto sparse, soprattutto polaroid di dubbia data, che colleziono da anni. Ho persino qualche foto ingiallita e molto consumata della mia infanzia, che ho sempre portato con me ovunque io sia andato.
Mi siedo comodamente su una poltrona del salotto e apro la scatola, posizionandomela in grembo.
Faccio scorrere una mano sulle fragili superfici di quei vecchi scatti, che ho avuto più che altro da altre persone e che ho conservato meticolosamente.
La prima che afferro è una mia foto a circa dieci anni, insieme a mio fratello Mike. Proprio qualche giorno fa mi hanno chiesto qual'è il primissimo ricordo della mia vita e io ho parlato proprio del momento in cui è stata scattata quella foto e in cui mi sentivo un po' a disagio. Non ero abituato a posare per un fotografo.
Rimetto la foto insieme alle altre e ne afferro un'altra. La osservo per un momento e la giro.
Sorrido.“Ecco cosa stavo cercando di ricordare”.
Sul retro della foto c'è una data, scritta frettolosamente e ormai poco leggibile.

6 Luglio 1957.

La volto di nuovo e studio l'immagine. Ci sono dei ragazzi su una piattaforma, appoggiata sopra un furgoncino malmesso. I ragazzi in questio ne hanno tra le mani degli strumenti musicali, o almeno, qualcosa che si avvicinava a strumenti musicali. Il mio sguardo è irrimediabilmente catturato dal ragazzino al centro del gruppo skiffle, che è vestito come un perfetto Teddy boy: camicia a quadri infilata in un paio di jeans attillati e in testa un ciuffo ribelle, in stile Elvis. La sua immagine è completata da una piccola chitarra che stringe tra le mani, sostenuta sulle sue spalle con una corda.
Cerco di soffocare con una mano una risata.
Sono passati 58 anni, eppure ricordo ancora alla perfezione quella giornata come se fosse ieri.
Era pomeriggio e un mio amico, Ivan Vaughan, mi trascinò alla festa che aveva organizzato la chiesa St. Peter's Woolton Parish per sentire questo gruppo skiffle in cui occasionalmente suonava e che, sosteneva, fosse molto discreto. Fu lì che conobbi John Lennon.
Chi avrebbe mai pensato che quel semplice incontro sarebbe stato l'inizio di tutto?
Di certo non io.
Se mi immedesimo il più possibile nei miei panni di quindicenne, posso ancora vedermi vestito con una giacca bianca e un piccolo fiore rosa infilato nell'occhiello, e posso ancora chiaramente sentire il forte alito di birra che si espandeva nell'aria ogni volta che John mi rivolgeva la parola, mentre ero seduto al piano e suonavo A Whole Lot Of Shakin' di Jerry Lee Lewis. L'aria della saletta in cui eravamo, insieme al suo gruppo, i Quarrymen, era impregnato di fumo delle loro sigarette accese mentre ero impegnato con la chitarra di John (pensai che mi avrebbe ucciso quando gliela chiesi in prestito per qualche minuto) Twenty Flight Rock e Be-Bop-A-Lula e mostravo a John come accordare la chitarra, che era accordata in un sol di banjo. John era stupito da me anche se cercava di non darlo a vedere, per cui ne fui lusingato.
Rimisi nella scatola anche quella foto e ne pescai un'altra. Quella che ora tenevo in mano l'aveva scattata Mike a casa nostra, mentre io e John eravamo uno di fronte all'altro, con le chitarre in grembo, dandoci dentro con il rock and roll.
John veniva spesso a casa mia e scrivevamo canzoni insieme. Non ci trovavamo spesso a casa di sua zia, che lui affettuosamente aveva sempre chiamato Mimi, perché non sopportava il rumore che facevamo e perché non gli andava a genio che John “perdesse il suo tempo”con la musica invece di impegnarsi a scuola.
La chitarra va bene John, ma non ti darà mai da vivere” John ripeteva spesso quella frase di Mimi e ogni tanto nelle loro frequenti telefonate gliela rinfacciava sorridendo, mentre le nostre canzoni si piazzavano prime in classifica in quasi tutti i Paesi.
L'anno successivo fu quello che ci legò veramente. La mamma di John, Julia, fu investita mentre tornava a casa e in quel momento fui l'unico che fu in grado di confortarlo sul serio e condividere insieme a lui quel dolore straziante, con cui io avevo già avuto a che fare due anni prima, con la morte di mia madre. La cosa che mi colpì più duramente in quel momento, mentre cercavo di confortarlo e abbracciarlo, è che io ebbi modo di dire addio a mia mamma, mentre lui non poté farlo. Julia se n'era andata via così, all'improvviso, sana e piena di vita, riavvicinatasi da poco sia al suo primo figlio, sia alla sorella. Fu la perdita peggiore per John dopo lo zio George. Era cresciuto senza l'affetto dei genitori e adesso che sua madre gli era tornata a far parte della sua vita, in un istante gli veniva riportata via e questa volta per sempre. John cercò in tutti i modi di mascherare la sofferenza agli altri, assumendo un atteggiamento noncurante e fortemente ironico.Con un sospiro, riposo la foto. 
Quella che pesco successivamente è una delle tante che ci facemmo scattare durante la nostra avventura ad Amburgo. Nello scatto osservo un me diciottenne, vestito da capo a piedi di pelle nera (“Dovrei perdere qualche chiletto e vestirmi così, farei un figurone”) e di fronte a me un John Lennon quasi ventenne, vestito esattamente come me. Quel periodo fu memorabile e fu una grande esperienza per la mia tenera età. Nonostante io, John, George, Stuart e Pete dovessimo dormire tutti appiccicati, in condizioni igieniche pessime e ci esibissimo per una somma molto esigua, fu uno dei momenti in cui mi divertii di più in assoluto. Senza genitori in un quartiere a luci rosse tedesco con ragazze e musica a volontà: il sogno di ogni ragazzo inglese.
Credo fu lì che per la prima volta mi resi conto di quanto tenessi a John. Non vedevo spesso Stuart prima, quando frequentava l'accademia d'arte insieme a John a Liverpool, e solo quando entrò nella band, dopo che lui e John affittarono insieme un appartamento, ebbi modo di conoscerlo. Stu era un tipo okay nonostante non sapesse suonare il basso, spesso facendoci rimettere tutto il gruppo.

Stavamo provando un pezzo per la serata. Mentre cercavo di suonare un riff a tempo con George, con John che cantava, avvertii una serie di note sbagliate. Stuart, ovviamente.
Cercai di far finta di nulla e continuai il riff, facendo scorrere velocemente le dita sulle corde della chitarra e facendo attenzione a non sbagliare. Ed ecco di nuovo Stuart fuori tempo, probabilmente premendo note a caso. Feci un respiro profondo e cercai di ignorarlo, ascoltando attentamente George, che stava scuotendo quasi impercettibilmente la testa, altrettanto infastidito. Poi rieccolo un'altra volta, in ritardo rispetto a noi perché non era riuscito a trovare la nota in tempo. A quel punto mi distrasse, facendomi perdere il ritmo e non riuscii più a capire dov'ero rimasto. Mi voltai irritato verso di lui, notando che non aveva neanche un'espressione confusa o preoccupata. George si accorse che mi ero fermato, perdendo a sua volta il ritmo.

Adesso basta!” urlai. Gli altri tre si fermarono.
Stuart, te lo chiedo per piacere, riesci a suonare quel dannato basso senza sbagliare una dannata nota?” cerci di trattenere a stento la rabbia.
Stuart mi guardò sorpreso, limitandosi ad alzare le spalle.

E' tutto quello che hai da dire? Dannazione, fai sbagliare tutti!” pestai un piede per terra per la frustrazione.
Hey, Paul, datti una calmata!” intervenne John, con una mano protesa in avanti, facendomi segno di abbassare il tono.
Alzai gli occhi al cielo e sbuffai “Calmarmi? Calmarmi! Stasera dobbiamo suonare questa canzone e fa ancora maledettamente schifo! Se Stuart si rendesse conto...”
Stuart mi interruppe “Guarda che sono qui, puoi rivolgerti direttamente a me! Ho sbagliato, okay? Migliorerò, purtroppo non sono un genio della musica come te!”
George represse con scarsi risultati una risata, simulando un colpo di tosse.
Stavo per ribattere quando John mi mise una mano su una spalla “Voi due adesso vi calmate e facciamo tutti una pausa. Forza, chiedetevi scusa come fanno i bambini quando si fanno un dispetto.”
Io e Stuart lo fulminammo con lo sguardo, poi ci avvicinammo e ci stringiammo la mano. Mormorai qualche parola di scuse e lui fece lo stesso.

Vieni Stuart, ti aiuto con l'accompagnamento” disse dopo John.
E io alzai per l'ennesima volta gli occhi al cielo.

La cosa che mi dava più fastidio era proprio quello, il fatto che John non lo riprendesse mai, nonostante avesse ben presente la situazione e che sapesse che non era decisamente adatto per la nostra band. Stuart aveva un talento impressionante per l'arte, non per la musica. A John però non importava: Il suo amico era nei Beatles (nome che per altro bisogna accreditare a Stu) e non importava altro. Non posso non ammettere di essere stato più volte geloso di quell'attenzione che rivolgeva a Stuart, preferendo continuare a tenerlo con sé anche se non era il massimo e ignorando la mia opinione. E devo continuare ad essere sincero, ammettendo che, oltre al dispiacere, ero anche felice quando Stuart annunciò, prima del nostro ritorno a Liverpool, che sarebbe rimasto ad Amburgo con Astrid e che avrebbe ripreso gli studi di arte. Aveva fatto la scelta più sensata ed ero sia contento per lui che, infondo, per me. La band sarebbe sicuramente andata meglio e io avrei riavuto il pieno favore di John. Mi dispiacque davvero molto quando l'anno dopo Astrid ci diede la triste notizia che era passato a miglior vita per un'emorragia al cervello. Povero Stu, si meritava una brillante carriera artistica e non di certo quella crudele sorte.

Frugo tra le fotografie e ne tiro fuori una che ho scattato io stesso nel 1961, quando io e John siamo stati a Parigi. Era stata davvero una bella vacanza e mi era piaciuto molto passare del tempo con lui nella capitale della Francia. Io non sapevo neanche una parola in francese, John invece l'aveva studiato un po' a scuola ma si ricordava poco, il che non mi sorprese. Riuscimmo comunque a trovare un posto dove dormire, quindi non andò poi tanto male. La foto l'avevo scattata nella camera in cui alloggiavamo e nella foto c'è John sdraiato in un piccolo letto, con le braccia dietro la testa e gli occhiali.

Dai Paulie, quanto ci metti a scattare una foto?” mi disse John, impaziente.
Mi perdoni Sua Altezza, ma l'obiettivo è duro da girare” dissi, fingendo di essere cordiale.
Lui ridacchiò e aspettò. Dopo qualche secondo il flash della macchina illuminò il suo viso..

Adesso dormiamo” disse John, stiracchiandosi tra le lenzuola.
Io dormo sul divano, dato che ti sei già preso il posto d'onore” dissi io, alzando le sopracciglia.
Be', un po' di spazio c'è, puoi unirti a me” disse John, schiacciandosi contro il muro e liberando un piccolo spazio accanto a lui.
Grazie per l'offerta, ma mi è bastat la sensazione di claustrofobia ad Amburgo. E poi sembreremmo due checche” dissi ridendo.
Va bene, dormi sul divano allora, amore” mi disse, appoggiando i dorsi delle mani sotto il mento e sbattendo velocemente le sopracciglia. Scoppiai a ridere e poi gli dissi: “Buonanotte, Brigitte”.

La notte non riuscii a dormire, ancora emozionato di trovarmi a Parigi, così presi la macchina fotografica con un sorriso furbo, per fare una foto a John mentre dormiva, , per vendicarmi di quando poco prima mi aveva scattato una foto mentre leggevo il giornale in bagno con un buffo cappello sulla testa. La foto che scattai però, che prendo in mano in quel momento, non era buffa e imbarazzante come mi aspettavo, anzi, John sembrava un angioletto mentre dormiva. Fissai la foto sorridendo e pensai che avrei potuto comunque prenderlo in giro la mattina dopo perché sembrava un tenero bambino. Lo osservai per un istante, guardando il suo corpo che sotto le lenzuola si alzava e abbassava regolarmente, poi dopo poco tornai sul divano e mi addormentai con un sorriso.
A Parigi indossò sempre gli occhiali, dato che c'ero solo io e non gli interessava del suo stile da Teddy boy rovinato. Infatti ricordo che mi disse “Ti vedo bene oggi”, ma non nel senso che sembrassi più in forma o più bello del solito, ma semplicemente perché mi vedeva più nitido.
Rido di gusto a quel ricordo, tenendo una mano davanti alla bocca per soffocare il rumore e per non svegliare Nancy, che sta ancora dormendo.
La polaroid che prendo in mano adesso è quella di una nostra esibizione al Cavern. Quanto ci è voluto per arrivare là dentro! E' stato uno dei nostri primissimi sogni andare a suonarci, io e John lo ripetevamo spesso mentre scrivevamo canzoni, pensando che un giorno le avremmo suonate dentro a quel locale, che è sempre stato l'icona della musica a Liverpool. All'inizio non ci accettavano perché eravamo un gruppo rock and roll, mentre loro volevano il jazz.
Ora di fronte all'entrata c'è una statua di John.

Ho una serie di flash delle esibizioni là dentro, per esempio ho in testa questo ricordo vivido di John che mi sorride mentre suoniamo, un sorriso pieno di gioia che solo al pensiero mi riempe il cuore. Ricordo esattamente il momento in cui annunciarono che tra il pubblico c'era Brian Epstein, un uomo che aveva un prestigioso negozio di dischi. Brian rimase così tanto colpito da noi, soprattutto da John, che volle diventare a tutti i costi il nostro manager e noi accettammo di buon grado, sapendo della sua ampia rete di contatti che ci portarono poi a Londra.
Mi viene da ridere al ricordo di quel discografico della Decca Records, Mike Smith, che ci rifiutò. Non aveva tutti i torti per farlo, perché abbastanza schifo, dato che avevamo passato la notte prima in bianco ed eravamo stanchi per il viaggio. Quando ci disse che preferiva mettere sotto contratto un altro gruppo, John mi guardò esterrefatto e poi si avvicinò a Smith, dicendogli “Quando diventerò ricco e famoso, mi verrà a lucidare le scarpe”.
Ridacchiando, afferro una nuova foto, questa volta una del servizio fotografico del nostro primo album, Please Please Me. I nostri capelli non erano più raccolti con strati di gel in un ciuffo, ma iniziavano ormai ad allungare sulle nostre fronti compostamente. Sorrido alla vista di Ringo, che ormai aveva sostituito Pete da tempo. Quando George Martin, che divenne il nostro produttore, ci consigliò un singolo del nostro disco, scritto per noi da altri autori, io e John ci consultammo per un momento. Non a voce, no, non ce n'era bisogno. Bastò un'occhiata e chiedemmo invece che il singolo fosse Love Me Do, uno dei primi pezzi che avevamo scritto a casa mia.

Love, love me do,
You know i love you,
I'll always be true,
so, pleaseee... e poi da qui tu dici 'Love me do' e canti il ritornello, okay
?”
Perché proprio io?”
Non lo so, serve un vero motivo?Mi disse John sollevando le sopracciglia, mentre stavamo annotando le parole, seduti sul mio letto.

Scambio la foto con un'altra, che è dell'anno dopo, mentre eravamo sul set di A Hard Day's Night, e notando che la fotografia successiva è del '65 sul set di Help!, prendo in mano anche quella e le osservo. Nella prima siamo su un treno, recitando una delle prime scene, mentre nella seconda siamo alle Bahamas, suonando sulla spiaggia. Osservo attentamente i nostri volti e noto che in entrambi gli scatti John mi sta fissando, il che mi fa sorridere. Sembra una cosa veramente stupida da dire, ma mi piaceva quando mi guardava, mi sentivo protetto. Okay, detta così la cosa può essere fraintesa, non intendo in quel senso. E' solo che a volte, quando ci guardavamo negli occhi, mi sembrava di potere capire all'istante quello che stava pensando, o lo stato d'animo in cui si trovava. Riuscivo a leggere John. Quel contatto visivo mi infondeva sicurezza e felicità e mentre cantavamo e suonavamo, il tempo era come se si arrestasse per un momento mentre io guardavo dentro John e John guardava dentro me. Ho passato così tanto tempo con lui che era un fatto inevitabile conoscersi e comprendersi alla perfezione. Ho passato sicuramente più tempo io con John in quegli anni di quello che ha passato lui con Cynthia.

Riposo le due fotografie e ne pesco altre di quegli anni. L'ultimo nostro concerto, che si tenne allo Shea Stadium, il nostro primo viaggio in India, le riprese del Magical Mistery Tour. Osservo John tutto camuffato in una delle scene che abbiamo girato e mi viene da ridere vedendolo con la barba, i capelli lunghi e gli occhiali, quasi fosse stata una premonizione degli anni successivi. Mentre penso quello, mi appare, nello scatto successivo che prendo in mano, il momento in cui ci stavamo preparando per la famosa traversata in fila indiana sulle strisce di Abbey Road. Dissero che dato che ero scalzo, ero morto. Continuo a non vedere il collegamento tra le due cose.
L'anno prima, io e John lanciammo la nostra nuova società di produzione che divenne la Apple, con il simbolo di una mela verde. Fu lui a scegliere il nome e il simbolo, ma sapevo che, nonostante la stessimo lanciando a New York, la grande mela, non aveva niente a che fare con quello. L'ispirazione gli venne dalla prima “opera” in esposizione che vide di Yoko, che aveva conosciuto nel '66. Non ebbi niente da ridire, ma sapevo che quello era l'inizio del più grande amore della vita di John e di nuovo, non posso non ammettere che la cosa un po' mi irritò, anzi, mi irritò parecchio. Io e John avevamo sempre fatto tutto insieme e difficilmente avevamo passato un lungo periodo senza vederci, impegnati in sala registrazione, in concerti o in interviste. Invece, soprattutto da quel momento, incominciò a passare tutto il tempo libero che aveva a disposizione con lei, per cui non ci vedevamo mai molto, oltre agli “impegni di lavoro”. Poi John fu completamente perso di lei, lasciò Cynthia e Julian e, dopo che anche Yoko ebbe divorziato dal suo precedente marito, si sposarono. Ricordo che in quel periodo avevo appena inciso “Oh Darling”. John mi fece i complimenti per la canzone, cosa che negli ultimi tempi non faceva, anzi, spesso ammetteva esplicitamente che non gli piaceva quello che scrivevo, e quel 'Non piacere' era spesso sostituito da un 'Fa schifo'. Ci rimasi abbastanza male quando cambiò delle parole e la cantò in pubblico, per annunciare che l'avvocato aveva dato il via libero a Yoko per sposarsi.
Yoko lo condizionò parecchio con le campagne pacifiste e nacquero in questo modo le così dette Bed-In, che tenne con lei in diverse città durante loro luna di miele.
Ovviamente la colpa per cui incominciarono i conflitti tra noi quattro non fu certo di lei, ma non posso escludere che a volte, mentre eravamo in sala registrazione, avrei preferito che ci fossimo stati solo noi quattro, come al solito. Con lei sempre di fianco a John era come se l'intimità del nostro rapporto fosse stato intaccata. E la tensione si poteva respirare nell'aria.
George in particolare non la sopportava.

Anche quella giornata di registrazione era finita. Mi alzai dallo sgabello del piano e dopo aver salutato tutti, uscii dalla porta, strofinandomi gli occhi stanchi con le dita. Poi, subito dopo, sentii qualcuno afferrarmi con forza per il braccio e voltarmi. Mi trovai davanti un George parecchio incavolato, che cercava di respirare con calma.
Se quella cosa si risiede sulle mie casse, giuro che la uccido!”

Infondo anche le nostre mogli venivano a trovarci in sala per un breve periodo, ma non sarebbero mai e poi mai entrate in sala di registrazione mentre suonavamo, sedute vicino a noi. Ma come ho già detto è anche sbagliato dare la colpa interamente a Yoko, c'erano molte altre cause che ci stavano dividendo e che avevano a che fare con noi personalmente.
Ed eccoci a una fotografia del nostro ultimo periodo di scarafaggi. Ci sono io con una barba folta in sala registrazione, seduto al piano con mia figlia Heather, che avevo appena adottato.
Ripenso con tristezza a quei mesi, veramente molto pesanti per me, mentre cercavo di fare da collante tra me, George, Ringo e John. Sapevo perfettamente che il nostro legame come gruppo si stava sgretolando alla velocità della luce, pezzo dopo pezzo, ma non volevo mollare. Ero veramente testardo, me ne rendo conto solo ora. Quell'impresa si rivelò presto impossibile. Era come cercare di afferrare l'aria a mani nude. Ogni giorno ognuno di noi si allontanava di un passo, dopo ogni litigio e incomprensione, facendone un altro avanti per un'altra strada. Era come trovarsi alla foce di un fiume, che si diramava in cento direzioni differenti.
Lanciai il progetto Get Back, che poi divenne l'album Let It Be. La canzone omonima che scrissi, fu l'evidente mia presa di coscienza sulla realtà dei fatti e che ormai i Beatles erano arrivati al capolinea. Una notte in sogno mi apparve mia madre Mary. Era proprio come me la ricordavo, nei minimi particolari: capelli scuri, occhi grandi e dolci e un sorriso luminoso. Sentii fisicamente la sua presenza vicino a me. Nel sogno mi accarezzò delicatamente una guancia e poi mi strinse una mano nelle sue. Mi guardò con orgoglio e solo ripensandoci mi accorgo di avere gli occhi lucidi. Non mi disse niente però, solo quelle tre parole: “lascia che sia”. E così seguii il suo consiglio, nonostante facesse male, molto male.
Mi godei a pieno l'ultima nostra esibizione sulla terrazza del tetto della Apple, gli ultimi momenti di allegria con gli altri tre, nonostante le ormai quotidiane discussioni, e l'anno dopo, con la pubblicazione del nostro ultimo album, annunciai a tutto il mondo il nostro effettivo scioglimento.
Il periodo che seguì dopo è sfuocato.
Ricordo di aver passato i primi mesi a piangere e non mi vergogno di ammetterlo. Ero veramente giù di morale. Era come se una parte del mio mondo fosse scomparsa per sempre, come se un frammento del mio cuore si fosse staccato, e io mi sentivo perso e vulnerabile. L'unica mia ancora di salvezza fu mia moglie Linda. Credo che senza di lei non ce l'avrei mai fatta.
I primi anni degli anni '70 futono un brutto periodo, sia per me che per John. Ci attaccavamo spesso, ma mai esplicitamente, certo che no, ma attraverso le canzoni che scrivevamo: la musica feriva più di semplici parole, perché era stata quella ad unirci. Invece adesso la usavamo come un'arma, che ad ogni colpo che ci lanciava, ci fiaccava e ci allontanava sempre di più. Io mi sentivo profondamente tradito. Per tutti quegli anni John era stata la persona sempre al mio fianco, con cui ho condiviso il dolore e a cui ho confessato il più segreto dei segreti, affidandomi interamente a lui. E invece adesso aveva abbandonato la sua più grande fortuna, aveva mollato il nostro gruppo a cui avevamo dedicato parti delle nostre vite, scrivendo canzoni. Adesso, che ci trovavamo in quella situazione, per lui era un gioco da ragazzi ferirmi, sapeva esattamente dove colpirmi. E così feci anche io.
Chiudo gli occhi per un momento e sospiro a quei ricordi dolorosi. Afferro altre foto, che ritraggono me e la mia famiglia e mi sento subito meglio.
Poi, in fondo alla scatola trovo una foto, che pensavo di aver perso e che non ho mai mostrato a nessuno.
E' del 1976. Nella foto ci siamo io e John che ci stringiamo affettuosamente per le spalle, con dei grandi sorrisi. Non posso non sorridere di rimando alla foto, accarezzandola con un pollice.
Quando John si ritirò dalla musica per dedicarsi a tempo pieno a suo figlio Sean, riprendemmo i contatti.

Dopo aver saputo la notizia del suo ritiro, mi diressi al telefono e strinsi per degli istanti infiniti la cornetta. Ero combattuto sul da farsi, era da molto tempo che non sentivo e non vedevo John. Presi un grosso respiro e composi il numero.
Il telefono squillò per un momento prima che la cornetta dall'altra parte fosse tirata su.

Pronto?” Sentii la voce inconfondibile di John e per un momento non seppi cosa dire.
Pronto?!” ripeté di nuovo, così mi scossi dal mio dubbio e presi la parola.
Ciao, John” dissi, quasi mormorando.
Seguì un breve silenzio dall'altro capo della chiamata.

Paul” asserì poi John, con un tono strano, quasi fosse sorpreso. Potevo avvertire chiaramente la tensione e l'imbarazzo tra noi, cosa che non c'era mai stata prima.
Ho sentito adesso che hai deciso di ritirarti temporaneamente dalla musica” buttai lì.
Già, voglio stare con Sean, non voglio perdermi un momento. Non commetterò lo stesso sbaglio”. Disse, abbassando leggermente la voce quando pronunciò l'ultima frase.
Hai fatto bene, sono felice per la decisione che hai preso” dissi, sorridendo. Ero davvero contento che in quel momento John fosse molto più preparato ad essere un vero padre, cosa che con Julian non aveva neanche avuto il tempo di provare.
Come sta?” gli chiesi dolcemente.
Molto bene, adesso sta dormendo. Linda? I ragazzi?”
Oh, tutto bene, grazie...” presi un grosso respiro e continuai a parlare.
Senti, io volevo scusarmi...” ma John mi interruppe.
No, Paul. Non devi scusarti. Siamo degli idioti, ma infondo lo siamo sempre stati, no?”
Ridacchiai “Da quando ci conosciamo” confermai. Sentii ridacchiare pure lui e in quel momento mi sentii sollevato, talmente sollevato che avrei potuto uscire dalla finestra e spiccare il volo.
Sentii un suono ovattato nell'altra linea. Sembrava un pianto di un bambino. John sospirò e poi mi disse:

Scusami Paulie, ma devo andare adesso” disse con tono un po' dispiaciuto.
Tranquillo, Sean aspetta il suo papino” lui ridacchiò.
Ci sentiamo presto, va bene?” dissi poi, speranzoso.
Sì, a presto, principessa”. Non mi aspettavo che avrebbe usato il vecchio soprannome che mi dava e scoppiai a ridere, sentendomi meno rigido e meno vuoto.

Da quel momento ci sentimmo spesso e parlavamo per diverso tempo. Parlavamo per la maggior parte dei nostri figli, di com'era stata la giornata, del tempo, dei gatti, che lui profondamente amava, subito dopo Sean e Yoko. Erano conversazioni banali, ma io ero dannatamente felice, e ogni volta che squillava il telefono correvo a perdi fiato per afferrare la cornetta e quando sentivo che era John mi calmavo e non smettevo di sorridere finché non riattaccavo.
Qualche volta poi, quando passavo a New York, lo passavo a salutare e nel 1976 appunto, decisi di prendermi più tempo del solito, dato che era da quasi un anno che non lo vedevo di persona e andai a trovarlo a casa sua. Yoko e Sean erano fuori per tutta la giornata e sarebbero tornati il giorno dopo, il che lo rendeva nervoso. Non sopportava di stare lontano dalla sua famiglia, ma era molto stanco e aveva deciso di rimanere nella loro casa per riposare. Passammo delle ore piacevoli a parlare e a suonare il meraviglioso piano bianco che aveva nel grande salotto, dello stesso colore. Suonammo dei brevi pezzi di canzoni che ascoltavamo alla fine degli anni '50 e ridemmo molto, bevendo birra e raccontandoci i fatti più divertenti che ci erano successi quando eravamo insieme.
La giornata passò velocemente e divenne notte.

Eravamo seduti sul divano a guardare la tv, troppo stanchi e un po' brilli per fare altro.
Eravamo entrambi in uno stato di dormiveglia, quando captai la parola “Beatles” in tv. Sbattei più volte gli occhi per mettere a fuoco la tv. Era il Saturday Night Live e il presentatore, Lorne Michaels, stava chiedendo ai Beatles di venire a suonare nel suo programma.
Diedi un colpo a John per destarlo dal dormiveglia e scattò subito su.

Ch-che succede?” mi chiese, con la voce impastata dal sonno, guardandosi velocemente intorno.
Ci hanno appena nominato in tv, Lorne Michaels ci ha appena invitato nel suo programma.”
John sollevò le sopracciglia.

Potremmo sentire George e Ringo” proposi.
Il Saturday Night Live è qui dietro casa mia” confesso. Il mio viso si illuminò.
Perché non ci andiamo ora?” azzardò poi. Era difficile stabilire se stesse parlando lui o l'alcol che aveva in corpo.
Ora?” chiesi stupefatto.
Sì, gli facciamo una sorpresa”. Ci guardammo per un secondo negli occhi, poi sui nostri visi spuntò un ghigno.
Ci alzammo all'improvviso dal divano.

Vado a prendere la chitarra in camera”.
Vado a prendere il basso in macchina”.
John mi guardò confuso. “Ti sei portato il basso in macchina?”

Certo, non si sa mai” dissi, facendogli un occhiolino.
Lui rise a crepapelle e nel frattempo io corsi giù, dopo aver aspettato impazientemente che l'ascensore arrivasse al piano terra. Mi lanciai fuori e aprii la macchina, dopo aver sbagliato per svariate volte la mira per inserire le chiavi nella fessura del bagagliaio. Afferrai la custodia del mio fedele H
öfner e corsi nuovamente nel palazzo. Aspettai che l'ascensore raggiungesse il piano di John e poi mi precipitai barcollando dentro il suo appartamento.
John?” lo chiamai ridacchiando e con il fiatone. Mi appoggiai alla parete della grande sala, che era vuota. Tenendo la mano sulla parete raggiunsi camera sua, ma non vidi nessuno. Poi però facendo attenzione scorsi una massa di capelli ramati, appena visibile dal bordo del letto. Feci il giro del letto e lo trovai seduto a gambe incrociate per terra, con in grembo un telefono, che parlava a bassa voce con la cornetta appoggiata a un orecchio, con un tono di voce così dolce che non potei che sorridere.
Non piangere, piccolo Sean, domani torni a casa con la mamma e darai un grosso abbraccio a papà” stava dicendo.
Non si accorse nemmeno che ero lì, preso così tanto a rassicurare il proprio bambino a cui mancava. Staccai lo sguardo da John per osservare la custodia del mio basso e riflettei su quello che stavamo pensando di fare prima.
Che sciocchi.
Pensavamo davvero di presentarci a sorpresa a quell'ora in un programma televisivo mezzi ubriachi e impreparati?
Scossi la testa, sorridendo. Poi mi avvicinai a John, toccandogli delicatamente la spalla. Lui si voltò e guardò in su, verso il mio viso. Con le labbra mormorò uno 'scusa' e io gli sorrisi, facendogli segno di non preoccuparsi. Si alzò in piedi e mentre continuava a parlare al telefono con Sean, mi cinse le spalle con un braccio e mi strinse a sé. Fui stupito da quel gesto.
Quanti anni erano passati da quando ci eravamo abbracciati l'ultima volta?
Ricambiai l'abbraccio e avvolsi intorno al suo collo le braccia. Rimanemmo per qualche minuto così, mentre sentivo Sean che stava ancor singhiozzando per il padre. Poi sciolsi l'abbraccio e ci fissammo. Ci comunicammo tutto quello che volevamo dirci così, con uno sguardo. Non credo lo dimenticherò mai. Poi uscii dal suo appartamento. Chissà quando l'avrei visto, mi chiesi.

Fu l'ultima volta che ci incontrammo di persona. Nei quattro anni successivi continuammo a chiamarci costantemente e ad avere le solite conversazioni piacevoli.
L'ultima chiamata che ci facemmo, fu qualche settimana prima che quel mostro lo strappasse dal mondo. Era da un po' che non chiamavo John e ricordo che mi rispose Yoko, perché al momento era occupato e disse che mi avrebbe richiamato lui più tardi. Come promesso, circa un'ora dopo mi richiamò e parlammo delle solite cose, tenendoci aggiornati. Alla fine della conversazione, che probabilmente finì con il parlare dei suoi gatti o di Sean, mi disse delle parole che non scorderò mai.

Pensa a me adesso e in futuro, mio caro, vecchio amico”.

E' strano che quelle furono davvero le sue ultime parole, sembravano quasi una premonizione. Ma lui non poteva saperlo.
Poi Yoko più tardi mi richiamò e mi disse “Senti, lui ti ha amato davvero”.

Preferisco non ricordare vividamente il momento in cui morì, mi distrugge troppo. Ricevetti una chiamata il giorno dopo e mi annunciarono che gli avevano sparato. Sentii il mondo crollare. Non riuscivo a realizzare quello che era successo. John era morto? Come poteva essere possibile?
Piansi molto ma cercai di riprendermi il più velocemente possibile. Non volevo dimostrarmi debole di fronte ai paparazzi, che erano lì fuori ad aspettarmi. Quando uscii dall'appartamento in cui mi trovavo la sera dopo la morte di John, incominciarono a tartassarmi di domande. Io dissi solo che era un duro colpo per me e qualche altra parola del genere, poi salii velocemente su un taxi che mi stava aspettando. Fissai la notte fuori dal finestrino. Non c'era vista più adatta che potesse descrivere come mi sentivo in quel momento. Il buio. Lacrime prepotenti mi rigarono le guance. Ero troppo amareggiato per quello che era successo. E pensare che quella specie di uomo che l'ha ucciso è diventato famoso. E' conosciuto in tutto il mondo adesso.
Scuoto la testa e respiro profondamente, cercando di mantenere la calma.

Un anno dopo, a casa mia e di Linda venne a trovarci il grande Carl Perkins, di cui io, John, George e Ringo eravamo grandi fan da ragazzi, per aiutarmi con una delle canzoni che stavo scrivendo per il mio nuovo album, Tug of War.
Trascorse da noi qualche giorno e parlammo a lungo, soprattutto di John. Fui veramente lieto della sua presenza. L'ultima sera del suo alloggio da noi, gli venne l'ispirazione per una canzone, che poi chiamò “My Old Friend”. La mattina dopo quando ce la cantò, rimasi veramente colpito dalle sue parole, tanto che dovetti uscire perché ero scoppiato a piangere. Ero rimasto sconvolto perché nel testo della canzone dice quasi esattamente le ultime parole che mi disse John e non riesco ancora a capacitarmene di come sia stato possibile. Lui mi disse che l'aveva scritta per me e per Linda e che non ne aveva idea. Disse che mentre scriveva il testo era stato come se avesse sentito John, come se le parole gliele avesse suggerite lui in qualche modo. Quando succedono queste cose curiose, è impossibile darsi una risposta.
Carl mi diede l'ispirazione e per lo stesso album decisi di scrivere 'Here Today', una conversazione verosimile che avremmo potuto avere io e John. Mentre la scrivevo pensai attentamente alle parole che mi avrebbe potuto dire se fosse stato lì .
Se gli avessi detto che lo conoscevo bene, avrebbe sicuramente riso, dicendomi che eravamo mondi a parte. Scrissi di quella notte in cui piangemmo e aprimmo la nostra parte più vulnerabile l'uno all'altro. Scrissi dei primi anni della nostra amicizia, in cui non capivamo molto di musica, ma suonavamo e cantavamo comunque. Quello era soprattutto il suo talento, infatti anche quando si esibì alla festa di quella chiesa, quel sei luglio, aveva praticamente inventato tutte le parole perché non riusciva a ricordarle. Non importava cosa succedesse, lui era sempre lì, a rivolgermi un sorriso rassicurante.

Lui è stato il mio migliore amico. Lui è il mio migliore amico. Non ho mai incontrato una persona in tutti questi anni che potesse lontanamente avvicinarsi a lui. John rimarrà sempre la mia dolce metà. Il mio soulmate. Così diverso da me eppure così simile.
E l'ho amato, sì, l'ho amato così tanto che avrei potuto baciarlo.
Non ho mai esposto me a qualcuno più di lui, a parte la mia famiglia.
Lui mi è sempre vicino, come lo è mia madre, come lo è mio padre, come lo è Linda. E so, che tra non molti anni, spero il più tardi possibile, lo rivedrò e starò con lui. Per sempre.

“Paul, che stai facendo? Torna a letto!” La voce di mia moglie mi fa sobbalzare, ridestandomi dai miei pensieri. “Niente amore, torno subito” le dico con un sorriso. Mentre torna in camera, io chiudo con delicatezza la scatola, come se si stesse per rompere da un momento all'altro. Quella scatola è davvero preziosa e so che, quando vorrò, basterà aprirla come sempre e rivivere i momenti più belli ma anche più tristi della mia vita. La rimisi con cura nella valigia e sospirai.
Mi alzai e mi avvicinai alla finestra, scrutando il cielo costellato di stelle.
Una lacrima esce da un mio occhio, incorniciato da profonde rughe, e scorre lungo la mia guancia.

Buon anniversario John, ovunque tu sia. Grazie.



Buonasera a tutti,
sono riapparsa con una os (non molto breve) per l'anniversario dell'incontro tra John e Paul. Quasi tutto è vero, ci sono alcune conversazioni o particolari che ho inventato o che ho preso da alcuni film, come la descrizione dell'ultimo incontro tra John e Paul che ho un po' ripreso dal film Two Of Us. Le ultime parole di John, il fatto che Yoko lo abbia richiamato e i gatti nelle loro conversazioni sono fatti veri, come molti altri che ho inserito e che spesso ho tratto da interviste che ho visto. Alla fine ho inserito 'soulmate' perché è la parola giusta per descrivere il loro rapporto. John non era un semplice amico, per cui ho inserito la parola, che non ha un vero corrispondente in italiano, ma è che la parola perfetta.
Non è niente di particolare, ma spero che vi sia piaciuta almeno un po'. Se volete farmi sapere cos ne pensate, che siano complimenti o critiche, fatemelo sapere.
Happy Mclennon Day!

-letitbealest

  
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