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Autore: Blacket    07/07/2015    8 recensioni
[...]Rompendo la monotonia del chiacchiericcio provinciale, un ragazzo bruno si fece avanti- nella sua acuta provocazione, i suoi gesti ed il suo fare chiedevano luce ed attenzioni. Era sicurezza e genuina gloria quella di cui si vestiva, e nel suo passo fluido si ricalcava il superiore condottiero.
Fu vicino ad Ariovisto, ed il suo fiato sapeva d’oro.
-Visto da lontano, somigliavi ad una donna.- scherno, mostrò i denti felini con un sorriso accomodante, lo scrutò da sotto i ricci scuri- mostrandosi poi incredibilmente padrone delle proprie parole, sfiorò incauto i suoi capelli biondi. [...]
|Audace AU in un minestrone di antichi. OC!Gallia, OC!Aestii, OC!Scandinavia, OC!Celt, OC!Britannia|AU- start 1755, Torino|
Genere: Generale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Altri, Antica Grecia, Antica Roma, Germania Magna
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Tempo antico otto Note: Finalmente son tornata! Spero di poter aggiornare presto questa fanfic, a cui in verità sono molto legata- ringrazio immensamente voi lettori che mi date sostegno e idee sempre gradite, siete la mia benzina!
Un paio di precisazioni riguardo al capitolo:
-Ho inventato di sana pianta la via e il luogo in cui risiede uno dei luoghi citati, mea culpa! Nel caso qualche torinese leggesse, non me ne voglia male.
-La bicicletta nel 1758 non è ancora stata inventata. Ciò di cui parla Lucio, è però un prototipo abbastanza strano- ne giravano alcuni abbastanza bizzarri in europa, al tempo.
-La storia è situata due anni dopo il capitolo precedente. In fondo al capitolo inserirò un elenco di nomi e età, giusto per non far perdere il lettore.
Vi ringrazio ancora per la pazienza, spero il capitolo possa piacere! Buona lettura :)





"Ho in mente quella grande e vecchia quercia, e ne ho rammarico, in verità. Sarebbe bello rivederne i colori, sebbene i miei occhi siano troppo stanchi e vecchi per poterla apprezzare come facevi tu- o sbaglio?" -Lucio, ad un amico.





Giugno 1758, appartamenti di Lucio, ora quinta

Sapeva di miele e pane, delle lussureggianti colline morbide di muschi mediterranei- in lei v’era il tiepido vapore del mare, i flutti giocosi ad adombrare le spalle brune, l’odore di donna dalla voce d’un guerriero tonante.
Olympia raccoglieva l’oro dal cielo, dalla luce e dalla bruma estiva, lo posava sugli abiti tanto leggeri che davano dispiacere e singulto e solo sapevano invitare l’immaginazione a fare del suo corpo una morbida statua d’abbracciare; e ciò nonostante il cipiglio irsuto d’un rammarico, un problema che vagava fra le gote sorridenti e le palpebre stanche di ragionare di alte cose con asini cocciuti e imprevedibili, famelici come le belve delle foreste.
- Morad aspetta di vederti cadere, Lucio.-
Ed il sole entrò con un sussurro, nell’indiscrezione rosea dell’alba che già andava ad importunare il cielo placido e vivo- e così fece una risata vorace e piena, giovane ed antica come il mondo, dura perché sgattaiolata fuori dalle labbra di un uomo che già da tempo aveva abbandonato le spoglie di un ragazzino.
Lucio aveva vent’anni, era bello ed era forte, era pragmatico e sorridente ed era duro e dolce come i datteri di cui si sporcava le mani grezze. Olympia lo sentì vicino, ad ingarbugliarsi le gambe con le coperte, a cercare la fenditura che avrebbe permesso alla sua mano bollente di raggiungere i seni di lei, coperti solo da caldo e aria secca.
-Quando verrà sarò pronto.- dita calde sui fianchi, bollenti, andarono a viziare la pelle profumata con un’insistenza che nascondeva solo voglie, - Non ho paura, lo sai.-
Le mani si mossero in placide carezze, e a seguire tutta la mole di Lucio andò incontro alle forme sinuose della sua Dea, sfiorate dai raggi nascenti e dall’odore prorompente del grano maturo che sulle sue labbra diveniva il miele delle regine- morbido e sfuggente, da saggiare con prepotenza.
Questa volta fu lei a ridere, e Lucio avvertì gli spasimi sprezzanti dal suo ventre, dove i polpastrelli iniziavano a bruciar le resistenze della bella greca, girovagando cheti e predatori sull’ombelico. Il lupo sorrideva sornione, le labbra distese e gli occhi pieni d’aspettativa feroce, ma ora buoni e docili se accarezzati dai ricci bruni- non vi era altro che sicurezza e sensuale compiacimento nei suoi gesti, che potevano solo esser fuoco e passione ridente se fra le sue mani aveva i fianchi morbidi di una donna.
- Dei, quel tipo non vuole solo umiliarti!, e non sei tanto sciocco da non averlo notato.- sospirò poi, frustrata di non essere ascoltata: il verbo era potente ed era primo e ultimo, ed il romano ne ignorava l’importanza con gesti frivoli delle mani ed un sorriso- e quella mattina lo fece con le sua labbra, posandole sul petto di lei ed accompagnando il suo muoversi con una carezza.
Lucio era bollente e pareva esser fatto di fuoco e lava, energia pura a librarsi sotto la pelle bronzea, attorno al sorriso trionfante- sapeva d’oro e delle colline romane, sapeva di vino e polvere, e nulla sarebbe stato più splendente poiché si ergeva sull’assoluta convinzione di stringere fra le fauci la vittoria.
Un trionfo che marcia su sussurri voluttuosi che conoscono solo parole di vergogna e lussuria, e che son rauchi e caldi sulla pelle di Olympia, ora che il Lupo la intrappola nella sua rete di braccia e mani, si strofina nudo su di lei e volutamente la provoca con malizia; “le donne parlano e creano dispiaceri”, il romano mugugna, poiché vorrebbe sentire solo il proprio nome decorato di ansiti coraggiosamente mal trattenuti, magari un risolino frivolo e leggero ad increspare l’aria.
-Chi ti guarderà le spalle, Lucio? Ariovisto non è più sotto il tuo comando, da…mesi, oramai-..-
Venne interrotto un sospiro, provocato dai ricci scuri di lui sul collo, sui seni morbidi, sul ventre. La donna rivide il volto del giovane tedesco farsi più duro con gli anni, rimanere diafano e imprendibile quanto selvaggio e accartocciato in un grugno d’insofferenza.
- Ariovisto è un bell’uomo.-
“Stupido, sciocco!- sciocco d’un romano”, abituato a vedere il proprio ego dominare la negatività degli occhi altrui, che ignorava parole tanto vere quanto sgradite e che addirittura non si vogliono sentire. Lucio viaggiava col vento e brama di vedere lontano, la disgrazia lo toccava ma non arriva a ferirlo, la sfortuna cercava di pestare i suoi piedi inutilmente: forse era proprio quella sua esagerata confidenza nella propria determinazione a renderlo tanto forte.
Eppure Olympia ricordò con un sorriso i fiori che Lucio le regalava –non mancava di rose rosse, di tenere margherite, dell’odore pieno e dolce del glicine che le intrecciava fra i capelli-, ricordò i suoi gesti semplici e curiosi, il modo in cui accarezzava il grano quando insisteva per portarla nelle bionde campagne a farsi baciare dal sole.
Osservò le mani del cadetto strette sui fianchi, gli occhi felini puntati su di lei, la lingua impudica a giocare col suo ombelico.
Fremette e gli sorrise, perché nulla del genere poteva essere nascosto ad un condottiero simile, che stava ancora cercando il proprio stendardo e la propria vittoria, sicuro già d’averla. Non v’era più resistenza, remore, parole indesiderate o dubbio. Il romano la guidava sapendo di averne il permesso, felice di oscurare il volto contratto del persiano dal suo immaginario.
- Ma è così giovane.- Olympia si distese sorniona come i suoi gatti dalle zampe chiare, stringendo le cosce attorno all’intruso che la pizzicava prima ancora che il sole si svegliasse con prontezza, -Ariovisto è così giovane, con quei suoi diciassette anni…-
Non sentì Lucio sorridere, ma le labbra si distesero sulla sua pelle.
-Ed è un uomo.-
Non avrebbe avuto tempo nemmeno per ribattere, perché il Lupo si faceva insistente e il pensiero di doverlo fermare le stringeva il cuore. Rimangiò la propria preoccupazione in un ansito, perché era donna e forte e audace, e un avviso era tutto ciò che della sua mente poteva ancora donare.
Le sarebbe piaciuto potersi dire infastidita, far si che il suo sguardo fosse duro e saggio, ma le mani di Lucio parevano ancora più risentite di lei; cercavano le sue forme, straziavano le curve, s’insinuavano fra le sue ombre in modo sfacciato ed eccitante. La smussavano come l’artista fa sulla scultura, le dita premevano sui nervi rilassati e venivano seguiti dai mugugni profondi che Lucio lasciava scivolare, come a dirle di non parlare più, che non v’era bisogno o necessità di farlo.
Il romano si espresse con estrema chiarezza bruciando le sue labbra con le proprie, che erano felici e sapevano dove muoversi, saggiavano sapori dolci e intrappolavano ansiti- così naturalmente, che pareva essere solito ad assuefarsi di quei baci da tutta una vita.
Eppure nel fronteggiarsi con la verità più pericolosa, Olympia realizzò diverse volte, dopo e prima dei loro amplessi, che se il soldato ben conosceva la sensibilità della sua pelle altrettanto bene si era fatto spazio con forza ed un sorriso fra i suoi pensieri.
Lucio conosceva la sua mente e la osservava come avrebbe fatto ammirando le statue della sua patria, e ciò la faceva sentire irata e spoglia della sua privata interiorità.
“Anche se”, e la greca lo pensò schiudendo le labbra in un gemito, “forse, non mi è mai servita”.

Si calcavano i contorni di un 1758 che traboccava caldo e sudore; sfiorava le campagne il sole, sfiorava le guglie della gotica città Torinese, carezzava con troppa forza i san pietrini del luogo.
L’Accademia torceva il naso ed annaspava il suo sorriso- stupidamente, attribuì gli umori appiccicosi dell’afa all’anomalo bruciore che il persiano Morad Jahandar dei Farrokhi aveva portato infra le scale marmoree e le grandi navate. Che fossero state le sue vesti, di così vistosi colori? L’occhio acuto, brillante e nero; forse fu il suo sorriso, la sua ambizione e il suo astio verso un ben conosciuto Lupo a portare i placidi venti di Scirocco?

Giugno 1758, in parallelo alla via Alighieri, ora sedicesima

Raggiunse il campetto di corsa, calpestando le spighe e l’erbacce e i soffioni, tenendo stretta a sé la bicicletta nera, stanca più di lui ma ben funzionante.
Lucio era veloce, poiché conosceva la stradina di terra battuta che portava ad un piccolo campetto- là, dietro l’accademia reale, dove si alzava la polvere e una quercia tanto bella da esser scambiata per una compagna. Aveva grandi fronde robuste, foglie dorate e fresche, portava ai suoi piedi gobbe di radici tanto grandi da non riuscir a sprofondare con dovizia, che divenivano panchine e ritrovi per i soldatini in pausa.
Nel campo dietro a via Alighieri vi era il suono delle campanule fiorite, il riverbero lontano di una piccola fontanella e l’aspra terra battuta ornata di verde e placidi germogli maturi- un melo sostava selvaggio e solitario, offrendo frutti teneri e farinosi, ma gratuiti e ben graditi.
Il romano afferrò una piccola mela giallognola, strappandola alla madre e mordendola con gusto.  Si bagnò le labbra col succo dolce, pensando che le felci stavano soffrendo il calore e l’erba si sforzava per essere fresca- la natura gli ricordò Ariovisto e il suo continuo spogliarsi della divisa a causa di un sole malandrino e troppo acuto. Sperò di trovare l’amico appuntato su un ramo, il suo aspetto silvano a decorare la grande quercia, il fare pensoso volto al nulla.
La sua compagnia gli era cara poiché quell’essere suscitava interesse, e ai suoi occhi era ancora un animale posto in cattività, che ancora ringhiava e si ribellava al padrone , mostrava i denti non per abitudine ma per il prepotente orgoglio che gli impediva di adattarsi come sarebbe dovuto essere.
Eppure Lucio continuava a far leva sul suo potere di smussarlo- insistenza che portò a pochi risultati, sebbene consistenti: ora Ariovisto lo insultava e provocava in più lingue, col tempo si era fatto non meno selvaggio ma più composto.
Il moro sorrise, vedendo il tedesco seduto ai fianchi delle radici, cercando la solitudine a lui tanto cara. Non era raro che sparisse d’un tratto, lasciando a volte preoccupazione in quel forte ragazzone, Diederik, che spesso lo osservava risentito del malumore che si portano a dietro i fratelli.
-Ariovisto!-
La risposta fu un alzare gli occhi al cielo, un velo d’impazienza a velare gli occhi verdi che si facevano sempre più vicino, “ed è vero, è vero”, Lucio aumenta il passo, tiene stretto il manubrio della bici con la mano destra, “non è ancora in grado di controllarsi”.
-Questo è un marchingegno un po’ complicato, non guardarlo a questa maniera, mica ti mangia!- l’italiano sorrise, accovacciandosi vicino al compagno, attento a non sfiorare il moschetto da tiratore. Il giovane biondo aveva da tempo dimostrato di avere in sé la temibile mira della dea Diana, e l’accademia ne aveva approfittato, offrendogli con un sorriso la possibilità di divenire ancora più acuto e terribile- lo chiamavano Falco sorridendo e ghignando, ma senza osar mettersi sulla sua traiettoria.
- Non mi piace essere disturbato.-
Ariovisto gli regalò uno sguardo torvo, prima di afferrare la mela dalle mani di Lucio per morderla con forza, accigliandosi progressivamente. Era fiorito d’un botto, divenendo alto e slanciato, acuendo i propri lineamenti, facendo divenire la propria espressione ancora più brusca ma sempre bella perché legata ad un aspetto piacente e irraggiungibile.
Il biondo guerriero veniva dalle foreste, e Lucio non poteva immaginare per lui una madre che fosse umana; forse una ninfa, magari una Valchiria, addirittura la Schwartzwald stessa!, con le sue fronde brune e fitte.
- Non disturbo, sono venuto a prenderti. Suvvia, non atteggiarti a me con quell’aria da brigante.-
Lucio gli scostò i capelli, si prese la libertà di sfiorare e tastare il labbro viola e traumefatto, forse desiderando di scatenare in lui una qualsiasi umana reazione. –Ti alleni ancora così tanto? Ti stanchi solo di ascoltarmi mentre cerco di insegnarti qualcosa, a quanto vedo.-
Alla provocazione seguì una risata, a sua volta interrotta da una pesante gomitata nelle costole del romano, che mugugnò e inspirò l’aria calda, borbottando qualcosa a proposito della barbarie incivile che pareva animare Ariovisto.
-Dei, come sei barbaro! Cerca di non far così al nostro prossimo turno!- tossì e si alzò,  incontrando i pochi raggi luminosi che fendevano le foglie e saggiandoli come fossero vino- il romano tratteneva un’energia spaventosa e distruttiva, che inutilmente cercava di distillare infastidendo chi gli gironzolava attorno; energia che sublimava con la buona tavola, con il combattimento e il sesso.
-Vicino ad un bordello.- precisò, sfiorandosi la barba curata coi polpastrelli, mostrando lo sguardo audace di un predatore e un compiacimento che avrebbe causato vergogna in chiunque. Lucio combatteva anche a letto, non era difficile immaginarlo. Dominava, mordeva e grugniva ansiti atti solo a far sciogliere il proprio avversario fra le mani- sentire i muri della pudicizia cedere, il proprio nome invocato come quello di un dio.
- Non so come tu faccia ad essere così insensibile verso le donne, Ariovisto.- ed istintivamente gli occhi si soffermarono sulle labbra, sì belle ma contorte in una smorfia e rosse e viola d’un livido ben evidente. Il biondo non le schiuse, chiudendo il proprio pensiero fra i rami boschivi della sua mente, forse segregandolo col muschio umido del nord.
-Ti piacciono gli uomini?- Lucio borbottò tranquillo, non vedendo mali nella sua curiosità, che era ora limpida e acqua zampillante che tossiva poco più in là- non v’era malizia sul volto, poiché concentrato a stirare le pieghe della divisa blu e non sullo spintone che gli rivolse l’amico, che aveva cara la propria intimità quanto lui i vini rossi della Puglia.
-Sei sfacciato.- la voce di Ariovisto era un contrasto duro e dolce, un addio definitivo alla sua fanciullezza.
-E tu un incivile! Staresti meglio a vivere nelle foreste con i lupi, bifolco!-
Seguirono pochi passi, colpi e mugugni, una risata e ringhi sommessi che fecero da eco ai loro passi, al ticchettare di quell’arnese che Lucio portava sottobraccio.
Si chiudevano le parole in quel campetto ora vuoto, che ora ospitava solo briciole di una compagnia: l’eco del parlottare di Lucio, le risposte secche di Ariovisto, e nulla più che un torsolo di mela lanciato distrattamente nei pressi della quercia.

Giugno 1758, vicolo di guardia, ora ventunesima

Fu complicato schiarire la vista sugli edifici storti, sui mattoni sporchi quanto il vociare confuso degli avventori di ogni tipo; chi cercava il sorriso rincuorante del vino, chi il calore che poteva offrire una prostituta dai tratti esotici.
L’aria era densa e malfatta, era storta e alcolica, eppur Iago non voleva farci caso: fischiettava una melodia malata, alla quale ogni tanto lasciava aggiungere qualche parola tanto grezza che pareva stonare con la perfetta musicalità della sua voce.
Il tragitto era stato intervallato da un gorgogliare sommesso, di come Connell salutò Ariovisto nominandolo fanciullina e proponendosi da fargli d’accompagnatore, e di come Ariovisto contrattaccasse con ruggiti pari a quelli delle più violente fiere. Il discorso degenerò quando Lucio vide le belle forme di una donna, e contemporaneamente il vulcano irlandese chiese all’amico biondo quanto volesse per un servizietto- senza alcuna remora, per carità.
Infine, dopo un gancio destro andato a segno, il romano si fece guidare nei suoi giudizi dalla vocalità di Iago, soffermandosi sulla diaspora forzata della scorta, sui tendaggi indaco e porpora che vide fluttuare all’entrata della casa di piacere.
Pensò a Morad, pensò che non sarebbe stato piacevole trovarlo in certi atteggiamenti- eppure il cuore di Lucio esplose adrenalinico, non vide più donne ma un’eccitante occasione d’un inconsueta lotta; strinse lo spadino, i pugni, brillò della sua solita alterigia sperando quasi di poter afferrare con forza e superiorità i capelli corvini del persiano, invitandolo allo scontro.
Era tanto preso nella gloriosa elucubrazione, che non badò più alla sgangherata melodia che uno dei suoi compagni gli offriva, tantomeno alle lamentele di Connell circa il dolore al naso- ignorò stupidamente e inconsapevolmente il frastornante battito del cuore di Ariovisto.
Egli guardava rapito un voluttuoso vortice di capelli rossi e lentiggini chiare; osservava una donna preso dolcemente dal desiderio di sfiorarla e di carpirne il nome- divenne rosso quando incontrò gli occhi verdi, il fisico asciutto, le movenze che per lui erano tali a quelle di una fata.
Ariovisto ricordò Liina, dalle guance rosee e dalla fiera timidezza, e non vide nulla di lei nel portamento fiero della fiammeggiante sconosciuta che risvegliava pericolosamente i fuochi della sua pubertà- e lo faceva con la folta chioma vulcanica, le pupille dilatate e curiose  e tanto luminose da ricordare la volta e le stelle.
Fu solo quando la gola divenne secca e i pantaloni troppo stretti, che preferì annegare gli occhi spaventati nel cielo estivo.








Piccolo glossario:
Lucio Tullio Cincinnato (20 anni): Impero Romano
Ariovisto Beilschmidt (17 anni): Magna Germania
Morad Jahandar dei Farrokhi (21 anni): Persia
Olympia (24 anni): Magna Grecia
Iago (21 anni): Gallia
Connell (20 anni): Configurato come padre dei Celti, personaggio creato da Kochei che mi ha gentilmente dato il permesso di poterlo utilizzare nella mia fic.
Liina (16 anni): Aestii
Diederik (23 anni): Scandinavia


Ringrazio di cuore chiunque continui a seguire la vicenda, invitando a lasciare un commentino. Nel caso aveste richieste, dubbi, idee per altri personaggi, sono prontissima ad ascoltare con piacere!
Un grazie speciale a: Cosmopolita, McBlebber, Aranciata_, Adeline Mad, GrandeMadreRussia, H2o, Il_Signore_di che mi lasciano sempre un parere.
Alla prossima (spero il più presto possibile), Blacket.
  
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